martedì 26 febbraio 2013

Castelnuovo una superba fortezza

Maschio Angioino

Nel 1266 Carlo D’Angiò, quando conquistò Napoli, non trovò adeguata la residenza reale di Castelcapuano, nonostante Federico II l’avesse resa sfarzosa, per cui volle costruirsi un castello fortificato che affacciasse sul mare.
Scelse il “Campus Oppidi”, una località fuori dalle mura, dove sorgeva una chiesetta francescana, che venne demolita e ricostruita altrove.
Affidò i lavori a due architetti francesi, Pierre De Chaule e Pierre D’Angicourt, che, lavorando alacremente, la completarono in soli 56 mesi, dotandola di 4 torri di difesa, un profondo fossato ed un ampio ingresso, al quale si accedeva da un ponte levatoio.
Il re non riuscì mai ad abitarla perché impegnato nei Vespri Siciliani, scoppiati nel 1282, ed a sedare una sommossa popolare a Napoli.



Arco di Trionfo
Ne prese possesso nel 1285 suo figlio Carlo II, il quale provvide ad abbellirla, affidando le decorazioni interne a Pietro Cavallini e Montano D’Arezzo, mentre il suo successore Roberto D’Angiò, detto il “Saggio”, si servì anche del sommo Giotto, a Napoli dal 1328 al 1333, il quale affrescò le pareti della cappella palatina con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, di cui rimangono piccoli lacerti, ma che all’epoca furono molto ammirate, anche dal Petrarca, che le descrisse nell’”Itinerarium Syriacum”.
Il re fu grande amante delle lettere e delle arti per cui creò un vero e proprio cenacolo con pittori, letterati e poeti, oltre ad una rinomata scuola di giuristi: da Andrea D’Isernia a Bartolomeo Caracciolo e Cino da Pistoia.
Tra le mura di Castelnuovo si consumò anche il “gran rifiuto” di Celestino V, uno dei pochi precedenti, in 2000 anni di Chiesa, dell’abdicazione di Benedetto XVI.
Il 12 dicembre 1294, nella sala maggiore, da allora detta del “tinello”, il vecchio eremita, davanti alle alte cariche della Chiesa, lesse l’abiura, si sfilò l’anello, rimase in cotta bianca, benedì il popolo e si ritirò a vita privata.
Dieci giorni dopo, nella stessa sala, il conclave elesse pontefice Benedetto Caetani, il famigerato Bonifacio VIII, che Dante collocò nell’Inferno.

cortile, scala d'accesso Sala dei Baroni; capella di Santa Barbara


Sala dei Baroni
Alla morte di Roberto I il Saggio, il “Maschio” fu abitato da Giovanna D’Angiò, donna dai costumi disinibiti, che fece uccidere il marito, fratello del re d’Ungheria, scatenando le ire del popolo guidato da Tommaso De Jaca, che fu eliminato dall’amante della regina. A vendicare il fratello intervenne personalmente il sovrano magiaro, il quale saccheggiò il castello, senza però catturare la regina, scappata prudentemente in Francia.
Il maniero fu ridotto in uno stato pietoso a tal punto che alcuni storici raccontano che divenne una sorta di lupanare.
A consolidare questa leggenda collaborò anche la seconda regina di nome Giovanna, sorella di Ladislao, la quale consumò una serie frenetica di amplessi con giovani di ogni estrazione sociale, che, dopo la coniuxio, venivano eliminati attraverso una botola.
Nel 1442 vi fu un cambio di dinastia con la corona di Napoli cinta da Alfonso D’Aragona, detto il ”Magnanimo”, grande mecenate e protettore delle arti, sul modello di Lorenzo il Magnifico a Firenze. Fondò la celebre Accademia Pontaniana, che riunì i migliori ingegni del tempo, da Sannazaro a Summonte, fino a Masuccio Salernitano, autore del “Novellino”, una raccolta di novelle alla maniera del Boccaccio.
Il re fece imponenti lavori di consolidamento ed anche gli ambienti interni furono abbelliti da maestri spagnoli, quali Guglielmo Segrera, a tal punto che il pontefice Pio II paragonò il castello alla reggia di Dario.
La sala maggiore è un miracolo di statica architettonica con il soffitto a costoloni. Essa prese il nome di “Sala dei Baroni” perché nel 1486 il figlio di Alfonso, Ferrante D’Aragona, riunì tutti i nobili del regno, che gli erano ostili e, fingendo una tregua, diede ordine di arrestarli in massa.
Alfonso volle lasciare un messaggio ai posteri del suo ingresso in città e fece erigere uno spettacolare Arco di Trionfo che rappresenta una delle più belle opere del Rinascimento, al quale lavorarono Guglielmo Da Majano, Luciano Laurana, il Pisanello e Pietro Da Milano, i quali realizzarono un delicato equilibrio tra volumi e spazi, coniugando valori plastici ed architettonici in un insieme estremamente armonioso.
La realtà storica è alquanto diversa  perché Alfonso conquistò la città non attraverso una battaglia, bensì introducendosi con i suoi guerrieri attraverso una cloaca, sbucando da un pozzo in un cortile di Santa Sofia: a conferma della verità, vi è una pensione annua di 36 ducati alla portiera dello stabile, le cui ricevute sono conservate nella Tesoreria Aragonese.
Grande interesse rivestono le porte di bronzo del castello, attualmente conservate nel Museo Civico del Maschio Angioino, che presentano degli squarci: in uno di questi fa bella mostra di sé una palla di cannone. I sotterranei del castello presentano tetre prigioni corredate da catene arrugginite e porte cigolanti.
Durante gli scontri tra Spagnoli e Francesi, Carlo VIII saccheggiò il maniero che, piano piano, perse d’importanza, nonostante Carlo V vi soggiornasse nel 1535 e Don Pedro Da Toledo lo circondasse con un’ampia cinta bastionata.


volta Sala dei Baroni
I Borbone preferirono altre sfarzose residenze, anche se Ferdinando I provvide, con un agile ponte, a collegarlo al Palazzo Reale.
Nel secolo scorso la decadenza ha raggiunto l’acme quando fu trasformato in uffici, tra i quali la Direzione della Nettezza Urbana , e, soprattutto, la Sala dei Baroni, che aveva accolto Pontefici e Cardinali, Re e Regine, si trasformò in aula del Consiglio Comunale, dove gli eletti del popolosi abbandonavano ad insulti e scazzottate, mentre turbe di disoccupati esasperati lo assediavano reclamando il miraggio di un lavoro.


porta bronzea


DISCORSO TENUTO IN OCCASIONE DELLA VISITA DEL MINISTRO DELLA SALUTE BALDUZZI AL GRUPPO UNIVERSITARIO DI REBIBBIA




Signor Ministro, direttore, professori, colleghi, sono Achille della Ragione, divenuto qui più semplicemente: 90159, sono medico, specialista in Ostetricia e Ginecologia ed in Chirurgia Generale, già docente di Fisiopatologia della riproduzione nell’Università di Napoli. Nello stesso tempo sono gravemente ammalato, affetto da una ventina di patologie, per cui costituisco l’osservatorio ideale per tracciare un quadro della situazione sanitaria nel penitenziario, di cui sono ospite da 18 mesi.
Prima di entrare nel merito dei numerosi disservizi, comuni, ma qui aggravati, a quelli di tutti i cittadini, in un momento di grave crisi economica come quello che stiamo attraversando, vorrei fare una precisa denuncia dell’abuso di psicofarmaci, i quali vengono elargiti in cospicua quantità, pur di tenere calmi i detenuti e che in breve tempo trasforma gli stessi in automi disarticolati, in pallidi ectoplasmi, in marionette impazzite.
Un altro prodotto che viene distribuito a richiesta è la tachipirina, un antipiretico, che viene utilizzato per curare le più svariate affezioni: dal raffreddore al mal di testa, dai dolori muscolari alle bronchiti, una vera panacea se non si trattasse di un semplice placebo.
I tempi di attesa per una visita specialistica interna sono di mesi, per un’indagine esterna, superano spesso un anno.
Le procedure burocratiche per far entrare un consulente esterno sono macchinose e defatiganti e durano costantemente molti mesi.
La permanenza in carcere peggiora tutte le patologie, anche nei più giovani, immaginiamo gli effetti devastanti che possono avere in pazienti, spesso anziani, affetti da cardiopatie gravi, crisi ipertensive, Aids in fase terminale, diabete scompensato e tante altre affezioni che conducono in breve tempo al decesso.
Un discorso a parte meritano i numerosi tossicodipendenti, che dovrebbero essere, prima che puniti, curati in apposite strutture.
Potrei dilungarmi, ricordando i tanti morti, l’ultimo meno di un mese fa e l’epidemia di suicidi, che andrebbe contrastata con un’inesistente assistenza psicologica. Ma vorrei trattare brevemente dei non meno importanti mali dell’anima: la solitudine, la malinconia, la sofferenza, la nostalgia. Conosco un rimedio infallibile per combatterli: rimanere in contatto con i propri familiari, anche solo per telefono. In tutta Europa i detenuti (a loro spese) sono liberi di fare quante telefonate desiderano. Perché dobbiamo costantemente essere il fanalino di coda della civiltà?
Signor Ministro le auguro di far parte del nuovo governo e La invito, in accordo col nuovo Ministro della giustizia di cercare di ovviare ai gravosi problemi che Le ho brevemente esposto, i quali, se trascurati, più che alla giustizia terrestre, gridano vendetta davanti a Dio.
Grazie Achille della Ragione

lunedì 25 febbraio 2013

Allegoria sulla vita e sull’immortalità



Nel ventre di una donna gravida dialogano due feti.
- Tu credi nella vita dopo il parto? 
- Certo, qualcosa deve esserci dopo il parto, sicuramente siamo qui per prepararci a vivere nel mondo esterno. 
- Sciocchezze! Non c’è vita dopo il parto, come sarebbe questa vita? 
- Non lo so, ci sarà più luce, cammineremo con le nostre gambe e mangeremo con la bocca. 
- Ma è assurdo! Camminare? E mangiare dalla bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale serve a nutrirci ed è troppo corto per permetterci di uscire. 
- Invece io ne sono certo che ci sarà qualcosa di diverso. 
- Però nessuno è tornato dopo il parto a raccontarcelo. Con il parto finisce la vita, la quale non è altro che una angosciante esistenza al buio che ci porta al nulla. 
- Sicuramente vedremo la mamma e lei si prenderà cura di noi. 
- Mamma? Tu credi che esista e dove è ora? 
- Dove? Noi siamo nel suo ventre, grazie a lei vivremo. 
- Eppure non ci credo! Non ho visto la mamma e perciò non esiste. 
- Ok, ma quante volte, mentre siamo in silenzio riusciamo a sentire il battito del suo cuore e percepiamo quanto è premurosa per la nostra salute. Io sono sicuro che ci sia una vita che ci aspetta, per la quale ci stiamo preparando: cammineremo, mangeremo, penseremo e saremo a volte felici ed a volte tristi.

sabato 23 febbraio 2013

Il pesce Nicolò e la leggenda del coccodrillo


Nicolò Pesce


Le leggende napoletane sono numerose e molte sono legate al mare, come quella del “Pesce Nicolò”, nota da tempo immemorabile, della quale si rischia di perdere il ricordo perché non vi è più traccia, in Via Mezzocannone, del bassorilievo di epoca classica rappresentante Orione, venuto alla luce durante gli scavi per le fondamenta del Sedile di Porto, murato nel settecento, ricordato poi da una lapide.
Il bassorilievo, cui accenna anche Benedetto Croce, raffigura un uomo coperto da un vello con in mano un coltello. Il nome del protagonista è “Cola Pesce” o “Pesce Nicolò”.
La storia prende spunto da un'antica leggenda siceliota in cui si parla di un ragazzo, maledetto dalla madre, che, a furia di nascondersi tuffandosi nel mare ed a vivere tra i flutti, assume le sembianze di un vero e proprio pesce che, per lunghi spostamenti, si serve del corpo di grossi “Collegni”, dai quali si fa inghiottire per poi tagliarne il ventre, una volta giunto a destinazione.
Da questo illustre progenitore prese origine una confraternita di sommozzatori, che venivano iniziati ad un culto marino in onore di Poseidone, con lo scopo di prendere possesso delle ricchezze poste nelle grotte più profonde del golfo. Essi adoperavano delle alghe che, trattate con una formula segreta, erano in grado di aumentare considerevolmente il tempo di resistenza in apnea, pari o superiore ai sommozzatori dotati di bombole.

Taluni di questi si accoppiavano con dei rarissimi sirenoidi, oggi scomparsi dal golfo di Napoli ed è bello pensare che le rare foche monache, che ancora si scorgono al largo di Capri, siano gli antichi discendenti di questi accoppiamenti ibridi.
Sembrerebbe che uno degli ultimi di questi soggetti sia stato utilizzato dagli Alleati, in assoluta segretezza, per ricerche sottomarine nel golfo di Napoli.
La leggenda di Colapesce si diffuse per tutto il Regno ed in Sicilia si racconta che uno di questi esseri, sceso nelle acque più profonde, resosi conto che uno dei tre pilastri  che reggevano l'Isola stava cedendo, si sacrificò per sostituirsi nell'opera di sostegno.
Gli ultimi discendenti di questi mitici personaggi possono essere considerati quei ragazzini che ancora oggi, tutti nudi sempre abbronzati d'estate e d'inverno, si tuffano per raccogliere con la bocca le monete gettate a mare da turisti ammirati  e, nello stesso tempo, preoccupati per la lunga apnea di quegli esili corpicini, più volte immortalati dal grande scultore Vincenzo Gemito.

Giovanna I d'Angiò
Giovanna I d'Angiò
Giovanna I d'Angiò


Un'altra leggenda famosa è quella di un famelico coccodrillo che, forse, al seguito di qualche nave, dopo aver percorso tutto il Mediterraneo, trovò alloggio nei sotterranei del Maschio Angioino, dove i castellani, accortisi della sua presenza, pensarono di utilizzarlo per sopprimere sbrigativamente i condannati a morte.
Sebbene poco credibile, la storiella trovò accoglienza dai napoletani a tal punto che a lungo un coccodrillo impagliato fu appeso all'ingresso del Maschio Angioino.
E qui si innesta una seconda leggenda secondo la quale i suoi pasti più sostanziosi erano costituiti dai numerosi amanti che la regina Giovanna, dopo l'amplesso, faceva precipitare giù, attraverso una botola, fino all'alloggio del famigerato coccodrillo.
Ma, dobbiamo chiederci, questa assatanata regina Giovanna è mai esistita?
Gli storici conoscono due sole regine: Giovanna D'Angiò e Giovanna di Durazzo, entrambe dai costumi sessuali alquanto disinibiti.
A risolvere la querelle fu Benedetto Croce, secondo il quale la Giovanna della leggenda va ricercata nella sovrapposizione delle due Giovanne realmente esistite e miscelate, aumentando i difetti dell'una e dell'altra, fino a creare un terzo orripilante personaggio.

Giovanna Durazzo

coccodrillo al Maschio Angioino di Napoli


venerdì 15 febbraio 2013

Un record di chiese sconsacrate a Napoli

Napoli: chiesa di San Giovanni Maggiore


E’ da tempo che a Napoli si parla di restituire alla pubblica fruizione le tante chiese del centro storico, che versano in completo stato di abbandono e di degrado, sdegnate persino dai ladri che hanno asportato spesso anche statue ed altari. La Curia nel 2011 ha emesso un bando: “ Chiese da riaprirsi” con l’obiettivo di affidare ad associazioni il compito di restituire alla città, alla cultura e all’artigianato luoghi da decenni non più accessibili.
Ma fino ad ora solo poche sono state assegnate: tra queste la basilica di San Giovanni Maggiore, affidata all’Ordine degli Ingegneri, che organizza concerti, conferenze e convegni, lasciandola libera la domenica per attività di culto. Da allora quel tratto di via Mezzocannone ha riacquistato una vitalità ed un fermento culturale incidendo positivamente anche sul contesto sociale ed economico.
Il terremoto del 1980 inferse un colpo mortale al patrimonio artistico napoletano. Da allora molte, moltissime chiese, anche di primaria importanza, sono negate alla fruizione del pubblico e dei turisti.
Le chiese di una città sono la testimonianza del suo glorioso passato, ma soprattutto possono costituire un potente volano di sviluppo perché in grado di attirare, come ai tempi eroici del Grand Tour, un esercito di forestieri.
Il calendario realizzato con tanto amore dal fotografo Listri e sponsorizzato dalla Sovrintendenza può determinare uno scatto d’orgoglio e può far capire, anche al grande pubblico, la necessità di provvedere all’incuria che si trascina con tracotanza ormai da troppo tempo.
E’ un grido di dolore che si leva disperato affinché questi sacri templi possano tornare alla stupefatta ammirazione dei visitatori.
Si tratta di edifici più o meno noti come Sant’Agostino alla Zecca o Santa Maria delle Grazie a Caponapoli, come la Sapienza o Santa Maria del Popolo agli Incurabili, ma anche le altre, prima di essere depredate ed abbandonate a vandali e ladri, hanno costituito un tassello fondamentale nella storia della città: Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Immacolata a Pizzofalcone, San Giuseppe a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina della Croce, i Santi Severino e Sossio, i Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, Santa Maria Vertecoeli.
Bisogna mobilitarsi per salvare e soprattutto bisogna fare presto.
Su queste chiese che dovranno ospitare attività sociali aleggiano leggende e miti, con vergini e draghi che vogliamo rammentare assieme a cenni su quando e da chi furono edificate.
Partiamo da quella già assegnata, San Giovanni Maggiore, che nel I secolo fungeva da tempio pagano, fatto erigere dall’imperatore Adriano in onore di Antinoo. Nel IV secolo poi l’imperatore Costantino trasformò il tempio in chiesa che volle dedicare a San Giovanni Battista per essere poi arricchita da quadri e suppellettili.
La chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli sorge su una piccola altura dove vi era un boschetto utilizzato spesso per le sfide a duello e dove molti pensavano che vi fosse la tomba della sirena Partenope, fondatrice della città e conosciuta dal popolino come “’a capa ‘a Napule”.
Un’altra leggenda ci parla di un’edicola votiva pendente da un albero, davanti alla quale una donna sterile venne ad impetrare la grazia di un figlio, che dopo poco nacque e venne battezzato col nome di Agnello, in vernacolo Aniello, il quale da grande ascese alla gloria degli altari. Questa chiesa verrà destinata a Centro per informazioni turistiche.
Alla stessa destinazione verrà adibita anche la chiesa dei Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, entrambi medici. Essa venne edificata nel 1616 dall’associazione dei barbieri e la cosa non deve destare meraviglia, perché a quell’epoca e per lungo tempo questi artigiani svolgevano anche attività sanitarie.
Trecento vergini di nome Immacolata frequentavano nel ‘500 una chiesetta denominata del Rosario, sulla collinetta di Pizzofalcone, frequentata dai soldati spagnoli lì acquartierati. Nel 1850 il re Ferdinando II la fece completamente riedificare ed in ricordo dell’antica frequentazione le impose il nome di Immacolata a Pizzofalcone. Essa verrà adibita a centro polifunzionale per fornire servizi ai Quartieri Spagnoli.
Orefici e gioiellieri, quasi tutti genovesi, fondarono nel 1857 in via Medina una chiesa, San Giorgio dei Genovesi. Oltre a questi artigiani molto ricchi vi era una vasta colonia di liguri, abilissimi nell’attività di ristoratori. Infatti ai napoletani piaceva molto la carne alla genovese. Cuochi e camerieri si recavano a pregare nella cappella dell’infermeria di Santa Maria la Nova prima dell’edificazione della loro chiesa, la quale divenne famosa perché sull’altare maggiore troneggiava un dipinto raffigurante San Giorgio mentre trafigge un drago. A breve diverrà sede di una biblioteca pubblica.
In via Medina si trova anche la celebre chiesa della Pietà dei Turchini, fondata nel 1592, a cui era annesso un orfanotrofio i cui componenti erano avviati allo studio della musica indossando un abito talare di colore turchino. Tra gli allievi vi fu il grande Alessandro Scarlatti e nella chiesa fu dato l’ultimo saluto ad Aurelio Fierro. Nella sede del vecchio conservatorio è prevista la nascita di un laboratorio musicale.

martedì 12 febbraio 2013

Viaggio tra le grotte dove San Michele sconfisse il male



     
Nei primi secoli di affermazione del Cristianesimo in numerose grotte del meridione si veneravano ancora divinità pagane.
Per arginare queste tradizioni nelle popolazioni locali, la Chiesa si attivò per sostituire questi antichi riti con il culto della Madonna e dei Santi. 
Tra questi venne scelto San Michele, l’Arcangelo che simboleggia la vittoria contro gli angeli ribelli capitanati da Satana, che, sconfitti, vennero precipitati negli inferi.
Egli presentava molte delle caratteristiche possedute dalle precedenti divinità pagane, come Anubi, Apollo, Mercurio e Mithra.
Il culto di San Michele, originario dell’ Asia minore, si diffuse poi ad Alessandria d’Egitto per essere poi introdotto in occidente dai bizantini.

grotta di Avella
Approdò inizialmente sul Gargano, insediandosi nella grotta di Monte Sant’Angelo, dove il Santo apparve nel 490, nel 492 e nel 493, mentre in precedenza vi si veneravano Calcante e Podalirio, divinità legate al culto delle acque miracolose.
La duplice presenza delle forze del bene e del male, secondo alcuni racconti popolari, si protrasse per molti secoli.
In seguito il culto di San Michele si diffuse in tutto il mondo occidentale grazie ai longobardi, che lo elessero a patrono nazionale, dopo la loro conversione al cristianesimo avvenuta alla fine del VII secolo.
La grotta di Monte Sant’Angelo divenne così la capostipite di tutte le cavità legate al culto micaelico e la sua fama divenne tale da diventare, insieme al sepolcro di Gesù a Gerusalemme, alle tombe degli apostoli Pietro e Paolo a Roma ed al santuario di Santiago de Compostella in Spagna, uno dei centri della cristianità più frequentati e tappa obbligatoria per i pellegrini che si recavano in Terra Santa.
In Campania numerose sono le grotte dedicate al culto di San Michele, tra le più belle va annoverata quella ad Olevano sul Tusciano, che mostra subito il suo utilizzo nel corso dei secoli, a partire dall’età del ferro come dimostrano vasellame e selci del periodo preistorico.
La parte più importante è composta da sei cappelle, collegate tra loro da camminamenti, visitate da Gregorio VII nel 1614.
ingresso dell'antro
Nella più importante sono conservati affreschi bizantini di pregevole fattura risalenti all’VIII – IX secolo. Vi è anche un passaggio che conduce ad un ramo laterale noto come il rifugio del brigante Nardantuono.
Sempre nel salernitano, nei monti Alburni, a Sant’Angelo a Fasanella, vi è un ipogeo sorprendente che, attraverso un portale con due leoni stilofori, immette in un vasto antro, frequentato già nel paleolitico, in cui si conservano un altare dedicato all’Immacolata con una pregevole tela del 1600 e, in un corridoio, due statue di Vergini con Bambino.
Infine ad Avella, in provincia di Avellino, la cosa più bella della grotta è la cappella dedicata a San Michele, dominata da un grande baldacchino in stile barocco del 1816, che ospita una statua del seicento con il santo che schiaccia un Lucifero ringhiante.

Santuario Sant'Angelo a Fasanella



lunedì 11 febbraio 2013

“Napoli e la Napoletanità. Arte, miti, riti”



nuova opera letteraria di Achille della Ragione

(Edizioni CLEAN, pag. 176, 200 immagini, 15 euro), 


Questo libro è dedicato a tutti quelli che hanno continuato ad amare Napoli nonostante tutto e vede la luce in un momento di declino della città, per anni gloriosa capitale delle arti e delle scienze. Esso rappresenta un omaggio al carattere dei Napoletani e all’anima immortale della città, che per secoli è stata, per la sua felice posizione nel cuore del Mediterraneo, crocevia di traffici e commerci, ma anche di culture diverse, che ha sempre saputo assimilare.

sabato 9 febbraio 2013

Dal biribisso alla tombola



A Sorrento, nel Museo Correale, un gioiello che meriterebbe un maggior numero di visitatori, è conservato uno dei pochi esemplari pervenutici di un gioco che ebbe grande successo nell’alta società dell’epoca: il biribisso, un incrocio tra gioco dell’oca e monopoli, una splendida tavola con un caleidoscopio di colori con molteplici caselle raffiguranti le varie tappe del gioco.
Dal ‘700 in poi e fino ai nostri giorni, soprattutto durante le festività natalizie, si è imposta la tombola con il caratteristico “panariello” e la sorte legata ai numeri, inventata a Napoli nel 1734 e adottata in tempi recenti all’estero sotto il nome di bingo.
Si tratta di un gioco la cui genesi si lega all’esoterismo e più precisamente alla cabala, detta anche càbbala o più esattamente Kabbalah, dall’ebraico Qabbàlàh che significa ricezione, con la quale si indicano le dottrine mistico-esoteriche ebraiche, riferite a Dio e all’universo, rivelate ad una cerchia ristretta di persone e poi tramandate di generazione in generazione.
Secondo la Qabbàlàh, nella Bibbia non esiste parola, lettera o numero privo di un significato celato, nel solco del simbolismo sul quale si basa il mondo stesso.
Su questa base i cabalisti formarono una dottrina interpretativa che formulò una concezione secondo la quale, utilizzando la correlazione numerologica tra lettere e numeri, era possibile calcolare il numero preciso corrispondente ad ogni parola.
A tutto ciò si unì la convinzione che i sogni fossero lo sfogo comunicativo delle forze extra umane, capaci però di manifestarsi anche tramite accadimenti naturali che venivano considerati segni del destino, e subito tradotti in numeri.
Si maturò così la codificazione e la numerazione dei simboli onirici e fisici che divennero elemento per tentare la fortuna nella Napoli del ‘700, città esoterica per antonomasia, dove il Lotto nacque come gioco popolare benché clandestino.
Resa indipendente Napoli nel 1734, il re Carlo di Borbone, nel suo illuminato progetto di sviluppo sociale e di accrescimento culturale, volle ufficializzare il gioco del Lotto nel Regno per strapparlo alla clandestinità che sottraeva entrate alle casse dello Stato.
Trovò però l’opposizione del frate domenicano Gregorio Maria Rocco, uomo di grande carisma e potere, noto in tutta la città perchè capace di ispirare numerose iniziative grazie alle quali la delinquenza fu decisamente arginata.
Il frate riteneva eticamente sbagliato introdurre un simile gioco in un regno in cui gli insegnamenti cattolici erano alla base del fondamento educativo. Si arrese al Re quando questi lo convinse che il Lotto, se giocato clandestinamente, avrebbe potuto arrecare danno alle tasche dei sudditi.
I due contendenti strinsero un patto secondo il quale il gioco del Lotto sarebbe stato sospeso nella settimana delle festività natalizie per evitare distrazione al popolo in preghiera. Ma ormai quel gioco era entrato nel costume dei cittadini che a quel punto, per non doverne fare a meno, si organizzarono per conto proprio.
Fu così che la fantasia popolare fece in modo che i novanta numeri del lotto fossero infilati nei cosiddetti “panarielli” di vimini e ognuno si disegnasse delle cartelle improvvisate con dei numeri scritti a caso. Il gioco pubblico del lotto divenne gioco familiare della tombola, figlio quindi del matrimonio tra il Lotto stesso e la fantasia dei Napoletani. La parola “tombola” deriverebbe da tombolare, ovvero roteare e far capitombolare i numeri nel “panariello”.
Gioco natalizio per eccellenza, proprio perché nato nel Natale del 1734, ma la Tombola è giocata a Napoli durante tutto l’anno nei quartieri popolari dove per tradizione possono partecipare esclusivamente donne che seguono la chiassosa chiamata dei numeri effettuata dai “femminielli”, mentre agli uomini è consentito solo assistere fermi sulla porta o alla finestra.
La tombola è un tradizionale gioco da tavolo originario dell’Italia meridionale e specialmente tipico della regione della Campania (Smorfia Napoletana). Sostanzialmente equivalente al gioco di diffusione internazionale noto come bingo, la tombola è tecnicamente un gioco d’azzardo, in quanto i partecipanti sono tenuti al versamento di un somma in denaro che viene poi ridistribuita come premio ai vincitori. Tuttavia, la tombola italiana viene normalmente giocata in un contesto familiare (è un tradizionale gioco natalizio) e le somme che si impegnano e si vincono hanno solitamente valori puramente simbolici (quando non si scelga addirittura di utilizzare premi di altra natura).
Il carattere casuale del gioco unito al talvolta notevole valore dei premi in palio ha reso il termine tombola sinonimo di evento fortunato o di acquisizione fortuita di una ricchezza o somma di denaro.
Un giocatore con ruolo di croupier ha a disposizione un tabellone sul quale sono riportati tutti i numeri da 1 a 90, e un bussolotto riempito con pezzi numerati in modo analogo. Il suo compito consiste nell’estrarre i pezzi in modo casuale, e annunciare agli altri giocatori il numero uscito. L’annuncio generalmente include anche la citazione di una delle immagini che la tradizionale smorfia napoletana associa proprio ai numeri da 1 a 90 propri di un altro gioco, il lotto, strettamente legato alla tombola.
I giocatori dispongono di una o più cartelle precedentemente acquistate, composte da 3 righe, su ciascuna delle quali sono riportati cinque numeri da 1 a 90. Ogni volta che il numero estratto è presente su una o più delle sue schede, il giocatore “copre” la casella  corrispondente. Nella versione tradizionale della tombola, le schede sono semplici cartoncini stampati e i numeri vengono coperti con fagioli, ceci, lenticchie, pasta o altro materiale disponibile dopo i cenoni natalizi come i gusci di frutta secca. Tali cartelle sono realizzate in gruppi di sei in modo che in ogni gruppo i numeri da 1 a 90 capitino una ed una sola volta.
Le cartelle vengono acquistate in numero variabile dai giocatori secondo un prezzo unitario predefinito non necessariamente in denaro. Similmente il giocatore che detiene il tabellone è tenuto a versare l’importo relativo alle sei cartelle virtuali che compongono il tabellone. È possibile, come variante alle regole classiche e previo accordo generale, che il tabellone venga acquistato dal croupier in forma parziale. È anche possibile che venga richiesto per il tabellone un versamento ulteriore per compensare il fatto che sul tabellone vengono sempre posizionati tutti i numeri estratti.
L’importo derivante dall’acquisto di tutte le cartelle e del tabellone definisce il monte premi che viene di norma suddiviso in vari premi di importo crescente.
Lo scopo ultimo del gioco è quello di realizzare la tombola, ovvero arrivare per primi a coprire tutti i numeri presenti su una delle proprie cartelle. Normalmente vengono anche assegnati premi minori per risultati intermedi, come l’ambo (vinto dal primo giocatore che copre due numeri presenti sulla stessa riga di una cartella), il terno (tre numeri sulla stessa riga), la quaterna (quattro numeri sulla stessa riga) e la cinquina (tutti e cinque i numeri della riga). Talvolta viene assegnato anche un premio al cosiddetto tombolino, ovvero alla seconda cartella in ordine di tempo a totalizzare la tombola.
Una regola non sempre applicata, e poco comune in Campania, prevede che chi vince un premio su una riga non può vincere il premio successivo sulla stessa riga della stessa cartella. Quindi chi fa un ambo sulla prima riga non può fare terno sulla prima, ma solo sulla seconda e sulla terza, ma può comunque fare quaterna sempre sulla prima riga. Questa regola ha lo scopo di distribuire con più uniformità i premi (coerentemente col fatto che la tombola è intesa come un gioco di aggregazione, al quale partecipano spesso anche i bambini). Tuttavia l’interpretazione più in voga stabilisce che il terno la quaterna e la cinquina possono essere eseguiti sulla stessa riga, per consentire più vincite ex aequo.
Per il gioco della tombola a premi (tipicamente utilizzato in sagre paesane, circoli ricreativi, etc.) sono disponibili dei fogli contenenti sei schede standard ciascuno. Le schede contenute in ogni foglio sono costruite in modo tale che il foglio contenga una ed una sola volta tutti i numeri da 1 a 90 (6 schede x 15 numeri a scheda = 90). Tale disposizione è molto ingegnosa: mentre a prima vista la ripartizione dei numeri sembra del tutto simmetrica (5 numeri e 4 spazi per riga), la prima colonna contiene solo 9 numeri (da 1 a 9) e 9 spazi, le colonne intermedie contengono 10 numeri e 8 spazi, mentre l’ultima colonna contiene 7 spazi e addirittura 11 numeri (da 80 a 90). Il fatto che i fogli di schede contengano tutti i numeri ha un benefico effetto psicologico sul giocatore, il quale, potendo segnare ogni numero estratto, ha l’impressione di procedere speditamente verso la vittoria.
I fogli di cartelle di vecchia produzione inoltre hanno una disposizione uniforme degli spazi rispetto ai numeri che li rende gradevoli alla vista, mentre i fogli di produzione più recente (che non copiano le vecchie disposizioni), hanno dei “grumi” di numeri e vistosi spazi vuoti. Spesso le schede standard sono prodotte dalla suddivisione in 6 parti dei fogli interi, in modo da rendere uniforme la distribuzione dei numeri presenti.
I giocatori “professionisti” di tombola, possono arrivare a giocare con due o tre fogli di schede contemporaneamente (per un totale di 18 cartelle). Dato che l’estrazione dei numeri può essere molto veloce, questi giocatori devono poter segnare i numeri molto velocemente. Un metodo per la segnatura veloce dei numeri è il cosiddetto metodo “alla francese”. In questo metodo si utilizza un solo fagiolo per riga; per prima cosa si posiziona un fagiolo a sinistra della prima casella di ogni riga. Ogni volta che viene estratto un numero, il fagiolo della riga corrispondente viene fatto avanzare fino alla prossima casella bianca verso destra. In questo modo il numero di caselle bianche occupate indica quanti sono i numeri estratti per ogni riga. Quando un fagiolo raggiunge la parte destra della scheda si ha la cinquina. Quando tutti e tre i fagioli di una scheda raggiungono il traguardo si ha la tombola. Questo metodo permette di segnare i numeri molto velocemente anche se non si può conoscere quali sono i numeri estratti ma solo quanti sono.
Tra i giochi simili alla tombola ricordiamo : il bingo, un gioco di azzardo diffuso soprattutto negli Stati Uniti, ma ormai anche in Italia ; il lotto e sue varianti come il Superenalotto, che è un gioco gestito dallo Stato.
Infine segnaliamo che le probabilità di vincere per un giocatore sono proporzionali al numero di shede acquistate ; la tombola si può considerare una variante pittoresca della lotteria o della pesca di beneficenza.

giovedì 7 febbraio 2013

Un Sud che non deve morire: San Marco Argentano



cattedrale San Nicola
Quando parliamo di Napoli, non intendiamo riferirci unicamente al suo centro antico o al suo sterminato hinterland. Che oramai copre tutta la provincia, bensì anche ai territori corrispondenti del suo regno. Che copriva tutto il meridione e, per alcuni tempi, anche la Sicilia.
In molti sperduti paesini sono ancora vive antiche tradizioni che vanno dalla cucina alle feste patronali, molto simili, e spesso oggi ancora più sentite di quelle della capitale.
Molte di queste località sono poco conosciute e rischiano di essere travolte dal mito della globalizzazione.
In particolare, quella di cui tratteremo, San Marco Argentano, rischia di scomparire fisicamente perché è interessata dalla faglia San Fili-San Marco Argentano di circa 30Km. Il cui smottamento sta portando a continui movimenti tellurici, alcuni di notevole intensità, che toccano l’intero insediamento del Pollino ed alcuni bellissimi paesi come Altomonte e Morano Calabro.

cattedrale, cripta normanna

cattedrale, cripta normanna

torre normanna

Il paese meriterebbe ben più fortuna, considerato che, nonostante la sua storia, i monumenti, la bellezza e la grande cura del verde pubblico, è tagliato fuori dai flussi turistici, forse per la mancanza di locali alla moda, e ci si incontra solo per il piacere di stare assieme, magari davanti al camino d’inverno, per suonare l’organetto o il tamburello e cantare le canzoni tradizionali, anche quelle albanesi e greche dal momento che nei dintorni ci sono paesi un tempo abitati da popolazioni venute dall’Albania e dalla Grecia, come Santa Caterina Albanese e San Demetrio Corone.
Il territorio comunale è servito da un’estesa rete stradale, con un asse viario che lo collega sia allo Ionio che al Tirreno.
Le origini del nome derivano da San Marco Evangelista, patrono della città, mentre Argentano fu aggiunto in seguito con una delibera comunale del 1862, in onore della famiglia degli Argento.
Taluni storici hanno identificato San Marco con la città di Argentum, citata da Tito Livio, assieme ad altri centri Bruzi, che si unirono ai Romani nella guerra contro Annibale. Di certo, la zona fu abitata dall’uomo fin dai tempi del neolitico, come attestano numerosi ritrovamenti, mentre trace di insediamenti di epoca romana, rinvenute in località Cimino, sono conservate nel museo archeologico di Sibari.

fontana normanna

villa comunale

villa comunale

L’epoca cristiana è segnata dal passaggio dell’apostolo Marco mentre l’assetto urbanistico dell’attuale centro storico è dovuto all’arrivo dei Normanni ed in particolare di Roberto il Guiscardo, come testimoniano vari monumenti, quali la Torre, la cripta del duomo e l’Abbazia della Matina, d’origine benedettina.
L’originaria struttura feudale è evidente nel percorso che unisce il Duomo alla torre Normanna mentre chiese, palazzi  e blasoni gentilizi giustificano l’antico appellativo di “Città dei Nobili”.
Tra i numerosi monumenti ricordiamo l’abbazia della Matina con l’aula capitolare(sec.XI-XII), la torre Normanna (sec.XI), la cattedrale con annessa cripta (sec.XI) e la chiesa della Riforma di epoca successiva.
Tra le feste e gli eventi più importanti si  segnalano la festa di San Marco Evangelista il 25 aprile e la “Partita del Re” che, che la terza domenica di agosto, riproduce una battaglia medievale su una scacchiera gigante i cui protagonisti,pedine e pezzi in abiti storici, seguono le rigide regole di una partita a scacchi.
L’economia fino agli anni settanta era prevalentemente agricola, poi ha subito una profonda trasformazione con piani di industrializzazione, mentre la presenza di scuole, uffici pubblici e servizi sanitari ha accresciuto notevolmente il settore terziario.

Oratorio San Francesco di Paola

grotta di San Francesco di Paola


chiesa della Riforma, esterno

Vi sono diverse botteghe che vendono artigianato locale che spazia dalle cartoline di legno alle terracotte, mentre, tra i prodotti gastronomici, famosi sono i cardi selvatici sott’olio.
La cucina contadina punta sulla genuinità degli ingredienti. I piatti forti sono le paste fatte in casa, le minestre a base di verdure e legumi e la mischi glia, composta da nove erbe spontanee cotte assieme. Tipiche del luogo sono le cicerchie, un raro legume tra ceci e i  lupini. Tra i dolci spiccano quelli al miele di tradizione araba.
Vi sono poi deliziosi formaggi dal gusto dolce da gustare con fragrante pane casareccio.
Nella cucina di San Marco si rispecchiano le caratteristiche di tutte le cucine meridionali, con olio e verdura in abbondanza e la pasta lavorata in casa, ma soprattutto si manifesta la gioia di vivere degli abitanti di questa terra antica, custodi della fedeltà ai più semplici principi della vita.
Motivo in più per visitare questa cittadina e respirarne la fraterna solidarietà e l’attaccamento alle tradizioni.

chiesa della Riforma,altare maggiore

chiesa della Riforma, interno

chiesa della Riforma, interno


Foto di Maddalena Iodice

lunedì 4 febbraio 2013

LE STATUE DI NAPOLI CHE PARLANO




Le statue di Napoli, per quanto molte, se non tutte, versano in uno stato deplorevole di conservazione, raccontano la storia della città.


Raccontano, alcune urlano per lo scempio di cui sono state fatto oggetto dai cittadini e da un’amministrazione distratta e colpevole.
Alcune sono nate per un motivo estetico ma la maggior parte vogliono ricordare un evento storico o intendono rammentare un personaggio eminente della vita cittadina o della nazione: marmi e bronzi che cercano di glorificare l’esempio di uomini che hanno dedicato la propria esistenza all’arte, alla medicina, alle lettere, al diritto.
Più che per corso topografico seguiremo un criterio cronologico, partendo dagli esemplari che ci descrivono le origini della città, per cui prenderemo in esame il gruppo della sirena Partenope, la quale, secondo la leggenda, si uccise per amore di Ulisse ed il suo corpo fu sospinto dalle onde del mare sugli scogli dove sorse la città detta in seguito di Neapolis.
Oggi troneggia imponente al centro della piazza dedicata al poeta Jacopo Sannazaro ed è composta da una gigantesca sirena emergente dalle onde in un tripudio di animali marini grandi e piccoli e poggia sopra uno scoglio con alghe e flora acquatica, eseguita dallo scultore Onofrio Buccini. Originariamente nel 1869 fu collocata nei giardini antistanti la vecchia stazione ferroviaria per essere trasferita dove l’ammiriamo oggi nel 1924, quando venne inaugurata l’adiacente Galleria Laziale.

la sirena Partenope
Un’altra famosa statua che ci porta indietro nel tempo, in epoca romana, è quella posta a piazzetta Nilo, più nota come largo Corpo di Napoli, centro geometrico della città, in una zona dove abitava la colonia Alessandrina costituita da mercanti egiziani. Essa è costituita, almeno come la vediamo a partire dal 1667, da una poderosa figura barbuta, distesa sul fianco sinistro e sostenente col braccio destro una cornucopia di frutta, ma un cronista del XIII secolo la presentava come una donna con i figli che raffiguravano gli affluenti del Nilo, fiume sacro perché grazie alle sue periodiche inondazioni ha sempre reso fertili le terre contigue al suo interminabile decorso, messe in evidenza dalla cornucopia. Sul basamento vi è una lunga epigrafe latina, che spiega la tormentata storia del monumento.

il corpo di Napoli
Rimanendo in ambito mitologico citiamo, nei giardini di piazza Cavour, una fontana ellittica che ospita, su una base di mattoni, una statua di bronzo raffigurante un tritone, una divinità metà pesce e metà uomo, figlio di Poseidone, che irrora con un getto d’acqua dalla bocca la circostante fontana, che un tempo ospitava delle paparelle, ma che già negli anni ’50 (e posso testimoniarlo personalmente, perché ho frequentato per sei anni, asilo ed elementari, il vicino Istituto Froebeliano) era diventata ricettacolo di rifiuti galleggianti, dove d’estate gioiosamente sguazzavano torme di scugnizzi.

tritone
Un’altra piccola fontana, trasformata oggi in pubblico orinatoio, è la vasca circolare di porfido, proveniente dal tempio di Poseidone a Paestum, nella quale sono disposti quattro leoni di marmo di stile egizio realizzati da Pietro Bianchi nel 1825, quando si trasferì, per toglierlo dalle intemperie, il celebre gruppo marmoreo del Toro Farnese, oggi tra i gioielli del Museo Archeologico.

fontana della vasca di porfido, in villa comunale
Lo stesso artista, alcuni anni prima (1812-16), aveva realizzato otto statue simili di leoni egizi nell’emiciclo della chiesa di San Francesco di Paola in piazza del Plebiscito.
Rimanendo nella stessa piazza descriviamo l’imponente monumento equestre dedicato a Carlo di Borbone, immortalato nel bronzo dal celebre Antonio Canova nel 1818. Essa fa da pendant alla statua equestre di Ferdinando I di Borbone, che, commissionata anche essa al Canova, fu completata dal napoletano Calì per l’improvvisa scomparsa dello scultore trevigiano. Entrambi i sovrani sono raffigurati con un incedere solenne e vestiti alla romana, segno evidente del dominante gusto neoclassico dell’epoca.

Ferdinando di borbone
Sulla facciata di Palazzo Reale per volere del re Umberto I di Savoia furono collocate nel 1888 otto statue marmoree raffiguranti i più rappresentativi sovrani delle dinastie che hanno regnato a Napoli. Essi sono in ordine cronologico, partendo da sinistra avendo di fronte la facciata: Ruggero il Normanno, opera del Franceschi; Federico II, scolpito dal Caggiano; Carlo I d’Angiò, scolpito dal napoletano Solari; Alfonso V d’Aragona, realizzato dal D’Orsi; Carlo V d’Asburgo-Spagna, su un modello del Gemito; Carlo III di Borbone, immortalato dal Belliazzi; Gioacchino Murat, eseguito da Amendola ed infine Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re d’Italia, realizzato da Jerace.
Sono tra le statue più note della città, poste in una piazza annoverata tra le più belle d’Europa, soprattutto per la barzelletta che ogni napoletano conosce giocata sulla gestualità delle ultime tre statue: la prima sembra chiedere: chi ha fatto pipì qui a terra; la seconda: sono stato io; la terza: allora ti taglio il membro.


Gioacchino Murat

Andando avanti nel tempo arriviamo al 1799 ed al relativo monumento che ci ricorda l’evento in piazza dei Martiri. Il monumento sorse per volere di Ferdinando II dopo i disordini del 1848 e fu affidato all’architetto Enrico Alvino, che realizzò il basamento ed il piedistallo con la colonna. Poi i lavori furono interrotti per la morte del sovrano, per riprendere alcuni anni dopo con la collocazione in vetta della bronzea Vittoria alata realizzata dal Caggiano. Alla base furono posti quattro leoni in marmo a simboleggiare le quattro rivoluzioni napoletane: quello morente ricorda la rivoluzione del 1799 e fu eseguito nel 1866 da Busciolano; viene poi il leone ferito a simboleggiare la rivoluzione del 1820, opera di Lista, firmato e datato 1868; a sud compare il leone indomito che regge tra gli artigli lo Statuto del 1848, opera del 1866 del Ricca ed infine Solari realizza un leone minaccioso che allude alla rivoluzione del 1860. Vi è poi un’epigrafe dettata da Giuseppe Fiorelli e dedicata “Alla gloriosa memoria dei cittadini napoletani caduti nelle pugne o sul patibolo … ”

piazza dei Martiri
Tra le statue più belle che ornano la città vanno annoverati i due bronzei domatori di cavalli che ornano l’ingresso dei giardini di Palazzo Reale, eseguiti dallo scultore russo Clodt von Jurgensburg e donati a Ferdinando II dallo zar Nicola I nel 1846, per ringraziare il sovrano napoletano che aveva ospitato la zarina alla ricerca di un clima mite per meglio curare un fastidioso malanno.

cavalli di bronzo
La statua forse più famosa della città è quella dedicata a Dante Alighieri, eretta nell’omonima piazza nel 1872 in omaggio all’Unità d’Italia. La piazza in precedenza si chiamava largo Mercatello perché lì si svolgevano attivi commerci fino al 1757, quando il re Carlo diede incarico a Luigi Vanvitelli di creare il cosiddetto Foro Carolino, un grande emiciclo che avrebbe dovuto fare da scenografia ad un monumento dedicato al re.

Dante

Passando a statue dedicate a personaggi più vicini a noi nel tempo come Giuseppe Garibaldi che viene raffigurato a cavallo con le mani protese in avanti, poggiate sull’impugnatura della sciabola, l’opera venne eseguita nel 1904 dallo scultore fiorentino Zocchi e fu il motivo per cui la commissione toponomastica mutò il nome della piazza dedicata all’Unità d’Italia all’eroe dei due mondi. In precedenza i napoletani l’avevano sempre chiamata “’a piazza d’a stazione” a rammentare che la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, seconda al mondo, venne inaugurata nel 1839 e sarebbe opportuno che si ritornasse all’antico toponimo.

Garibaldi

Su via Caracciolo si eleva maestosa la statua equestre del generale Armando Diaz, tra gli artefici della vittoria della Grande Guerra (1918). Sul davanti è riportato integralmente il bollettino della Vittoria di cui riportiamo l’epilogo: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgoglio e sicurezza.

Diaz
Infine descriviamo il monumento al celebre clinico Antonio Cardarelli di fronte all’ospedale ex 23 marzo che da lui prese il nome attuale.
Concludiamo questa nostra carrellata lamentando la mancanza gravissima di due statue da dedicare a straordinari personaggi che hanno illustrato la città: Totò ed Achille Lauro.
Un discorso a parte è costituito dalle statue che sono poste sulla sommità delle guglie: San Domenico, San Gennaro e la Madonna, che da secoli, solenni, parlano ai napoletani e nello stesso tempo ascoltano le loro invocazioni. Rappresentano dei simboli della religiosità popolare e si presentano come straordinarie macchine barocche in grado di fondere in una mirabile sintesi architettura e scultura, sacro e profano. Attraverso la loro mole maestosa hanno esaltato il potere della chiesa e nello stesso tempo il trionfo fastoso e festoso dell’effimero. Erette per esorcizzare pestilenze ed eruzioni dominano le piazze alle quali conferiscono grande prestigio. Prodotte dalla collaborazione di più artisti raffigurano l’immagine devota della città, fedele ai suoi riti e forte della sua carica di fedele spiritualità.