giovedì 5 aprile 2012

Il crepuscolo delle coscienze


13/3/2011

Napoli è stata per secoli una capitale europea, alla pari di Londra e di Parigi, con il vantaggio di essere posta sul Mediterraneo, una posizione centrale favorevole per gli scambi non solo commerciali, ma anche culturali; a differenza delle altre grandi città non ha però avuto celebri scrittori della statura di Balzac o Hugo o Dickens, che ne abbiano saputo raccontare la storia e le storie. 
Pochi i nomi che potremmo citare, come Mastriani o la Serao, ma parliamo sempre di narratori d’appendice che scrivevano in dialetto o si interessavano di problematiche prive di un respiro universale.
Il motivo di questa carenza va ricercato, oltre che nel carattere autoreferenziale che ha sempre caratterizzato la nostra cultura, nella circostanza, comune a tutte le società povere e con molti analfabeti, di utilizzare come principale forma espressiva il teatro e la musica popolare con le sue canzoni struggenti e malinconiche, vivaci ed appassionate.
Il cuore palpitante di Napoli ha trovato degni interpreti in Viviani, attento ai bisogni del sottoproletariato, che affollava i vicoli brulicanti di passioni e di umanità ed in Eduardo acuto osservatore della piccola borghesia con i suoi pregi ed i suoi difetti.
Tra gli scrittori del secolo scorso in grado di portare le vicende napoletane, per quanto squallide, all’attenzione di una platea internazionale, vi è il solo Curzio Malaparte, oggi in parte dimenticato, ma all’epoca in grado di incendiare il dibattito sulla città.
Dopo il successo planetario di Gomorra la letteratura napoletana, già povera di firme prestigiose, ha inseguito un solo tema: la camorra, con la segreta speranza, fomentata dagli stessi editori, di sfruttare l’effetto Saviano.
Abbiamo avuto un diluvio di pubblicazioni, tutte brutte copie dell’originale, dal libro della giornalista Capacchione a quello del pluriscortato giudice Cantone, oltre ai testi di Simone Di Meo, che rivendica alla sua penna di cronista interi brani di Gomorra.
Il risultato è stato un aumento di prestigio dei clan, dotati ora di una celebrità gratuita legata a libri, film e spettacoli teatrali.
Napoli ha un disperato bisogno di autori che sappiano raccontare una società in trasformazione dopo essere stata immobile per secoli, al punto da far pronunciare a Pasolini la celebre frase che “I Napoletani sono l’ultima tribù che lotta contro la modernità”.
Nessuno ha saputo raccontare le immense periferie, che sono cresciute come funghi e palpitano di mestieri e di piccoli commerci, di amori impossibili e di sogni infranti, di dolore e di ansia di vivere; nessuno ha saputo raccogliere e fare suo il grido di dolore che proviene dalla Napoli vera, che non compare mai sui giornali: quella dei disoccupati cronici, dei giovani senza futuro, dei pensionati alla fame, dei commercianti strangolati dal pizzo, dei lavoratori al nero per 500 euro al mese, la folla degli onesti costretti in un angolo dalla prepotenza dei vincitori; nessuno si interessa a far conoscere le antiche chiese cadere in rovina, gli abusi edilizi ubiquitari, l’esercizio spietato della prevaricazione dei burocrati come regola di vita.
Nessuna voce, né indigena né aliena, ha saputo captare quel coacervo di suoni, odori, sapori, sensazioni che promana potente come un afrore inebriante dai tanti immigrati, di colore o meno, che a decine di migliaia hanno sostituito i napoletani nel centro storico.
Aspettiamo ancora quell’intellettuale il quale, invece di limitarsi a descrivere, sappia spiegarci il perché in tanti quartieri della città vi sia un odio verso le forze dell’ordine, verso lo Stato e verso la legge, visti come carnefici, come persecutori, come custodi di norme incomprensibili. 
Come in così vasti settori della popolazione vi sia un’idea di aggregazione limitata a pochi isolati, a poche famiglie e non si riconoscano regole che non siano quelle dettate da secoli di ignoranza e di incuria pubblica e dove si perpetuano usanze tribali, portando inesorabilmente verso il degrado, la povertà e la subordinazione alla malavita, che a sua volta considera la polizia come un esercito straniero e le vittime degli scontri caduti in guerra.
Negli ultimi decenni la città si è dilatata in una periferia anonima, un mondo grigio di palazzi tutti eguali, abitati da centinaia di migliaia di persone che non si conosco più come nel vicolo, un popolo senza memoria storica e senza un ragionevole progetto per il futuro, costretto a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
Un universo che somiglia a tante periferie del sud del mondo con le stesse ansie e gli stessi problemi, ma che a Napoli non poteva non avere il suo lato comico nello stridente contrasto tra il nome altisonante di alcune strade e lo squallore che le circonda, indirizzi beffardi a Secondigliano per abitanti costretti a vivere gomito a gomito con la criminalità organizzata. 
La più grande piazza per lo spaccio della droga d’Europa che confina con Il posto delle fragole o Il giardino dei ciliegi, mentre le vedette della camorra si stagliano prepotenti in via La Certosa di Parma o I Racconti di Pietroburgo.
A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia in strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di favola da via Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli Grimm. 
Come se i nostri incauti amministratori avessero voluto affidare ad un’improbabile toponomastica il compito improbo di rendere quei luoghi inospitali, vivibili e civili.
Ed infine in questo disperato crepuscolo delle coscienze attendiamo un valido cantore di una borghesia malata e collusa e dell’intreccio inestricabile tra imprenditori voraci e politici corrotti, mentre magistratura ed opinione pubblica non si accorgono di nulla.

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