venerdì 6 aprile 2012

Il segno di un’antica pietà nei cimiteri napoletani


30/6/2011

La notizia trapelata di recente che anche Napoli si doterà di una struttura per fornire a chi lo desidera la possibilità della cremazione chiude un periodo e tristemente pone la nostra città, legata da sempre al culto dei morti, in un panorama di contemporaneità.
A Napoli esiste un circuito di cimiteri di eccezionale valore storico ed artistico, che meriterebbe di essere conosciuto e viceversa versa in uno stato di abbandono miserevole. Si tratta di ben diciannove distinti luoghi demandati a tramandare ai posteri l’amore verso i defunti ed una traccia di memoria del nostro passato. Sono  complessi grandiosi sorti tra il Settecento ed il Novecento, dall’austero camposanto illuminista delle 366 fosse, all’aristocratica struttura del monumentale di Poggioreale, con l’annesso Nuovo, dall’antico cimitero di S. Maria del Pianto ai numerosi campisanti periferici che servivano gli antichi casali, oltre ad una variegata serie di spazi dedicati alle comunità straniere, ai non cattolici ed alle vittime delle frequenti epidemie di colera. 
Nel 1806, quando venne esteso alla penisola italiana l’editto di Saint Cloud, che prevedeva la localizzazione dei cimiteri fuori dalle mura cittadine, la capitale del Regno delle due Sicilie ne aveva già maturato lo spirito innovatore, sia riguardo all’igiene ed alla salubrità dell’aria degli abitati, sia nel decentramento degli insediamenti funerari. Infatti già nel 1779 la situazione era così allarmante che, su incarico di Ferdinando IV, i medici della Deputazione della salute giudicarono indispensabile vietare le inumazioni all’interno delle chiese, come era avvenuto fino ad allora e creare fuori dalle mura cittadine:”due o tre campisanti, ove potrebbero farsi diverse sepolture, per li vari ceti di persone e per le diverse confraternite, ospedali, e parrocchie”.
Da allora il caotico sviluppo edilizio li ha posizionati  all’interno del tessuto urbano, configurando, in termini fisici ed ideali, uno specifico profilo della più vasta ed urgente problematica che investe le periferie.
Il cimitero continua ad essere più che un luogo di sepoltura dei nostri resti mortali, della nostra misera carcassa, un tempio della memoria, un sito dove la fede si esprime degnamente nella preghiera e nella speranza di una vita ultraterrena.
Camminando tra le sepolture, anche nei cimiteri minori, è possibile osservare un repertorio di espressioni artistiche ora di medio ora di alto livello, promosse da una ricca borghesia desiderosa di tramandarsi ai posteri attraverso la riproposizione di testimonianze architettoniche ed artistiche delle epoche più diverse, facendo si che le sculture funerarie, le cappelle gentilizie o le stesse pietre tombali costituiscano la distinta rappresentazione di una variegata umanità.
Questa nuova classe sociale si esalta all’idea di poter essere eternata grazie ad uno sfarzoso monumento funerario, desiderando ardentemente quello che a lungo era stato appannaggio quasi unico delle famiglie aristocratiche.
Il complesso dei cimiteri napoletani, per numero e per qualità artistica, dimostra quanto fossero diffuse le virtù civiche e la pietas nei confronti dei defunti nel Settecento e nell’Ottocento, pur convivendo con altre forme di culto funerario più popolari e inquietanti per la borghesia illuminista partenopea, come quello ancora vivo del cimitero delle Fontanelle, ricco di valenze antropologiche.
La scomparsa e la inesorabile decadenza economica di tante famiglie ha vistosamente ridotto l’interesse alla manutenzione di molte sepolture gentilizie, complice il trascorrere delle generazioni che allenta, fino ad annullare del tutto la “celeste corrispondenza di amorosi sensi” di foscoliana memoria, tra vivi e morti.
Ai nostri tristi giorni, domina contro le magniloquenti fanfare della memoria,  il dimesso silenzio dell’oblio e di fronte al fenomeno dello snaturamento degli assetti cimiteriali originali causato dal caotico sovraffollamento ed alla luce della criminale spoliazioni dei monumenti funerari per via di furti e vandalismi, urge la necessità di un’azione di recupero e di tutela, possibile veramente solo se i cittadini si riapproprieranno dei luoghi ed ameranno conoscerli e frequentarli.
La morte spesso ci raggiunge all’improvviso, per fatalità, come chiosava magistralmente Totò, ci rapisce nel fiore della vita ed a Napoli e solo a Napoli il più delle volte questa tragedia lascia un segno tangibile del suo passaggio con l’abitudine di decorare con fiori ed altarini e turni di preghiera costanti il luogo della sciagura. Qualcuno addirittura spesso è presente sul posto in alcune ore del giorno e rende note al passante le modalità della vicenda con parole retoriche e strappa lacrime. Da noi, diversamente da qualunque altra città del mondo, l’esercizio pubblico della memoria non è riservato solo ai grandi eventi, ma anche a fatti privati, a morti qualunque.
Altre singolarità nell’ambito cimiteriale si possono osservare solo tra i napoletani, frutto di una maliziosa ingegnosità e di una predisposizione truffaldina, che costituiscono la cifra stilistica di una parte non indifferente della popolazione.
Intendiamo riferirci al subaffitto delle cappelle gentilizie, che famiglie decadute decidono di mettere a disposizione di morti danarosi, anche se non blasonati, mentre addirittura alcune bande specializzate riescono a vendere dei loculi a peso d’oro a chi non riesce a trovare una degna sistemazione per i propri defunti in cappelle abbandonate o anche solo poco frequentate dai discendenti. Esistono alcune bande specializzate nel ricavare sepolture in cappelle private, per rivenderle poi a peso d’oro a chi non trova una degna sepoltura per i propri defunti. Sulla vicenda ha aperto un voluminoso dossier la Procura e delle indagini si interessa un celebre magistrato, passato da tangentopoli a cimiteropoli.
Vi è poi in uno dei cimiteri periferici, quello di Marano, una sorprendente necessità: i vivi debbono fingersi morti prima del tempo, onde evitare che il loculo venga occupato da morti “abusivi”. La domenica i visitatori accendono un lumino a se stessi e si raccolgono in preghiera davanti ad una lapide col proprio nome e cognome. Un comportamento paradossale che ha scatenato la fantasia dei patiti del lotto, i quali suggeriscono di giocare questo terno: 48, il morto che parla, 79, il loculo e 90, la paura di perdere un bene acquistato a caro prezzo.
Passeggiare nel cimitero di Marano è diventata così una sorta di esperienza esoterica: arrivare con un mazzo di fiori e porlo sulla propria tomba o su quella di un amico vivo, dire una preghiera, leggendo sulle lapidi i nomi di parenti ancora attivi, sorridere e piangere allo stesso tempo, rammentando l’antologia di Spoon River, mentre il paradiso può attendere.
Una trasformazione epocale che ha modificato luoghi una volta ameni come Poggio Vallesana, dove a Pasquetta si venivano a trascorrere ore liete, suonando e  mangiando dolciumi o si giocava nella villa comunale, costruita intorno ad un monumento funerario di epoca romana, testimonianza di un passato ragguardevole. Oggi a due passi vi è la discarica di Chiaiano, traboccante di rifiuti, colate di cemento della speculazione edilizia e, inaccessibile, la roccaforte del famigerato clan Nuvoletta, dominante l’intera valle che va dal mare di Lago Patria alla piana dei Mazzoni. Luogo di riunioni tenebrose durante le quali si celebravano processi e si emettevano sentenze di morte.
L’inarrestabile crescere delle sepolture nei cimiteri ha creato una tale situazione di affollamento per cui le nostre città sembrano quasi assediate e soffocate dal regno dei morti, mentre la memoria collettiva si trasforma in indifferenza davanti alla moltitudine di nomi che si affastellano in cappelle smisurate in cemento armato che si innalzano a mo’ di mostruosi grattacieli. Gli spazi dedicati ai morti straripano facendo percepire sinistramente nell’opinione pubblica il problema della sepoltura una tematica analoga allo smaltimento dei residui industriali o addirittura a quello dei rifiuti. Giunti a questo punto di degrado della pietà non resta che accogliere come un auspicio il diffondersi della cultura della cremazione, una triste necessità da apprendere per entrare nella modernità.

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