domenica 28 settembre 2014

GIUSEPPE BONITO



GIUSEPPE BONITO
opera completa



INDICE


  • LA VITA, LA FORTUNA CRITICA, I CAPOLAVORI
  • LE SCENE DI GENERE
  • I DIPINTI CHIESASTICI
  • DIPINTI DI STORIA ED ALLEGORIE
  • I RITRATTI
  • OPERE RESPINTE E BORDER LINE
  • DOCUMENTI
  • BIBLIOGRAFIA
  • ELENCO DELLE FIGURE








sabato 27 settembre 2014

La vita, l’opera, la fortuna critica di Cesare Fracanzano



tav. 1 - Cristo confortato dagli angeli - Napoli quadreria dei Gerolamini


Cesare Fracanzano, fratello del più noto Francesco, nasce a Bisceglie il 16 ottobre 1605 da Alessandro, nobile originario di Verona e mediocre pittore, e dalla barlettana Elisabetta Milazzo. Insieme al fratello seguì il padre nei suoi spostamenti di città in città per eseguire decorazioni e da lui apprese i primi rudimenti dell’arte pittorica, per poi entrare nella bottega del Ribera.
Il padre Alessandro nacque a Verona nel 1567 e del 1605 è la realizzazione del perduto S. Agostino della chiesa eponima di Trani, dove il pittore appare ancora tenacemente legato al tardomanierismo romano: un orientamento che emerge anche nell'Assunta della sacrestia della cattedrale di Monopoli (1607), nel S. Antonio (1612) della chiesa di S. Francesco e nei Ss. Vito, Modesto e Crescenza della chiesa del Carmine a Ruvo, opera pagata nel 1621. Intorno al secondo e terzo decennio del secolo si  lasciò attrarre dalle esperienze pittoriche rese note in Puglia da Palma il Giovane; in tale contesto un ruolo centrale spetta alla Pietà di S. Pietro Caveoso a Matera. Il catalogo delle opere di Alessandro è stato ampliato a seguito della restituzione al pittore di una serie di opere, come la Madonna col Bambino in gloria tra i SS. Eligio e Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Miglionico, il San  Girolamo di S. Maria dell'Isola a Conversano e il San Vito della chiesa del Salvatore a Monopoli.
“Per capire la poliedrica espressione pittorica di Cesare Fracanzano che passa con disinvoltura dalla sconcertante rivelazione caravaggesca alla tonale fusione armoniosa dei Carracci, è essenziale tuffarci per un momento nella realtà artistica e storica del Seicento. La civiltà artistica del Seicento sorta dalla crisi dello splendido mondo cinquecentesco, ha in sé la grandezza, la complessità, le contraddizioni di una delle epoche più tormentate eppure più feconde di tutta la storia d’Europa e riesce a maturare le più alte conquiste spirituali che formano il patrimonio della civiltà moderna. È dalla nuova visione che si ha dell’uomo e della natura e soprattutto dal nuovo profondo amore per la vita che nasce, in un conflitto di forze e di idee nuove, la base di tutte le attività spirituali del secolo.
La Pittura avverte ed afferra di colpo la nuova situazione sociale ed esprime due grandi correnti pittoriche: quella dei Carracci decorativa ed armoniosa, quella tormentata e chiaroscurale di Caravaggio. Ed è in questa particolare atmosfera che vive ed opera il nostro Cesare Fracanzano. È un artista stimato ed apprezzato per la sua ricchissima varietà di linguaggi, di soluzioni stilistiche, d’improvvise accensioni di luci, di armoniose fusioni di colore”. (Maria Picardi Coliac).
Nel 1626 Cesare è documentato a Barletta, secondo quanto attestato dal contratto matrimoniale pubblicato da Vista nel 1907, il 16 luglio si sposa con Beatrice Covelli. Nel 1629 era a Napoli, come conferma un documento di quell'anno relativo all'esecuzione di un’Assunta per il canonico Pizzella segnalato da D'Addosio. Nel 1633 era invece di nuovo a Barletta, come risulta da documenti di commissione relativi ad una S. Monica per la chiesa di S. Agostino e ad un Cristo per il Ss. Sacramento di Ruvo. In quello stesso anno, il 27 novembre, fu battezzata la figlia Margherita. Fino al 1639 si succedettero le nascite dei figli Niccolò Domenico (7 giugno 1635), Domenico Antonio (30 aprile 1637), Nicola Antonio (3 giugno 1638), Domenico Alessandro (21 agosto 1639). La presenza del Fracanzano a Barletta nel 1639 è confermata da due atti notarili del 9 febbraio e 29 marzo, rogati da Francesco Lombardo. La nascita del figlio Carlo Antonio invece è probabile che sia avvenuta a Napoli nel 1640.
La moglie, secondo il De Dominici, fu la sua modella preferita, come conferma la ripetizione tipologica che accomuna la S. Elena (fig. 1) di S. Maria di Nazareth a Barletta, la Maddalena (fig. 2) di S. Domenico Maggiore, l'angelo del Cristo flagellato della Quadreria dei Gerolamini (fig. 3 - tav. 1), oltre che l'Immacolata di S. Maria della Speranza (fig. 4), sempre a Napoli, dove il pittore intervenne a completamento dell'area presbiteriale, progettata da Cosimo Fanzago. Nello stesso periodo egli risulta impegnato nella realizzazione degli affreschi (fig. 5) del coro di S. Maria della Sapienza (1639 - 41), dove intervenne a dare prosecuzione al lavoro in precedenza svolto da Belisario Corenzio per la volta della navata. Dal documento di pagamento, pubblicato da Bonazzi, nel 1888, nel quale viene indicato quale "valente artista", risulta che in tale occasione ricevette un compenso di 525 ducati. È proprio in rapporto ai risultati conseguiti dal più celebre pittore che Cesare attinse alla più moderna visione stanzionesca, potenziandola attraverso il ricorso a spinte barocche di impronta lanfranchiana.
L'estendersi dei contatti con gli ordini religiosi lo portò ad assumere commissioni da parte dei Gesuiti, com'è testimoniato dal San Francesco Saverio che battezzagli indigeni (tav. 2) per la chiesa napoletana del Gesù Vecchio (documentato al 1641). Il modello ebbe fortuna in ambito pugliese e gli procurò una commissione dalla famiglia Carducci Artemisio: realizzò una serie di tondi (tav. 3) di soggetto religioso che fungevano da sovrapporte all'interno del palazzo avito a Taranto, fortemente alterati da impropri restauri alla fine del Settecento come sottolinea lo Speziale. Alla committenza gesuitica è legata anche l'Immacolata (fig. 6 – tav. 4) per la chiesa napoletana di San Francesco Saverio, oggi San Ferdinando. L'opera costituì un prototipo, replicato per la tela (fig. 7 – tav. 5) del coro della chiesa dei Gerolamini, che sortì, anche a distanza di un secolo, particolari implicazioni devozionali, se nella vita del venerabile Gennaro Maria Sarnelli si trova scritto: "e se ei trovavasi ginocchioni innanzi il quadro dell'Immacolata Concezione, opera del pennello del celebre Fracanzano, niuno riusciva a por fine alle sue preghiere". Ce lo ricorda Fra Dumortier, nella Vita del venerabile servo di Dio, padre G.M. Sarnelli.
Cesare si forma in ambito tardo manieristico, accostandosi all’opera di Ippolito Borghese e di Fabrizio Santafede, come testimoniano le tele dell’Episcopio  o l’Educazione della Vergine nella chiesa di San Gaetano, conservate a Barletta.
Sia per Francesco che per Cesare Fracanzano il primo profilo biografico ci viene fornito dal De Dominici, ma le sue informazioni non sempre sono attendibili.
Per Cesare ad esempio egli afferma che partecipò alla rivolta di Masaniello, facendo parte con altri pittori della Compagnia della morte, capeggiata da Aniello Falcone, e si spostò addirittura all'estero per timore della repressione operata successivamente dal conte di Oñate: "questa fu la prima volta ch'egli andò in Francia, ove si dice, ch'ei dipingesse alcune opere assai stimabili. Pure l'amor della Consorte, e de' cari figli tirandolo di nuovo alla Patria, avvenne, che appena giuntovi egli fu fatto prigione, e sarebbe mal capitato, se il suo Protettore Principe della Rocca non avesse impetrato dal Vicerè il perdono tanto a lui, quanto al suo Fratello Francesco", mentre più di un documento ci induce a pensare che egli si fosse ritirato in Puglia sin dal 1646. Il biografò segnala inoltre che sua moglie era di famiglia povera, mentre oggi sappiamo che suo padre possedeva un cospicuo patrimonio e che le aveva riservato una ricca dote.
Pochi sono i  documenti di pagamento ed ancora meno i dipinti firmati e datati, per cui gran parte degli spostamenti tra Napoli e la Puglia ed una precisa scansione cronologica della sua attività sono ancora avvolti nell’incertezza, come pure gran parte della sua produzione è ancora da recuperare, anche per le difficoltà legate ai suoi spostamenti tra Napoli ed i centri minori della Puglia dove operò per lunghi periodi.
Il De Dominici riferisce che negli anni Trenta assieme al fratello frequenta la bottega del Ribera e lo provano le numerose repliche del maestro, tra le quali notevole quella (tav. 6) conservata nel duomo di Castellammare, ma la sua adesione al naturalismo, a differenza del fratello, è superficiale ed accademica, come si può apprezzare in opere di quel periodo, quali il San Giovanni Battista (fig. 8 – tav. 7) del museo di Capodimonte o la Pietà del Pio Monte della Misericordia, da anni in deposito presso lo Stabilimento termale di Casamicciola. Fu così “ impegnato in quell’intenso movimento artistico che tra il ’30 ed il ’40 riunì le forze vive delle nuove generazioni, per una schietta e polemica affermazione del naturalismo, in opposizione ai più diversi temperamenti del verbo caravaggesco nei quali si andava configurando il vivacissimo ambiente napoletano”(Causa).
Il suo naturalismo rimase però limitato ad aspetti esteriori, mentre i suoi interessi, sempre rifusi nel crogiuolo di un eclettismo sperimentale, erano infatti più rivolti a problemi di luce e di colore, piuttosto che di indagine naturalistica della realtà e di resa psicologica.
Si dimostra più disponibile ad accettare le soluzioni pittoricistiche legate alla corrente vandichiana, che si diffondono a Napoli intorno al 1635 e si esprime pienamente in lavori importanti, dal San Michele Arcangelo (fig. 9 - tav. 8) della Certosa di San Martino alla S. Elena (fig. 1) della chiesa di S. Maria di Nazareth a Barletta, dal Cristo confortato dagli angeli (fig.3) del Girolamini all’Immacolata (fig. 7) nella chiesa di San Ferdinando, tutte opere nelle quali Cesare “aderendo agli schemi e modelli classicistici desunti dal Reni e dallo Stanzione, giunge ad una maniera dolce e pastosa dalla calda cromia ed accentuata luminosità”(Spinosa Aurora).
In seguito verrà attratto dai modi lanfranchiani, in primis nella decorazione a fresco (fig. 5) eseguita nel 1640 nel coro della chiesa della Sapienza, ma anche nel celebre Due lottatori (fig. 10 – tav. 9) del Prado  e nel ciclo di affreschi nella chiesa dei SS. Cosma e Damiano a Conversano, raggiungendo “un più avanzato equilibrio tra elementi compositivi e luminismo cromatico, battendo fino in fondo quella strada del classicismo e delle sue implicazioni su cui si era incamminato e che gli fa svolgere in una sorta di sintesi le premesse ad un tempo vandichiane e stanzionesche modulate su un orientamento barocco di ispirazione lanfranchiana”(Pinto).
La svolta lanfranchiana manifesta in tali esiti segna il definitivo distacco del pittore dalle iniziali preferenze tardo-manieristiche (Educazione della Vergine e Sacra Famiglia in San Gaetano a Barletta), già ridimensionate a seguito dei contatti con le cerchie naturalistiche, di cui sono frutto il San Giovanni Battista (fig. 8) conservato a Napoli, nel museo di Capodimonte e l'Adorazione dei pastori (fig. 11) da poco ritornata nella cattedrale di Pozzuoli dopo un ultra decennale esilio nel museo di San Martino. Nel Cristo flagellato della Quadreria dei Gerolamini a Napoli, che il Celano riteneva opera di Luca Cambiaso, il superamento dei limiti tardomanieristici, ancora riscontrabili nella soluzione delle vesti, si manifesta attraverso le ricercate gamme cromatiche che testimoniano un primo orientamento verso le suggestioni prodotte dalla conoscenza di opere di Anton Van Dyck a Napoli. Le sfumature pastose adottate nel contorno dei corpi e l'introduzione dei putti sulla sinistra, dissolti dall'effetto luministico, permettono di collegare tale risultato alla Assunta(tav. 10) del monastero napoletano dei camaldolesi e al Cristo coronato di spine (fig. 12) dell'Accademia del Sacro Cuore di Saint Louis nel Missouri.
Nella Maddalena (fig. 13 – tav. 11) dell'episcopio di Andria, che va considerata in parallelo alla Carità(fig. 14) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, si nota un gusto lanfranchiano che contribuisce ad effetti di vaporosa morbidezza. Nella tela per la cappella Lupi della chiesa del Gesù di Gravina con i Ss. Ignazio di Antiochia e Bibiana (tav. 12), realizzata tra il 1645 e il 1646,  la crescita barocca è percepibile nel luminoso effetto di impreziosimento degli abiti che, se rivela una volontà di allineamento sulle posizioni del fratello Francesco, testimonia anche l'assimilazione di componenti fiamminghe, in forte avanzamento nel quinto decennio del Seicento a Napoli.
Il rientro a Barletta, certamente determinato dagli avvenimenti politici che accompagnarono la restaurazione operata dagli Spagnoli, condizionò fortemente la produzione del pittore riguardo alle sue scelte, data la mancanza di positivi confronti con quella partenopea. Gli incarichi che si succedettero nell'ultima fase della sua attività gli consentirono di rafforzare la propria presenza operativa nelle diverse chiese della cittadina pugliese: come è testimoniato dai lavori per S. Antonio, San Gaetano, S. Maria di Nazareth, S. Maria del Carmelo, il Purgatorio e San Ruggiero.
La sua produzione, legata alla valorizzazione della componente reniana, si impose soprattutto a seguito della scomparsa di Paolo Finoglia nel 1645. A completamento dei lavori avviati da quest'ultimo nella chiesa dei Ss. Cosma e Damiano a Conversano, egli realizzò, alla fine della sua vita, una serie di affreschi che valsero a caratterizzare la struttura decorativa di tale complesso ecclesiastico, affidato alle monache francescane, sì da giungere alla definizione di un modulo decorativo che sarebbe stato in seguito tenuto presente da Angelo Solimena in San Giorgio a Salerno.
Nell'estendere l'intervento pittorico anche agli spazi dei matronei puntò sulle tematiche di Sibille(fig. 15) e Profeti, concentrandosi su "figure solitarie, dove ritornano liberamente alternati i due atteggiamenti fondamentali della sua maniera: quello più contenuto, che potremmo definire classicistico, reniano, e quello protobarocco, che muove le vesti delle Sibille e le accartoccia, come i panni che avvolgono i personaggi nei triangoli sferici della Sapienza" (D'Elia). Sempre all'interno del matroneo intervenne negli spazi triangolari che ornano la controfacciata, rappresentando da un lato San Francesco e dall'altro la principessa francescana S. Elisabetta, oltre che nelle raffigurazioni dei puttini che animano gli spazi triangolari di sostegno alla cantoria, sempre nella controfacciata, e di quelli che popolano i sottarchi delle cappelle. A lui spettano pure i dipinti sovrastanti le cappelle e l'altare maggiore, dove la tela con i Ss.Cosma e Damiano rappresenta la sintesi dell'iter figurativo dell’artista: "dati i caratteri veramente singolari che presenta e che, particolarmente per quanto riguarda l'aspetto cromatico, giocato sui colori complementari, e la sontuosa, insistita suggestione tattile delle vesti dei due personaggi, non può spiegarsi se non con l'incontro napoletano di Cesare con i pittori di ascendenza fiamminga" (D’Elia).
Il pittore ritornato in Puglia, con le sue ultima prove riesce a rinnovare le tendenze accademizzanti della locale cultura artistica della prima metà del secolo, anticipando alcune delle soluzioni del barocco. Egli, in anticipo su Preti e su Giordano, sperimenta le esperienze del neovenetismo romano, immergendo i temi consueti ed altre differenti desunzioni culturali, soprattutto dal Vaccaro, in una densa atmosfera cromatica, che rappresentava per Napoli un inedito sentimento della luce.
Si spegne intorno al 1652 a Barletta, tra la fine del 1651, data a cui risale il suo testamento, e il novembre del 1652, quando la moglie risulta vedova, dopo aver lasciato nella tela dei SS. Cosma e Damiano (fig. 16) a Conversano una sorta di testamento spirituale, in cui si compendiano le sue posizioni formali e se ne distillano in una resa personale le componenti.
Successiva alla morte del pittore è la vendita di due quadri al principe di Cursi, raffiguranti la Carità romana e Abele ucciso da Caino (22 maggio 1656: Nappi, 1992). A un cambio di proprietà è dovuta anche la presenza in Spagna dei Lottatori, oggi al Prado (ma già dal 1700 registrato nelle collezioni reali del Buen Retiro), la cui datazione va riferita alla fase napoletana del pittore, nel quinto decennio. Alla committenza privata si riferisce, inoltre, la seguente indicazione del De Dominici: "Anche il Duca di Campomele… ordinò a Francesco alcuni quadri per ornamento della sua casa…; e Cesare altresì fece alcune mezze figure di Filosofi a richiesta del Duca mentovato, e alcune storie del Vecchio Testamento, che si veggono intagliate ad acqua forte".
Molte opere del Fracanzano sono conservate nella sua città natale:
Chiesa di Santa Maria di Nazareth, quattro tele: La Sacra Famiglia, detta anche la Presentazione, San Francesco Saverio, Sant'Elena e Immacolata;
Chiesa di Sant'Andrea, una Natività;
Chiesa della Madonna del Carmine, Immacolata;
Chiesa di San Ruggero, due opere: Crocifisso, San Nicola di Bari;
Chiesa di San Gaetano, due tele: Sant'Anna, una Sacra Famiglia;
Palazzo arcivescovile: Natività, Il martirio di San Sebastiano, Immacolata e Santi, Cristo apparso a San Francesco, provenienti dalla chiesa di Sant'Antonio;
Chiesa del Purgatorio: la Madonna dei suffragi e Testa dell'Eterno;
Pinacoteca di Barletta, collezione Gabbiani, tre tele: l'Assunta, San Pietro e San Giovanni della Croce.
La fortuna critica dell’artista oscilla dal parere sostanzialmente positivo dell’Ortolani che gli dedica alcune pagine nel catalogo della memorabile mostra del 1938 su tre secoli di pittura napoletana, a quello più severo di Causa nel suo monumentale saggio dal Naturalismo al Barocco.
Partiamo dal primo che divide la sua opera in quattro periodi, collocando all’inizio il suo discepolato nella bottega del Ribera, per passare poi agli anni trascorsi a Barletta dove sviluppa i temi della sua educazione, cercando di penetrare del naturalismo riberiano i canoni figurativi accademici. Tipiche le quattro tele della crociera in S. Antonio, fra cui la Natività, meglio riuscita, mostra anche influssi veneti. Verso il ’39 elabora una sua formula personale, che si può apprezzare nelle opere conservate nella chiesa di S. Maria di Nazareth, come la pacecchiana Immacolata, il San Francesco Saverio, imitato dal Ribera; il San Giuseppe col Bambino e la S. Cecilia, il mediocre Battista del San Sepolcro e la Famiglia della Vergine nella chiesa di San Gaetano.
Stile personale che si dispiega “ nei tipi intensi di rustica vitalità, nelle lente spiegate superfici, nella grana pastosa del colore riberiano, nella bassa e fulva intonazione che gli è cara, senza violenti contrasti di luce, ma diffusa in una densa atmosfera pittorica, dove si calano le carni, i panni, i velli in pigre masse di gialli, di bruni, di marroni, pur non perdendosi mai il senso naturalisticamente integro della forma”.
Questo s’afferma con barocca inerzia, negli affreschi della Sapienza che aprono il secondo periodo napoletano; ma quel massoso barocchismo paesano non manca di sapore originale.
Eccolo poi impegnato “sempre nel limite dell’oratoria riberiana” le due tele (tav. 13 - 14) del Pio Monte della Misericordia, la pala della Vergine con Isaia, David e S. Agostino (fig. 4) a S. Maria della Speranza, l’Immacolata (fig. 6) di San Ferdinando, affollata di angeloni, l’Angelo custode(tav. 15) e le due Sante dei Gerolamini (tav. 16), in questi ultimi dipinti prevale “ l’antica maniera fulva e stoffosa” ripresa dagli esempi del fratello.
Egli si ispira poi alla maniera romana sull’andare del Lanfranco, nei Due lottatori (fig. 10), firmati, del Prado.
Tornato a Barletta esegue numerose opere tra le quali l’Adorazione nella chiesa di S. Andrea, la Sacra Famiglia con S. Anna e San Gioacchino al Monte di Pietà e la Famiglia della Vergine nella cattedrale di S. Angelo dei Lombardi, dipinti in cui la “ pannosa sostanza del colore penetra di sé le immagini e pittoricamente le trasfigura. Nel San Nicola di Bari in San Ruggero vediamo il punto d’arrivo di quest’arte così terrena e modesta, ma così densa di vita; quando visione e pittura s’incontrano in puri valori di luce, di una pittoricità plasticamente sostanziata, punctum saliens dell’esperienza stilistica secentesca, cui tanto s’aggirerà intorno, e senza mai così spontaneamente e felicemente coglierlo, Luca Giordano”.
Diverso il parere sull’artista di Raffaello Causa: “ma quanto il fratello più giovane, Francesco, si inserisce in un preciso movimento della pittura napoletana, tanto Cesare si isola, per intima capacità di indipendenza o per insofferenza dei moduli correnti. Si è parlato molto, per lui, di rapporti con Ribera e Guido Reni, Stanzione e Van Dyck, e persino di una chiave monumentale che sa di rievocazione battistelliana. In realtà io non trovo nulla di tutto questo, ma solo la modesta prova di un riecheggiatore provinciale sostanzialmente propenso a basse rimanipolazioni di cultura manieristica alla Imparato, alla Santafede: l’Assunta tra i due San Giovanni della chiesa della Sapienza, la incredibile Immacolata (tav. 2) del Gesù Vecchio, o la ancora più ridicola Immacolata (fig. 7) della chiesa dei Girolamini, tutte a Napoli, il San Nicola della chiesa di San Ruggero a Barletta o la S. Elena (fig. 1) della chiesa di Nazareth anche a Barletta sono, al proposito, prove estremamente esplicite. E proprio in ambito manieristico alla Curia, s’inserisce il risultato più alto della sua produzione, la giovanile tela col Cristo confortato dagli angeli (fig. 3) della pinacoteca dei Gerolamini. E che poi questo pittore dieci o quindici anni dopo, rifacendosi all’impronta, sui modelli di Do o del Maestro degli Annunci realizzi la Natività (tav. 6) del  Duomo di Pozzuoli, subito dopo Artemisia ed avvalendosi certo del suo insegnamento, questo è solo  prova nell’intima fragilità della sua struttura culturale, da manierista réfoulé. (A tal proposito bisogna ricordare che lo stesso tema era stato affrontato dal pittore in precedenza nella grande tela della chiesa di S. Antonio ed in S. Andrea a Barletta e poi ad Acquaviva delle Fonti nella chiesa di S. Chiara).
Il celebre studioso continua la sua trattazione su Cesare, ricordando come egli attingesse ad iconografie stanzionesche, come nell’Ascensione di Maria (tav. 10) della chiesa dei Camaldoli a Napoli o riberiane, come nella Pietà conservata presso l’Istituto termale del Pio Monte della Misericordia a Casamicciola, ma sempre impersonale ed evasivo non d’altro interessato che di risolvere questo insueto problema. Di un colore grumoso, impastato, che vibrasse di luce calda, evitando, nel piacere di un impasto feltrino e soffice, l’asperità della sua luministica. E insomma la cultura nuova di Roma, sì il neovenetismo, ma ad orecchio, fatto in casa, senza ingegno né estro. Avendo capito ben poco”.
Chi vorrà ammirare le altre immagini dovrà attendere l’uscita, imminente di Cesare Fracanzano opera completa, di cui questo è il primo capitolo

tav 2 - La Vergine appare a San Francesco Saverio - Napoli, chiesa del Gesù Vecchio

tav. 3 -Filosofo Bari, Pinacoteca provinciale

tav. 4 - Immacolata Concezione - Napoli chiesa di San Ferdinando

tav. 5 - Immacolata - Napoli chiesa dei Gerolamini

tav. 6 -Adorazione dei pastori - Castellammare di Stabia, Duomo

tav. 7 - San Giovanni Battista  - Napoli museo di Capodimonte

tav. 8 - San Michele arcangelo che schiaccia il demonio - Napoli chiesa della Certosa di San Martino
tav. 9 - Lottatori (Ercole e Anteo) -- firmato - Madrid Prado

tav. 10 -Assunta - Napoli, Eremo dei Camaldoli

tav. 11 - La  Maddalena al sepolcro - Trani, Episcopio

tav. 12 -S. Ignazio di Antiochia e S. Bibiana - Gravina di Puglia, chiesa del Gesù

tav. 11 - La  Maddalena al sepolcro - Trani, Episcopio

tav. 14 - Miracolo di un indemoniato - Napoli, quadreria del Pio Monte della Misericordia

giovedì 11 settembre 2014

Andrea Vaccaro OPERA COMPLETA


INDICE
  • Andrea Vaccaro, la vita, le opere, la fortuna critica 
  • I dipinti di Andrea Vaccaro per le chiese napoletane
  • L’ostentazione del nudo nelle scene di martirio
  • I quadri più importanti 
  • Soggetti mitologici e testamentari
  • Le committenze in Spagna
  • La grafica
  • Bibliografia
  • Documenti per Andrea Vaccaro
  • Indice delle figure






In libreria l’ultimo libro di Luciano De Crescenzo



Ti porterò fortuna. Guida insolita di Napoli


L’ultima fatica letteraria di Luciano De Crescenzo è un elogio del vernacolo che da secoli si parla all’ombra del Vesuvio.
Lo spunto che fa partire il racconto è costituito da Carla, una studentessa bolognese che, dovendo compilare una tesi sul grande scrittore, vuole conoscerlo e lui la invita per approfondire il suo pensiero a passeggiare con lui per alcuni giorni per le strade ed i vicoli di Napoli.
Si parlerà così di filosofia e di arte di arrangiarsi, citando Diogene e Raffaele il posteggiatore abusivo, Platone e Taniello il principe degli osti partenopei, ma soprattutto si parlerà del dialetto, che si vorrebbe far morire, fortunatamente senza successo.
Tempo fa un europarlamentare napoletano, Enzo Rivellini, ha pronunciato un discorso a Strasburgo, ad una seduta dell’europarlamento, in perfetto vernacolo, scatenando il panico tra gli interpreti e lo stupore dei colleghi. Intervistato dalla stampa internazionale candidamente ha affermato che il napoletano non può essere assolutamente considerato un dialetto, bensì una lingua a tutti gli effetti, con la sua grammatica e la sua letteratura ed, aggiungeremo noi, con un suo patrimonio canoro conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, grazie ad alcuni celebri ambasciatori, tra i quali, negli ultimi anni, il compianto Pavarotti.
La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo sottocultura, perché essa è stata definita nei secoli da Vico ”lingua filosofica”, da Galiani ”il volgare illustre d’Italia degno degli ingegni più vivaci”, da Croce “gran parte dell’anima nostra” senza parlare della poesia animata da vivacità e fantasia, passione ed amore, in grado di essere intesa anche da chi non ne riconosce correttamente le parole.
Un altro terreno fertile che ci permette di apprezzare la nobiltà del napoletano sono i numerosi proverbi, frammenti di saggezza antica, come li definiva Aristotele, che mettono in evidenza come il napoletano sia una lingua, non un dialetto, con la sua grammatica e la sua letteratura, ma come tutti gli idiomi ha debiti verso le parlate precedenti, principalmente il latino. Per molti proverbi napoletani corrisponde un’antica dizione nella nobile lingua di Cesare e di Cicerone.
Nel folclore napoletano, pregno di filosofia e di sentenze ammonitrici esiste un immenso patrimonio di modi di dire, spesso in rima, frequentemente dedicati alla donna, che rappresentano l’espressione di una civiltà prevalentemente contadina. Questi motti sono assurti a dignità letteraria soprattutto nel Seicento ed affrontano con occhio bonario le infinite sfaccettature dell’esistenza e per la donna esaltano i piaceri ed i dolori della vita coniugale, le tentazioni della carne, il rapporto con i figli ed il marito, il rispetto di un ferreo codice morale. Alcune immagini posseggono un’icastica potenza, mentre il linguaggio, spesso scollacciato e pittoresco, garantisce una meditazione comica ed accattivante. Dagli adagi napoletani traspare, rispetto a quelli toscani, un’impostazione più benevola e meno graffiante ed una maggiore considerazione delle qualità muliebri, dall’illibatezza alla fedeltà, dal maternità alla riservatezza.
La lingua napoletana non è altro che il volgare latino della regione, come il toscano per la Toscana, al quale si sono poi sovrapposte le parlate degli invasori.  Una vera novità, infatti basta sfogliare qualsiasi vocabolario etimologico del nostro vernacolo per constatare come per la maggior parte delle parole sia stata ipotizzata una radice spagnola o francese.
Al fianco dei proverbi, che furoreggiarono nel Seicento, gli indovinelli caratterizzarono il Settecento, secolo della grazia arcadica e della saggezza sottile. Gli autori anonimi di questi indovinelli, sempre segnati da umorismo e spensieratezza, furono più letterati che popolani, ma danno l’esatta misura di quella prorompente fantasia e di quella innocua malizia che ha sempre contraddistinto lo spirito e l’anima immortale della napoletanità.
Ne citiamo qualcuno breve:

“tutt’efemmene ‘a teneno sotta,
chi ‘a tene sana e chi ‘a tene rotta
chi ‘a tene doie dita
chi a tene quatt’ dita” 
(la piega inferiore della veste)

“papa ‘o ‘ntosta  e mamma l’ammoscia” 
(il sacco di farina)

“ tuosto e liscio o calai
cavere e muscio mo tirai
‘ncuorpo mammete so chiavai” 
(il maccherone)

Considerazioni che mettono in evidenza l’importanza delle tradizioni napoletane e che deve ammonirci a conservare il nostro passato e i nostri dialetti, anche se tutti dobbiamo oramai parlare la stessa lingua, con buona pace di Bossi e dei suoi scriteriati colonnelli.
Un’altra caratteristica pregnante del vernacolo è la presenza di molte parole onomatopeiche, cioè termini che già dal suono rendono l’idea dell’oggetto rappresentato, come il cannarone, che dà la chiara sensazione del passaggio dei liquidi o, volendo essere un poco trasgressivi, la osannata pucchiacca, una vera e propria melodia di rumore.
Achille della Ragione

Brunetti Vito - Tarantella

lunedì 8 settembre 2014

Una monografia su Giuseppe Bonito

  Il volume si può acquistare  presso le librerie:
Libro Co. Italia, tel. 0558229414 – 0558228461; e-mail: libroco@libroco.it
Libreria Neapolis, tel. 0815514337; e-mail: info@librerianeapolis.it
oppure contattando direttamente l’autore all’indirizzo: a.dellaragione@tin.it


Giuseppe Bonito attendeva da tempo una monografia che mettesse in mostra non solo le sue eccelse qualità di ritrattista, ma nello stesso tempo la capacità di fotografare intriganti allegorie e divertenti scene di genere.
Il vuoto negli studi è stato colmato da Achille della Ragione, il quale ha raccolto e commentato 150 immagini in gran parte a colori, aggiungendo numerosi inediti al catalogo del pittore.
Inoltre sono raccolti tutti i documenti di pagamento ed una esaustiva bibliografia con oltre 100 citazioni.
La critica dell'Ottocento e del primo Novecento ha apprezzato nel Bonito solo il pittore di genere, che come tale avrebbe precorso il realismo e valorizzato le virtù borghesi al contrario, la critica recente riconosce in lui il custode della più schietta tradizione pittorica neoveneta, che ha contribuito a ritardare sino ai limiti del possibile l'avvento del neoclassicismo.
A lungo la sua fama fu legata, non soltanto sulle sue qualità di brioso compositore di macchine decorative, di ritrattista aulico, ma soprattutto come autore di singolarissime scene di genere, fino a quando nel 1927 Roberto Longhi, sul fondamento dello stile e su dati desunti da dipinti firmati, rivendicò ad un fino allora ignoto pittore: Gaspare Traversi, il quale si dichiarava napoletano nel Sant’Antonio della Cattedrale di Parma, la paternità di gran parte di quelle tele.
A partire dal 1749 fu impegnato in una serie di ritratti ufficiali di personaggi della famiglia reale, oggi conservata tra i Palazzi Reali di Caserta e Madrid e dell’aristocrazia napoletana.
Nel campo della ritrattistica egli trasse inizialmente lo spunto da germi ancora vivi dell’antica naturalezza solimenesca per fissare puntualmente le fisionomie e nei primi lavori, come ricorda il De Dominici, “si vide il dono particolare ch’egli aveva in questa parte, dappoichè oltre ad essere somigliantissimi, erano situati in buone positure e pittoresche azioni”.
Bonito occupò numerose cariche accademiche: da pittore di camera del re (1751) ad accademico di San Luca (1752) e direttore dell’Accademia del disegno (1755).
La sua produzione più celebre è legata alla ritrattistica, nella quale rappresenta con un’acuta osservazione dal vero un’infinita gradazione di tipologie fisiognomiche, che comprendano l’intera scala di espressioni umane. I suoi quadri raffigurano insigni personaggi della corte e della nobiltà napoletana, sottoposti ad un’introspezione psicologica accurata, prima che i volti trapassino dalla caducità della vita all’immortalità della tela.
Riuscì ad amalgamare elementi di cospicua eleganza formale e di sicura piacevolezza pittorica con un moderato naturalismo, in linea con la locale tradizione figurativa.
In definitiva un libro che non potrà mancare nella biblioteca dello studioso o del semplice appassionato, desideroso di conoscere uno dei massimi esponenti della pittura del Settecento napoletano

Elvira Brunetti

Giuseppe Bonito: Concerto - Norfolk, Chrysler Museum

Giuseppe Bonito: Concerto in famiglia - Imperia antiquario Giovanni Giorgi

Giuseppe Bonito: Cacciatori e villanelle - Parigi Galerie Canesso

Giuseppe Bonito: La Caritá  - firmato e datato 1742 - Napoli Cappella del Pio Monte di Pietá

Giuseppe Bonito: Re Salomone prega davanti al tempio di Gerusalemme  - Napoli, Museo di Capodimonte

Giuseppe Bonito: Solimena (copia da) - Napoli collezione della Ragione

Giuseppe Bonito: Calvario- Ischia, chiesa dello Spirito Santo

Giuseppe Bonito: Maria Carolina - Roma collezione Onofri

Giuseppe Bonito: Niccolò Jommelli  - Napoli, collezione Pagliara del Suor Orsola Benincasa

Giuseppe Bonito: L'ambasceria turca presso la Corte di Napoli -firmato e datato 1741 - Madrid museo del Prado

Giuseppe Bonito: La Veronica - Roma collezione Di Loreto

 Giuseppe Bonito: Ritratto di un nobile fanciullo - Napoli collezione Carignani di Novoli

Giuseppe Bonito: Cleopatra Napoli, museo di Capodimonte

Endometriosi impariamo a conoscerla



L’endometriosi è una malattia ginecologica molto comune, che può arrecare dolore ed infertilità. Si tratta di una patologia complessa, provocata dalla presenza di mucosa uterina al di fuori della sede naturale.
Per intenderci immaginiamo l’utero come un vaso al cui interno cresce un’erba che ogni mese in occasione delle mestruazioni fuoriesce all’esterno, quando questa mucosa(erba) invece di trovarsi nella sua sede naturale si localizza in altri posti:tube, ovaie, peritoneo, intestino, inducendo infiammazioni croniche, aderenze dolorose e spesso infertilità, perché ogni mese sotto l’influsso degli ormoni femminili sanguina, provocando irritazione dei tessuti circostanti.
L’endometriosi è spesso dolorosa (60% dei casi circa) fino ad essere invalidante, con sintomi molto caratteristici: dolore pelvico cronico, soprattutto durante il ciclo mestruale, in concomitanza con lo stesso o durante l'ovulazione, dolore ovarico intermestruale o durante l’evacuazione. Talvolta l’endometriosi è riscontrabile anche in sede intestinale e vescicale ed i sintomi sono quelli tipici della cistite o anche di incontinenza senza che risultino infezioni batteriche o virali a carico della vescica. La loro ricorrenza ciclica è un elemento determinante per distinguerne le cause. La paziente può inoltre manifestare mestruazione abbondante o perdita di sangue al di fuori della mestruazione.
La diagnosi non è semplice ed a volte richiede un’indagine invasiva quale la laparoscopia.
Diverse sono le ipotesi riguardo la causa che provoca l’endometriosi, ma la paziente vuole conoscere soprattutto come è possibile curarla.
Si può utilizzare una terapia antidolorifica, mediante farmaci antiinfiammatori o ormonale, riservando la terapia chirurgica ai casi più gravi, quando le aderenze sono particolarmente estese. In tal caso si interviene attraverso la laparoscopia.
Si stima che circa il 10% delle donne in Europa sia affetto da endometriosi, la quale è responsabile di un terzo dei casi di infertilità femminile. Solo in Italia le donne con diagnosi conclamata di endometriosi sono almeno 3 milioni,  
I tempi medi di diagnosi dalla prima comparsa dei sintomi, che avviene tipicamente in età giovanile, è mediamente superiore ai 10 anni, un tempo che deve ridursi sensibilmente.