mercoledì 31 gennaio 2018

Una inedita Maddalena di Andrea Vaccaro dalla sensualità prorompente

fig. 1 - Andrea Vaccaro - Maddalena - 97 x 74 - Bruxelles collezione privata


Un famoso collezionista di Bruxelles mi ha inviato una foto di un suo dipinto per un parere. Si tratta di una splendida Maddalena (fig.1), opera senza ombra di dubbio del virtuoso pennello di Andrea Vaccaro. Lo dimostra in maniera lampante lo splendido volto, nel quale si può scorgere anche una minuscola lacrima (fig.2), ma soprattutto lo splendido seno (fig.3), etereo, ampio, solenne, ma nello stesso tempo triste, che sembra voglia esprimere un interno dolore attraverso una carnagione pallida che lo rende più attraente. Si possono apprezzare riflessi violacei, che danno l'idea del freddo, ma anche un giallo soffuso e luccicante, simile al marmo, un materiale incorruttibile in grado di sfidare l'eternità.


fig. 2 - Andrea Vaccaro - Maddalena - 97 x 74 - (particolare) Bruxelles collezione privata
fig. 3 - Andrea Vaccaro - Maddalena - 97 -x 74 - (particolare) Bruxelles collezione privata

Alterne fortune ha incontrato l’opera di Andrea Vaccaro presso la critica: artista di successo in vita, principalmente negli anni tra la morte di Stanzione e l’avvio del giovane Giordano, ricercato da una committenza religiosa, a cui dispensa pale d’altare dal rigoroso e severo impianto pietistico e da una clientela laica che sapeva ben apprezzare le sue mezze figure di sante avvolte da una intrigante e palpabile sensualità, lodato dal De Dominici, nell’Ottocento la sua stella si eclissa per risorgere prepotentemente alla ribalta degli studi ai principi di questo secolo, raggiungendo una quotazione sempre molto alta come si evince anche dai confortanti risultati ottenuti dai suoi dipinti migliori nelle aste internazionali.
Per la clientela laica sia napoletana che spagnola egli, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, crea scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente e dove raggiunge i suoi toni più elevati nel ritratto di Annella De Rosa, giudicato anche dall’Ortolani, che non aveva di lui una grande opinione, come il suo capolavoro.
Il Vaccaro diviene il pittore della "quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, intonato nei colori, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo maggior indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione" (De Vito).
Tra i suoi dipinti "laici", alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni.
Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base.
Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.
A dimostrazione di questa predilezione per il seno segnaliamo una serie di Maddalene di autografia border line, la prima (fig.4) che invece del celebre”sottoinsù” volge direttamente gli occhi al cielo, la seconda (fig.5) con una sigla, in basso a destra, che potrebbe aiutarci ad identificare l’autore e la terza (fig.6), grassottela, ma sensuale.

fig. 4  - Maddalena - Italia mercato antiquariale
fig. 5  - Maddalena - Italia mercato antiquariale
fig. 6 - Maddalena - Italia mercato antiquariale

martedì 30 gennaio 2018

Frasi d’amore di Achille ad Elvira



Prima di passare alla lettura di queste toccanti frasi d'amore di Achille alla sua adorata Elvira, vogliamo comunicare a chi volesse utilizzare uno o più brani facendoli suoi per far innamorare una fanciulla renitente o rinfocolare un rapporto usurato dal tempo, che lo può fare liberamente; il copyright sui sentimenti non esiste, quindi buona lettura.


  • Elvira è il tuo nome, sinonimo di amore, la vita è un grande mistero, ma l'amore per te ne giustifica il senso e ne spiega il significato.
  • 25 anni assieme, ogni anno ti voglio più bene, quanto te ne vorrò' quando avremo 100 anni.
  • Elvira, dolce cara amata sposa non vi è felicità maggiore di addormentarsi vicino a te fingendo di guardare la televisione.
  • Credo che tutti i veri innamorati non possano vivere se non vicini al proprio amore. Non riesco ad odiarti per il tuo desiderio di non starmi vicino in ogni ora del giorno e della notte.
  • Questo inguaribile morbo che mi tiene vivo non ha rimedi, finirà solo con la mia fine, che sarai tu a decretare se non mi amerai più.
  • Elvira, anima mia, bellissima creatura che i miei occhi possano ancora a lungo contemplare la tua straordinaria bellezza, che sembra voler sfidare sprezzante lo scorrere del tempo, l'avversità del destino, la cattiveria degli uomini.
  • Il tuo sposo, più innamorato che mai.
  • Attenta, pensa anche a te ed agli altri la prossima volta che mi farai per la terza volta l'accattivante proposta di fuggire assieme. Ti risponderò di sì.
  • Al pensiero dei miei pensieri, oggi siamo stati lontani e tu mi hai voluto meno bene, ma sicuramente domani recupererai.
  • Il tuo eterno amante.
  • Alla mia musa, oggi vi è il sole e quando vi è il sole tu sei felice ed io sono felice per la tua felicità. Achille 
  • Quando tu sei lontana il mio amore cresce, ma non può manifestarsi. Ti amo di più quando sei assente, che quando sei presente, forse è un limite alla nostra felicità. Il tuo innamorato.
  • San Valentino 2004, il nostro santo preferito, ma non dobbiamo aspettare il 14 febbraio per santificarlo, lo facciamo ogni giorno, prede del nostro amore senza fine, una miracolosa energia portentosa, che vivrà in eterno, anche quando noi saremo scomparsi, al di la del tempo e dello spazio. Tuo per sempre, Achille
  • Sono l'uomo più fortunato del mondo perché ti ho incontrato. Sono l'uomo più fortunato dell'universo perché ci siamo amati. Oggi sono felice perché sei ritornata.Il tuo micio.
  • 49 anni....ogni anno ti voglio più bene, quanto bene ti vorrò a 99 anni??
  • 55 anni... sei quasi matura, ma i tuoi occhi devastanti mi ammaliano come prima, più di prima e ti amerò
  • 57 anni(pochi minuti alla mezzanotte) nulla è cambiato nella tua bellezza e nel tuo fascino ai miei occhi sempre più innamorati per sempre, per l'eternità.
  • 59 anni,il tempo passa, i sentimenti resistono e si fortificano, come aumenta a dismisura la mia dipendenza da te, amore mio, tutta la mia esistenza non avrebbe alcun significato senza il tuo sorriso, grazie di essere l'oggetto ed il soggetto dell'amore, grazie per ogni attimo trascorso assieme, grazie di tutto mio amore infinito. Il tuo micio
  • 1999-  Da tempo  non ti dedico frasi d'amore, ma il mio amore non si è dimenticato di te. Achille
  • 2001- Sei l'epicentro di tutti i miei desideri ed i miei pensieri, di quelli belli, che si stemperano in te e di quelli cattivi, a cui fai da parafulmine e da domatrice. Grazie senza di te non potrei esistere. Achille
  • 16 settembre 2008
    Amore vero ed odio simulato
    Ieri sono trascorsi 35 anni da quel fatidico giorno nel quale ci siamo scambiati la solenne promessa di amore eterno e di assistenza reciproca nella buona come nella cattiva sorte.
  • Il tempo non cancella i sentimenti, quelli veri, rigogliosi, che sfidano baldanzosi l'eternità ed il mio amore verso di te è immutato. Un amore sincero, tenero, affettuoso, ma nello stesso tempo egoista, che ti vuole solo per me. Soffro a dividerti con gli altri, siano anche persone a me care. Il mio amore è anche dipendenza assoluta, morbo inguaribile, che può essere tenuto a bada solo dalla tua vicinanza. Achille 
  • I fiori sono falsi, ma il mio amore è vero
    Il tuo pretendente. 
  • Mia diletta Elvira, sono trascorsi trent'anni ma i tuoi occhi devastanti sono ancora l'unica bussola della mia vita. Il tuo micio Achille.
    (Frase pubblicata su "Il Mattino" del 14 Febbraio 2003 pag.36
    in occasione di san Valentino)

Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio la lettura del mio libro “La Bibbia dell’amore”, scritto con mia figlia Marina. Per consultarlo digita il link http://www.guidecampania.com/dellaragione/articolo97/index.htm


domenica 28 gennaio 2018

13^- Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli. Errori madornali e boiate pazzesche a volontà.


nona puntata
decima puntata
undicesima puntata 
dodicesima puntata
(tredicesima puntata)

001 - Totò monarchico


Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più


A Napoli il 2017, nel cinquantenario della morte, è stato dedicato all' indimenticabile Totò (fig.1), dal Maggio dei monumenti ad alcune grandi mostre (fig.2), che però hanno trascurato alcuni aspetti essenziali della sua biografia, alla pari delle decine di libri (fig.3) su di lui usciti durante l'anno. Sono parentesi importanti, che non possono essere più trascurate: dalla sua presunta nobiltà, a chi fu dedicata la canzone Malafemmina (fig.4), oltre ad alcuni dubbi sulla completa autografia della celebre poesia A' livella (fig.5).
Sono quesiti che ho da tempo risolto, grazie alla testimonianza del suo compianto cugino Federico (fig.6), due volte relatore ed abituale frequentatore del mitico cenacolo culturale di mia moglie Elvira, che per oltre 10 anni si è tenuto ogni mercoledì nei saloni della mia villa di Posillipo (fig.7–8).
Ho trattato dell'argomento  il 27 luglio del 2002 nella pagina culturale del quotidiano Cronache di Napoli di cui all'epoca ero responsabile e lo scritto è stato poi ripreso nelle pagine del mio libro Le ragioni di della Ragione, pubblicato nel 2005.
Riproponiamo ai lettori il testo dell'articolo dal titolo eloquente e vogliamo ricordare un dettaglio: l'usanza di applaudire la salma del defunto, all'uscita della chiesa, dopo la messa, nacque spontaneamente ai funerali di Totò (fig.9–10), tenutisi a piazza Mercato ed ai quali parteciparono commosse 50.000 persone, tra cui il sottoscritto.


002 - Tre mostre su  Totò

002 - Tre mostre su  Totò

004 -Canzone Malefemmena di Totò

005 - Totò poesia

006 -  Federico De Curtis

007 - Salotto Elvira

008 - Salotto Elvira


009 - Funerali

0010 - Tomba di Totò

Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più. Un libro su Napoli e la napoletanità che non dedichi un capitolo a Totò non si può nemmeno immaginare, ma su di lui sono stati scritti decine di volumi, per cui è difficile aggiungere qualcosa di originale.
Faremo tesoro di alcune interviste che abbiamo avuto modo di fare alcuni anni fa alla  figlia e ad un cugino del grande artista per parlare del museo del quale da decenni, ad ogni tornata elettorale, si annuncia l’apertura e della presunta nobiltà del principe, sulla quale possiamo presentare documenti decisivi che dimostrano che si tratta di uno scartiloffio.
Negli ultimi giorni le pagine dei quotidiani napoletani si sono infittite di altalenanti notizie sulla casa natale di Totò (fig.11) che cambiava proprietario, mettendo a repentaglio il destino di due anziani coniugi ultraottuagenari, da decenni custodi fedeli ed a richiesta dispensatori di memorie sui primi vagiti ed i primissimi anni dell’immortale attore. Si sono susseguiti innumerevoli colpi di scena, quali la scoperta anagrafica, ottenuta compulsando antichi archivi, che l’abitazione oggetto della diatriba, sita in via Santa Maria Antesecula 109 nel popolare rione Sanità, non era forse il vero luogo di nascita del principe della risata, bensì l’evento sarebbe avvenuto nel palazzo adiacente, oppure che i nuovi proprietari, dopo un sogno premonitore, erano intenzionati a farne un Vittoriale di rimembranze. Tanto casino sui giornali ha dato come sempre l’occasione alle autorità politiche di occupare la scena, imponendo tardivi vincoli di destinazione alla povera casetta o blaterando vanamente sull’imminente apertura del museo dedicato ad Antonio De Curtis nello storico palazzo dello Spagnolo. Apertura della quale da anni si parla come prossima in comunicati stampa diramati a gara ad ogni ricorrenza dal Comune e dalla Regione, ridondanti di paroloni, ma vuoti come consuetudine di pragmatismo.
A tal proposito abbiamo voluto sapere come realmente sta la situazione dalla viva voce della figlia dell’artista (fig.12), la quale ci ha concesso un’intervista:
“E’ tutta colpa di un cesso”, così ha esordito la signora Liliana in un romanesco stretto e cacofonico lontano mille miglia dalle sonorità onomatopeiche del nostro vernacolo.
“Un cesso?” “Certo, il museo si trova agli ultimi piani del palazzo ed è perciò necessario un ascensore; a tale scopo ne ho fatto approntare la tromba già da tempo, ma mentre i mesi e gli anni passano per le lungaggini burocratiche un inquilino del palazzo ha deciso di costruirvi abusivamente all’interno un cesso. Cose che capitano solo a Napoli”
“E’ fiduciosa nell’inaugurazione autunnale?”
“Lo spero con i dovuti scongiuri e quando aprirà io sarò in prima fila nell’organizzazione con seminari, dibattiti ed incontri con i giovani. Sarà un museo molto vivo e Totò sarà contento”
“Si riuscirà a riempire tutti i locali?”
“Certamente c’è molto materiale, sarà anche ricostruita la stanza dove nacque mio padre”
Da parte nostra speriamo che a ciò che metterà a disposizione la signora De Curtis, si riuscirà ad aggiungere il contenuto di quel famoso baule (fig.13), oggi proprietà del figlio di un cugino dell’ attore, da poco scomparso, un certo Federico Clemente. Il baule, conservato a Pollenatrocchia è ritenuto poco meno di un reliquario, infatti la richiesta del proprietario è  di 800 milioni delle vecchie lire, una cifra cospicua per la quale bisogna sperare nell’intervento delle Istituzioni. Quando tutto sarà pronto il museo costituirà un’attrazione molto forte per i napoletani e per i forestieri, per cui si tratterà pur sempre di un buon investimento.
Questi episodi di attualità invitano a parlare di nuovo di Totò, una figura ormai entrata di diritto nella leggenda, ma dopo i fiumi d’inchiostro versati sull’argomento in decine di libri che hanno saturato da tempo le scansie delle librerie degli appassionati, non è lecito scriverne ancora se non si è in grado di aggiungere qualche novità. Ed è quello che ci proponiamo di fare grazie all’amicizia che nutriamo da anni con un cugino dell’indimenticabile attore: il maestro Federico De Curtis.
Prima di discutere della nobiltà dell’artista vorremmo spendere qualche parola su un aspetto trascurato dell’arte di Totò: il surrealismo.
Il genio di Totò è universale ed incommensurabile, ma la sua fama è sempre stata circoscritta ai confini patri, colpa di una critica miope, quando l’attore era in attività, di traduzioni e doppiaggi a dir poco deleteri e di una distribuzione all’estero maldestra ed approssimativa.
Negli ultimi anni grandi rassegne in Europa ed oltreoceano sui suoi film più celebri hanno in parte colmato questa grave lacuna, ma forse è troppo tardi per portare in tutto il mondo il suo umorismo straripante, la sua figura dinoccoluta, la sua maschera comica e tragica allo stesso tempo, degna della fama e dell’immortalità di un archetipo greco. Il ritmo dei suoi film mostra i segni del tempo, né più né meno della produzione di mitici personaggi come Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un peccato che dalla sua immutata vitalità possano continuare a trarre linfa vitale solo gli Italiani e pochi altri.
Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo teatro, del quale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata sottovalutata anche dalla critica più attenta. Nei trattati di cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel e delle sue impeccabili creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale di Totò, che avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero sicuramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo verbo.
I due orfanelli (fig.14), uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è la lampante dimostrazione. L’altro giorno è stato messo in onda dalla televisione ed ho potuto gustarlo credo per la centesima volta. Quelle sue battute al fulmicotone, immerse in un’atmosfera onirica, cariche di antica saggezza invitano alla meditazione ed acquistano smalto ed attualità col passare del tempo. Sono degne di un’antologia da studiare in tutte le scuole. Ne rammento qualcuna per la gioia della sterminata platea dei suoi ammiratori:
Ai generosi cavalieri corsi a salvarlo nelle vesti di Napoleone.
“Ma quando mai coloro che provocano le guerre corrono dei pericoli”
All’amico che gli manifestava stupore nel constatare che i cattivi vengono premiati ed i buoni vengono castigati.
“Ma di cosa ti preoccupi la vita è un sogno”
Ed infine all’abate Faria che lo invitava a scappare
“Ma perché debbo scappare, sono innocente”
“Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!”
Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la presentazione di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che mi ha permesso di fare un figurone.

0011 -Targa casa natale di Totò

0012 - Liliana De Curtis

0013 - Baule

0014 - Locandina, I due orfanelli
Ma ritorniamo al racconto del cugino di Totò, il quale con squisita gentilezza ci ha fornito una serie di notizie che, integrate da alcune ricerche genealogiche, ci permette oggi di escludere categoricamente la nobiltà tanto agognata da Totò, perché lo riscattava da un triste passato di figlio di N.N.
Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, così amava definirsi il grande Totò, il quale pur di fregiarsi di questi altisonanti titoli nobiliari spese una fortuna, ma senza rimpianti.
Questa sfilza di titoli, a cui tanto teneva il Principe del sorriso non furono altro che il frutto di un raggiro ad opera di un tal Pellicani, esperto di araldica oggi ottantenne ma ancora attivo con studio a Roma e a Milano.
Il primo a sentire puzza di bruciato e odore di truffa fu Indro Montanelli e lo esplicitò in un suo articolo, ma all’epoca non vi erano le prove inoppugnabili dello scartiloffio.
Oggi viceversa sono disponibili due ben distinti alberi genealogici, uno di Totò e della sua famiglia e l’altro di un tal Camillo de Curtis, un gentiluomo di settantanove anni, da anni residente a Caracas, legittimo erede dei pomposi titoli nobiliari, assunti in epoca remota da un suo avo tale Gaspare de Curtis.
Il Pellicani, che tra l’altro, come ci ha assicurato il colonnello Bellati, è stato per un periodo ospite dello Stato…creò, secondo quanto riferitoci dal tenore De Curtis, che da decenni s’interessa alla vicenda, documenti dubbi, quali una sentenza del Tribunale di Avezzano emessa nel 1914, pochi mesi prima che un cataclisma devastasse la città, distruggendo la cittadella giudiziaria ed altre due sentenze, l’una del 1945, l’altra del 1946, del Tribunale di Napoli, oggi conservate all’Archivio di Stato, completamente diverse nella grafia da tutte le altre carte contenute nel faldone ed inoltre pare combinò artatamente le due discendenze carpendo l’ingenuità del grande artista che, una volta riconosciuta la sua preclara discendenza, fino alla morte amò distinguere la maschera, irriverente scoppiettante e canzonatoria, dal Nobile, gentile, educato e distaccato dagli eventi e dalle passioni. Pubblichiamo per la prima volta questi due alberi genealogici, uno dei quali indagato fino al 1750 e dal loro esame è incontrovertibile che il marchese Camillo de Curtis appartiene ad una diversa schiatta.
Ciò che abbiamo riferito sulla base delle confidenze del maestro Federico, non sposta naturalmente una virgola nella straripante venerazione con cui legioni di estimatori ricordano il grande, inimitabile, immortale artista e tra questi ai primi posti, teniamo a precisare a scanso di equivoci, sta il sottoscritto, il quale ha rivisto ogni film di Totò non meno di quaranta - cinquanta volte ed è in grado di ripeterne a memoria qualsiasi battuta, tutte le poesie e tutte le canzoni. Ma a proposito di canzoni, trovandoci, vogliamo rendere pubbliche altre confidenze forniteci gentilmente dal parente dell’attore, cugino di secondo grado, il quale, a riguardo dell’indimenticabile canzone “Malafemmina” (fig.15) tiene a precisare che la stessa fu dedicata alla moglie Diana, ancora oggi vivente e non a Silvana Pampanini (fig.16), che l’idea della melodia Totò la prese da una analoga canzone dello zio, padre del maestro Federico, ed infine che a ritoccare musica e parole misero mano il maestro Bonagura e Giacomo Rondinella. E per terminare anche la famosa “Livella”si mormora fosse stata corretta…da Mario Stefanile.
Concludiamo un articolo, apparentemente denigratorio, ma rispettoso della verità storica con un inno all’arte di Totò, sublime nel senso più puro, come inteso da Nietzsche, infatti il grande pensatore tedesco riteneva che il sublime si raggiungesse soltanto quando la comicità della commedia si congiungeva al dramma della tragedia.
E siamo inoltre certi che Totò dalla tomba se leggesse ciò che abbiamo scritto saprebbe commentare le nostre parole se non con una pernacchia almeno con un perentorio:”Ma ci facciano il piacere.”
Creatore di una lingua geniale, caustica e scoppiettante, piena di onomatopeici neologismi, espressa in più di cento film, a tal punto che Fellini, pieno di giusta ammirazione, lo definiva benefattore dell’umanità.


0015 - Locandina

0016 - Silvana

giovedì 25 gennaio 2018

Come risolvere il drammatico problema delle baby gang




Il proliferare delle baby gang è problema non solo napoletano, dove è esploso di recente, per il sempre più ridotto controllo del territorio da parte di una camorra in crisi di identità, ma interessa tutte le grandi città, non solo italiane, ma di tutto l'Occidente.
Al di la dei proclami e delle chiacchere vorrei proporre una soluzione percorribile.
Oltre ad abbassare l'età in cui si può essere imputati, bisognerebbe trasferire automaticamente ai genitori la pena detentiva da scontare per i reati commessi dai figli non seguiti adeguatamente; naturalmente bisognerebbe alle prime infrazioni, anche lievi, esercitare la perdita della patria potestà e l'affidamento ad altri di minori abbandonati al loro triste destino.
Credo che una proposta di legge del genere incontrerebbe il favore dell'opinione pubblica, per cui trovandoci in periodo elettorale,lancio l'appello a qualche parlamentare che vuole farsi bello, ma soprattutto saggio, di passare dalla teoria alla pratica.

Il Mattino - 19 febbraio 2018, pag. 50

domenica 21 gennaio 2018

Scritti sulla pittura del '600 e '700 napoletano III tomo


in 1^ di copertina Luca Giordano Diogene
Torre Canavese antiquario Marco Datrino





Prefazione
“Scritti sulla pittura del Seicento e Settecento napoletano” III tomo, raccoglie una serie di articoli pubblicati dall’autore nel 2017 su riviste cartacee e telematiche. Si tratta in prevalenza di contributi alla storia della pittura napoletana del Seicento e del Settecento, ma non è trascurato il mercato e soprattutto l’invito a scoprire, in egual misura, capolavori inediti ed autori poco noti.
Il primo capitolo, il più importante, è dedicato ad esaminare una importante raccolta di dipinti napoletani, ricca di autori prestigiosi e della quale a breve uscirà un esaustivo catalogo, di proprietàdell’antiquario Marco Datrino a Torre Canavese.
Un eccitante articolo è dedicato all’erotismo nella fotografia, un argomento trascurato e che merita di essere conosciuto, come pure sono recensiti alcuni dei più importanti libri d’arte usciti negli ultimi mesi.
Un libro che non potrà mancare nella biblioteca di studiosi ed appassionati e che potrebbe costituire una splendida strenna da regalare ad un amico.
Non mi resta, nel ringraziare Dante Caporali, autore di molte delle splendide foto, che augurarvi buona lettura.

Napoli, gennaio 2018
 INDICE
  • La galleria dell’antiquario Marco Datrino, uno scrigno prezioso , antiquario Marco Datrino
  • Un San Girolamo di Ribera di straordinario impatto visivo
  • Una chiesa negata alla fruizione
  • Precisazioni ed aggiunte a Girolamo De Magistro
  • Caravaggio? Ma quale Caravaggio!
  • La chiesa della Nunziatella
  • Una mostra da sballo al museo PAN di Napoli
  • La certosa di San Martino chiusa sine die
  • Francesco De Mura eccellentissimo pittore
  • Una mostra superstar: da Caravaggio a Bernini
  • Interviste con i protagonisti di Giuliana Gargiulo
  • Quattro dipinti inediti di Giuseppe Fischetti
  • L’arte nascosta dell’isola verde
  • Le ville di Posillipo, quanti ricordi, quanta malinconia
  • San Michele arcangelo, la più bella chiesa di Anacapri
  • S. Stefano, la più bella chiesa di Capri
  • La Certosa di San Giacomo e la professoressa Elvira Brunetti
  • Il vero nome del maestro dell’annuncio ai pastori
  • Capri il nuovo libro di Achille della Ragione
  • Finalmente riapre la chiesa di San Potito
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lunedì 15 gennaio 2018

12^- Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli. Errori madornali e boiate pazzesche a volontà


nona puntata
decima puntata
undicesima puntata 
(dodicesima puntata)


01 - Risorgimento

Rivisitiamo il Risorgimento

Vorrei cominciare questo capitolo sulla rivisitazione del Risorgimento riproponendo alcune mie lettere sull'argomento, inviate nel tempo ai quotidiani, pubblicate con gran risalto dai più importanti giornali italiani, a volte con 4 colonne di commento del direttore, oppure come nel caso di "1000 giovani al giorno per 150 anni", che ebbe l'onore di uscire su La stampa come editoriale.
Mentre incombono le celebrazioni per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, previste per il 2011, si alzano voci autorevoli per segnalare l’assoluta mancanza di fondi, per cui la manifestazione avverrà senza dubbi in tono minore, anche per l’ostruzionismo praticato dalla Lega, la quale interpreta in senso negativo quella serie di avvenimenti che portarono al sorgere dell’Italia come nazione. 
La pagina più nera della  nostra storia  è ancora coperta dal segreto militare a distanza di oltre 140 anni dagli avvenimenti. Nonostante il Risorgimento (fig.1) stia lentamente subendo un processo di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all’impegno di alcuni storici coraggiosi,che lavorano in contrasto all’ortodossia accademica, a Roma, presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, si conservano, inaccessibili agli studiosi, 150.000 pagine che contengono la  verità sull’insurrezione meridionale contro i piemontesi: quel controverso periodo capziosamente definito brigantaggio.   
I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla distruzione di interi paesi, sulla deportazione dei suoi abitanti e sulla fucilazione di  migliaia di meridionali subiscono ancora “Il complesso La Marmora”, dal nome del generale che diresse per anni la repressione nel Mezzogiorno, prima di divenire capo del governo.  
Negli archivi militari americani si può tranquillamente conoscere ogni dettaglio del genocidio degli indiani, in quelli francesi indagare sugli aspetti più oscuri del colonialismo,in quelli tedeschi sapere tutto sul nazismo. Da noi nel 1967, dopo i prescritti 50 anni di segretezza, abbiamo potuto meditare sulla dolorosa disfatta di Caporetto, ma sulla ”conquista” del Sud da parte del Nord vige ancora un silenzio assordante ed una vergognosa chiusura degli archivi pubblici alla consultazione!
E vorremmo proseguire con un nostro scritto, che fu pubblicato nell’editoriale dei lettori de “La Stampa” e con una lettera al direttore accolta da numerosi quotidiani.

02 - Pino Aprile
03 - Italia confine sud
04 - Riccardo Pazzaglia


La nostalgia dei primati perduti e l’orgoglio neoborbonico
Abbiamo esposto in un altro capitolo i numerosi primati che facevano di Napoli una grande capitale europea nel campo delle arti figurative, della scienza e della urbanistica; soprattutto all’epoca di due re illuminati, come Carlo III e Ferdinando II, per cui non ci ripeteremo.
Vogliamo solo sottolineare come non solo i mass media, ma anche la storiografia ufficiale, ha cercato di propagandare l’immagine di un meridione arretrato e fannullone, perpetuando una sorta di damnatio memoriae, che solo in tempi recenti, grazie all’opera di volenterosi studiosi, sta riacquistando la verità storica degli avvenimenti.
Alcuni libri, come “Terroni” di Pino Aprile (fig.2) e la nascita di alcuni movimenti filo borbonici, ha dato uno scossone decisivo alla marea inarrestabile di menzogne e falsificazioni, con una miscela di dati storici e di vivace vena polemica.
A parte libri e riviste, è su internet che molte associazioni hanno trovato modo di esprimersi, con mailing list di decine di migliaia di contatti.
Vogliamo ricordare, il Partito del sud, Insorgenza civile, Associazione neoborbonica, Comitati due Sicilie, Orgoglio meridionale (fig.3).
La prima nacque venti anni fa e tra i fondatori vi era anche il compianto Riccardo Pazzaglia (fig.4),  il quale, nello scegliere il nome dell’associazione: neoborbonici, intese di fare una provocazione per identificare la protesta del Sud con qualcosa che precedeva l’Unità, acclarando che non tutto ciò che vi era prima del 1861 era negativo.
Gennaro De Crescenzo attualmente presidente dei neoborbonici, è professore di storia e frequentatore di archivi. Un appassionato che contesta il pregiudizio acritico, la storia divisa a fette tra buoni e cattivi, come invece sostiene Aldo Cazzullo a proposito della guerra civile del brigantaggio. Certo alcune forme di estraneità per lo Stato nel sud sono ereditate delle modalità con cui fu costruita la nostra nazione: imposta dall’alto, voluta e realizzata da un’élite, estranea alle popolazioni rurali, come sostennero già Gramsci e in parte Croce. Le classi dirigenti di allora, i notabili latifondisti, fusero subito i loro interessi con quelli della borghesia imprenditoriale del Nord, temendo che quella rivoluzione politica potesse diventare anche sociale. Le campagne erano in rivolta, la guerra contadina, il brigantaggio, faceva del Sud il vero Far west dell’Italia appena nata. Furono i gattopardi di sempre, che muovevano voti e influenzavano masse popolari, a controllare il Mezzogiorno. E aderirono alle scelte politico-economiche dei primi anni dell’unità, privilegiando industrie e finanze del Nord anche a costo di penalizzare le necessità di sviluppo del Sud. La storia a una direzione non fa mai bene e sono convinto che nessuno al Sud pensa ad una secessione, ha nostalgia per i Borbone, o è contro l’unità. L’orgoglio meridionale di oggi comincia dalla rilettura, con documenti, di come diventammo una sola nazione. Non si tratta di dividere, ma di unire. Se si conoscono meglio i percorsi e le identità differenti del processo risorgimentale si ritroveranno forse le ragioni per tenere insieme nord e sud d’Italia che, ignorando le rispettive storie, diffidano l’uno dell’altro, guardandosi con pregiudizio. Cominciamo al Sud: inutile abbandonarsi alla retorica a rovescio del meridionale sempre e comunque migliore degli altri. Certo, le scelte dei primi anni di unità danneggiarono il Mezzogiorno, ma 150 anni dopo va superata la sterile autocommiserazione, la delega delle responsabilità. Partendo dalla rilettura più onesta di storie e culture del passato, l’orgoglio meridionale deve diventare coscienza che oggi più che mai è necessario l’impegno e la serietà di tutti. Neoborbonici e non.

05 - Partenza dei Mille da Quarto
06 -Giuseppe Garibaldi
07 - Regno delle  due Sicilie

MILLE GIOVANI AL GIORNO DA 150 ANNI
150 anni fa mille giovani garibaldini si imbarcarono da Quarto (fig.5–6-7) per andare al sud a fare l’Italia, da allora ogni giorno, ininterrottamente, mille giovani sono costretti a compiere il percorso inverso dal sud verso il nord, alla ricerca di un lavoro e di un futuro decente, perché la vecchia patria non esiste più e la nuova non ha voluto o non  è stata in grado di procurarglielo.  
L’emorragia continua imperterrita con alti e bassi; una sorta di genocidio silenzioso che raggiunse un picco negli anni Sessanta, ma che da tempo ha ripreso lena, privando le regioni meridionali delle migliori energie, dei laureati con lode e di tutti coloro che si sentono ingabbiati nelle maglie di una società pietrificata. 
Tante generazioni perdute che hanno lasciato il sud in balia di politici corrotti, amministratori inefficienti ed eterne caricature di Masaniello. 
Il fiume di denaro pubblico che lo Stato ha elargito per decenni è stato clamorosamente dilapidato, usato, non per investimenti produttivi, ma unicamente per consolidare un vacuo consenso elettorale, perpetuando il proliferare di squallide oligarchie locali, di cricche e di camarille colluse con la criminalità organizzata. 
E mentre ogni anno trecentomila garibaldini alla rovescia sono costretti a lasciare gli affetti ed il luogo natio per cercare altrove la dignità di esistere, l’incubo della crisi economica e del federalismo fiscale rischia di far deflagrare una situazione esplosiva tenuta in coma da flussi di denaro a perdere.  
Se l’idea di eguaglianza e di solidarietà dovesse cedere il passo ad una deriva separatista al sud non resterà che cercare di capeggiare una federazione di stati rivieraschi del Mediterraneo, di mettersi a capo di popoli disperati, avendo come punti di riferimento non più Roma, Milano e Bruxelles, bensì Tripoli, Algeri ed Alessandria d’Egitto.

08 - Claretta Petacci e Benito Mussolini
09 - Relitto aereo

Ho sempre sottolineato l'assurdità del vincolo del segreto militare, che non ha termini perentori, a differenza del segreto di Stato che decade dopo 50 anni e posso testimoniarlo personalmente, perché fui il primo a consultare, trascorsi 10 lustri, il carteggio amoroso tra Claretta Petacci e Mussolini (fig.8), conservato presso la biblioteca nazionale di Napoli.
In particolare vorrei sottolineare che grazie a me conosciamo la verità sulla strage di Ustica (fig. 9) perché dopo la pubblicazione della mia missiva "Una strage che grida vendetta”, che uscì su 11 tra giornali e riviste, finalmente si seguì il mio consiglio e compulsando i tracciati radar della porta aerei americana, alla rada nel golfo di Napoli la notte del fattaccio, si è saputa la imbarazzante verità, anche se in seguito i mass media hanno fatto di tutto per farla dimenticare.
Rileggiamola assieme
Una strage che grida vendetta
A giorni saranno trenta anni dalla strage di Ustica, uno dei tanti misteri che soffocano la nostra storia recente, sulla quale si è detto e non detto  e sono stati versati fiumi di parole inutili. 
A ricordare la triste ricorrenza nessuna cerimonia ufficiale, le interviste reticenti ai politici dell’epoca, che sanno e non dicono ed un bel libro di Rosario Priore, il giudice che indagò a lungo, ostacolato in ogni modo, sulla tragica esplosione del Dc9 dell’Itavia e sulla morte di ottanta persone.   
 Ma trovare la verità non dovrebbe essere difficile e mi permetto di consigliare la via da percorrere a chi volesse, giornalista o magistrato, sapere cosa successe realmente nei nostri cieli.
 Gli Americani conoscono da sempre l’esatto svolgersi degli avvenimenti, anche se hanno sempre rifiutato di collaborare.  A Napoli, alla rada, stazionava una portaerei che con i suoi radar teneva sotto controllo tutto il Mediterraneo, mentre dall’alto ai satelliti non sfugge un metro quadrato di territorio; tutto registrato e conservato.  
 Negli Stati Uniti esiste una legge sacrosanta a baluardo della libertà d’informazione:il Freedom of Information Act, che consente al semplice cittadino di accedere  direttamente ai documenti, anche all’epoca riservati, della pubblica amministrazione civile e militare.  
Le informazioni che ci interessano sono lì che attendono di essere compulsate, ci sarà qualcuno di buona volontà che vorrà adoperarsi per farci conoscere la verità?
In particolare mi interessa parlare ora di Fenestrelle e dopo alcune notizie sulle quali siamo tutti d'accordo: dove si trova, quando è stata costruita, etc, lasceremo la parola a coloro che hanno cercato di fare luce su una pagina oscura della nostra storia, in particolare ad uno studioso nordico per cui insospettabile.

010 - Fenestrelle
011 - Fenestrelle
012 - Fenestrelle
013 - Lager
014 - Lapide Fenestrelle
015 - Manifestazione Fenestrelle

La Fortezza di Fenestrelle (fig.10-11), più comunemente nota come Forte di Fenestrelle, è un complesso fortificato eretto dal secolo XVIII al secolo XIX in località Fenestrelle in Val Chisone (città metropolitana di Torino).  
Per le sue dimensioni e il suo sviluppo lungo tutto il fianco sinistro della valle, la fortezza è anche detta la grande muraglia piemontese (fig.12). Dal 1999 è diventata il simbolo della Provincia di Torino e nel 2007 il World Monuments Fund l'ha inserita nella lista dei 100 siti storico-archeologici di rilevanza mondiale più a rischio (insieme ad altri 4 siti italiani). 
Il forte fu anche una prigione militare in cui furono rinchiusi, oltre ai militari che avevano commesso crimini o gravi infrazioni al regolamento, anche i soldati di quegli eserciti che erano stati attaccati dal Regno di Sardegna prima e dal Regno d'Italia in seguito, durante il Risorgimento e i primi decenni del XX secolo; in particolare austriaci ed italiani degli stati preunitari che avevano combattuto durante le guerre d'indipendenza, componenti del disciolto Esercito delle Due Sicilie fatti prigionieri durante gli anni dell'unificazione risorgimentale del Sud Italia, 6 garibaldini in seguito ai falliti tentativi di Garibaldi di occupare lo Stato della Chiesa, 462 soldati dell'Esercito pontificio dopo la presa di Roma, militari austro-ungarici durante la prima guerra mondiale. I detenuti del bagno penale erano reclusi in camerate comuni.  
Negli ultimi anni il forte di Fenestrelle è passato agli onori della cronaca a causa della "denuncia" da parte di una certa storiografia revisionista, secondo cui nel carcere, nel decennio tra il 1860 e il 1870, furono deportati militari dell'ex Regno delle Due Sicilie, il cui numero andrebbe dai 24.000 fino alle più grandi stime di 120.000 uomini, la cui colpa sarebbe stata quella di essersi opposti alla conquista e alla successiva annessione delle Due Sicilie al neonato Regno d'Italia. Sempre secondo la medesima storiografia, i reclusi sarebbero stati tenuti in pessime condizioni (fig.13). Il 22 agosto 1861 ci fu un tentativo di ribellione in cui i reclusi in rivolta avrebbero cercato di assumere il controllo della fortezza. L'insurrezione sarebbe stata sventata in maniera quasi fortuita dalle autorità piemontesi ed avrebbe avuto come solo risultato l'inasprimento delle pene. 
La definizione di Fenestrelle quale "campo di concentramento” da parte di  autori revisionisti ha stimolato la ricerca storica da parte di studiosi piemontesi, che smentiscono gran parte delle accuse presentate da movimenti revisionisti che sarebbero state inverosimilmente ingigantite quando non direttamente inventate.   
 Lo storico Alessandro Barbero, che ha definito la vicenda di Fenestrelle "un'invenzione storiografica e mediatica", consultando i documenti originali dell'epoca, ha verificato come i prigionieri dell'ex esercito borbonico effettivamente detenuti nel forte furono poco più di mille e di questi solo 4 morirono durante la prigionia. Barbero ha sostenuto quindi: che la fortezza fu solo una delle strutture in cui furono momentaneamente detenuti "anche" militari del Regno delle Due Sicilie; che le condizioni di vita non erano peggiori di quelle degli altri luoghi di detenzione; che la documentazione, sia militare, sia amministrativa, sia parrocchiale, sul numero dei detenuti, sul numero delle morti e loro cause, sulle modalità di seppellimento è ampia e rintracciabile. L'affermazione che con la morte i corpi dei detenuti venissero disciolti nella calce viva (collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa del Forte) viene confutata con l'osservazione che la calce viva non fu utilizzata per fare scomparire i prigionieri, in quanto non capace di sciogliere cadaveri; il fatto che essa fosse bensì "posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere soggette per motivi d'igiene, all'epoca". In sostanza, per Barbero, quanto avvenne a Fenestrelle deve essere molto ridimensionato e, comunque, ancora di più scientificamente studiato, sebbene egli riconosca che tali eventi siano da inquadrarsi nei sussulti, anche dolorosi, del neonato Stato italiano.
Juri Bossuto, consigliere regionale piemontese di Rifondazione Comunista, in un libro del 2012 ("Le catene dei Savoia", scritto con Luca Costanzo, Ed. Il Punto) ridimensiona notevolmente il numero delle vittime, riportandone solo quattro nel novembre del 1860 e tende a smentire il maltrattamento ai danni dei prigionieri borbonici, poiché sarebbero stati assistiti con vitto e cure sanitarie. Sulle mura del Forte è stata affissa una targa (fig.14) a "ricordo" dei fatti denunciati mentre, nel 2016, il sito monumentale è stato oggetto di manifestazioni ad opera di attivisti neoborbonici (fig.15). 
E concludiamo in bellezza riportando un articolo di Alessandro Morelli

016 - Giornale


ALTRO CHE EPOPEA DEL RISORGIMENTO NAZIONALE
In questo periodo c’è un gran parlare delle varie Foibe, Campi di  concentramento nazisti (lager), gulag staliniani e in Italia tutti si  dicono commossi e tutti sono pronti a ricordare. 
Ebbene, almeno queste vittime hanno un testo scolastico di Storia che li  menziona, una stele e una lapide per il ricordo; invece c’è qualcuno che  è stato barbaramente ucciso ma nessuno si ricorda di loro.
Sto parlando dei soldati dell’ex Regno delle Due Sicilie deportati nei  campi di concentramento del Nord.  
Fino a qualche decennio or sono nessuno scriveva di questo, poi poco per  volta vennero a galla delle notizie storiche sempre più precise e  abbinate alla ricerca di alcuni “irriducibili” duo-siciliani si riuscì a  scoprire la dura realtà. 
Finalmente il 23 gennaio scorso un quotidiano nazionale,  “L’Indipendente” (fig.16) si ricorda di loro: I LAGER DEI SAVOIA il titolo  principale e come sottotitolo: Dal sud dell’Italia furono deportati in  migliaia. Gli “incivili beduini” morirono in fortezze e galere del nord.  Il numero esatto delle vittime nessuno lo sa perché i registri furono  distrutti.  
La storia inizia proprio nel 1860, l’esercito piemontese scende nel sud  e ci fu una guerra regolare ed irregolare; tutti i soldati dell’allora  esercito duo-siciliano combatterono regolarmente.  Poi, dopo la caduta di Gaeta, la guerra finì con la vittoria  dell’esercito piemontese e c’era il problema dei soldati fatti  prigionieri.  All’inizio l’allora primo ministro, il barone Ricasoli, propose al  governo argentino l’affitto delle gelide terre della Patagonia dove  deportare i soldati meridionali. Il governo argentino rifiutò l’offerta  e forse, senza saperlo, riuscirono a bloccare la più criminale  deportazione di massa della storia. Allora si decise di internarli nelle  fortezze del Nord-Italia; le prime deportazioni incominciarono  nell’ottobre del 1860. Stipati come bestie sulle navi, furono fatti  sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri e affamati la via  Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a  Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte S. Benigno in  Genova, a Milano, a Bergamo e in varie altre località del nord. In quei  luoghi, appena coperti di cenci di tela, vissero in condizioni  terribili. Per oltre dieci anni, oltre 40.000, rei solo di aver tenuto  fede al loro giuramento, morirono per fame stenti e malattie.
Quelli deportati a Fenetrelle, ufficiali, sottufficiali e soldati  semplici, subirono il trattamento più feroce; il 22 Agosto 1861  tentarono anche una rivolta per impadronirsi della fortezza.  La rivolta fu scoperta prima dell’azione e il tentativo ebbe come  risultato l’inasprimento delle pene con i più costretti con una palla al  piede da 16 kg., ceppi e catene. Pochissimi riuscirono a sopravvivere:  la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature invernali  a 1.600 metri  d’altezza che dovevano sopportare senza alcun riparo, non  superava i tre mesi. La liberazione avveniva solo con la morte e i corpi  venivano disciolti nella calce viva.
Ancora oggi, nell’archivio storico della fortezza, ci sono i registri  dei prigionieri e ognuno di loro porta la dicitura “prigionieri di  guerra” in francese con le date (1861, 1862) di un’Italia già unita.  
Oggi i libri di testo osannano i vari Garibaldi, Cavour, Re Vittorio  Emanuele II, ma nessuno si ricorda di questi meridionali, nostri avi,  morti  senza onore, senza tombe, senza ricordo, neanche una stele alla  memoria.   
Se una nazione si ritiene democratica è anche giusto che divulga ai suoi  concittadini la vera storia e soprattutto che vengano ricordati i primi  centri di deportazione di massa 
Queste brevi note dovrebbero soprattutto far riflettere gli innumerevoli  meridionali che vivono e producono al nord – non ci riferiamo solo agli  operai ma anche ai laureati e gente cosiddetta di cultura – e che  vituperano spesso la loro terra d’origine.



sabato 13 gennaio 2018

11^- Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli. Errori madornali e boiate pazzesche a volontà decima puntata



nona puntata
decima puntata
undicesima puntata 


tav. 1 - Prima del risanamento

“Bisogna sventrare Napoli!”. La  vera storia del Risanamento


La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie del diffondersi nella città di Napoli di disastrose epidemie, che talune volte hanno falciato quote cospicue della popolazione.
Tra queste il colera è il più diffuso, esplode sempre d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature raggiungono i loro picchi annuali e colpisce per primi gli abitanti dei bassi, dove le precarie condizioni di vita favoriscono la diffusione del contagio. 
L’ultimo capitolo di questo dramma infinito si è avuto nel 1973, quando il vibrione del colera, complice la scellerata abitudine di consumare mitili non cotti, prelevati dal mare cittadino, ridotto da tempo ad una penosa cloaca a cielo aperto, ha di nuovo dilagato in città e provincia chiedendo il suo implacabile pedaggio di vittime. 
E purtroppo in questa occasione i mass media hanno dilatato per tutto il globo l’immagine di una città perduta, condannata ed irrecuperabile, per via anche dei suoi abitanti più rozzi, immortalati dalle telecamere mentre si pascevano scriteriatamente di cozze appena prelevate dagli scogli puteolenti di via Caracciolo.
Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e proprio tumulto scoppiato nel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per accaparrarsi il vaccino dal quale  fui travolto assieme ai colleghi medici e mi salvai unicamente perché iniettammo soluzione fisiologica una volta finite le dosi o la delusione patita di vedere al mio matrimonio, celebrato a settembre col morbo da poco terminato, disertato dalla totalità degli invitati non napoletani spaventati e perfino da un mio zio residente a Roma, che doveva fungere da compare d’anello.
Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare Napoli ad una città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori ed amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a regolare la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la sproporzione tra numero degli abitanti e superficie a disposizione, per cui una quota significativa della popolazione è costretta a sopravvivere in condizioni precarie, sia che occupi degli squallidi bassi nei vicoli senza luce del centro antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a Secondigliano.
Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a privilegiare le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione del Risanamento, che seguì all’ennesima epidemia del 1884, la quale provocò nel solo capoluogo 7000 vittime del colera. Anche allora, come si è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di ogni risma, politici corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamento per sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha addirittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile, autorizzata ad agire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.
Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione del Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi (fig.1). Prese forma il Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli (fig.2), ma non si costruirono come promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu costretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto, dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare entrò in fibrillazione con aumenti vertiginosi dei prezzi  e guadagni stratosferici per i soliti speculatori, tra i quali si distinsero i piemontesi, che realizzarono una fortuna tra appalti e subappalti.
Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione, che mise in luce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non si riuscì a condannare nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi risultati, per cui non ci resta che attendere la prossima epidemia, nel frattempo ci dobbiamo contentare di una diffusione di epatite virale che non ha eguali nel mondo occidentale.
Lasciamo da parte i ricordi personali e parliamo ora della gigantesca operazione di speculazione finanziaria che interessò la città di Napoli dopo il 1884.
Il dibattito sull' urbanistica continua a essere problematicamente vivo nella città. Tuttavia restano stranamente poco conosciute o non approfondite alcune vicende come quella del "Risanamento" nella Napoli della seconda metà dell' Ottocento. Essa presenta agganci e riflessi con il grande piano di ristrutturazione di Parigi (1852-1869), realizzato dal barone urbanista Haussmann su commissione di Napoleone III . Sembra quindi interessante riportare alla memoria le caratteristiche dell' operazione "Risanamento", che seguì al colera scoppiato a Napoli nel 1884 e si concretizzò nel primo programma di sventramento del centro storico di Napoli.  
Si può denominare il "quartiere angioino" l'area costituita dai cosiddetti "quartieri bassi", oggetto dell' operazione "Risanamento": Porto, Pendino, Mercato e Vicaria. «Bisogna sventrare Napoli» fu lo slogan che supportò la richiesta al governo del sindaco Nicola Amore (fig.3) della Legge speciale per Napoli, approvata nel 1885. E lo slogan ripeteva l' esclamazione del presidente del Consiglio dei ministri, Agostino Depretis (fig.4), venuto a Napoli assieme a re Umberto I (fig.5) nell' anno del colera. Essa richiamava il titolo del romanzo della Serao (fig.6): "Il ventre di Napoli" (fig.7) (1884), che sollecitava a gran voce il salvifico intervento nel ventre infetto della città. Il programma urbanistico rifletteva la cultura dell' Ottocento, in cui non era ancora sorto il problema dei valori ambientali e della tutela dei centri storici. Pertanto i predetti quartieri malsani e da bonificare - non vi erano né acqua né fogne, quindi le condizioni igienico sanitarie erano pessime - furono risanati con lo "sventramento" senza alcuna remora etico sociale circa la sorte degli abitanti. Questa la classe politica "intelligente e aperta". In sostanza, la classe dirigente borghese identificava solo nella rendita fondiaria la più concreta forma di reddito rifiutando la conversione industriale e commerciale della rendita che avrebbe potuto determinare anche l' evoluzione sociale. Perciò la distruzione dei quartieri "bassi" assicurava l' acquisizione dei suoli per lucrare nuove rendite immobiliari. Del resto anche gli intellettuali sostennero l' intervento (persino Benedetto Croce, che poi a cose fatte si ricredette). Ma sentite cosa esclama Raffaele D' Ambra ("Napoli antica", 1889, con funeree illustrazioni "a ricordo" di squarci dei quartieri da sventrare). Egli esorta a espellere la plebe dal centro storico «perché le evoluzioni sociali e sanitarie lo esigono irreparabilmente». La sezione di Architettura degli "Scienziati Artisti e Letterati" giudicò Castel dell' Ovo letteralmente «un rudere che non ha più ragione di essere in piedi». Per fortuna il Comune non mise in atto tale ridicolo giudizio. La commissione comunale per la conservazione dei monumenti si accontentò che venissero trasferiti nel Museo di Donnaregina dipinti, statue e sepolcri delle 63 chiese e cappelle destinate alla demolizione (fig.8) sorvolando che erano per lo più di età medievale. Nel 1886 fu approvato il progetto dell' ingegnere capo del comune Giambarba, che prevedeva una grande e larga strada, il Rettifilo (fig.9): l' asse attorno a cui ruotava l' intera operazione di sventramento. Era la riproposta del modello urbanistico parigino realizzato a Parigi da Haussmann, dopo il tremendo incendio che distrusse quella città. Già l' architetto Alvino aveva proposto un analogo progetto, ma si levò la voce isolata di Luigi Settembrini (1868), il quale opponendosi dichiarò che il modello parigino rispondeva al programma del dispotismo di Napoleone III, che aveva bisogno di strade larghe per sedare i moti di rivolta popolare e «per caricare il popolo con la cavalleria e la mitraglia». Proponeva invece «di bonificare i quartieri popolari gradatamente e diradando man mano quelle affollate abitazioni ». Ma tornando al "Risanamento" lo stesso Giambarba nel 1887 scrive allarmato: «La febbre dell' acquisto dei terreni ha invaso gli speculatori, si sono comprati fondi duplicandone il valore e ciò ha menato a un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree edificabili». Insomma l'operazione si convertì da un intervento di pubblica utilità a una colossale speculazione edilizia privata. E il Comune, per evitare di farsi carico della tutela degli abitanti non abbienti, favorì la nascita della "Società per il Risanamento" che provvide subito a "gettare sul lastrico" migliaia di famiglie: 87.500 abitanti circa vennero "sradicati". I più fortunati si trasferirono in periferia, gli altri si ammassarono nei vicoli limitrofi e persino nelle grotte sul pendio di monte Echia. Con sgomento la Serao pubblicò, dieci anni dopo, un secondo libro, il "Paravento", e così definì la cortina dei grandi palazzi borghesi che servivano a nascondere l' accresciuta miseria e l' abbandono del popolo napoletano. Infine tale tragedia sociale non ha ispirato alcun romanzo, né dramma teatrale, né opera lirica, che sarebbe potuta essere rappresentata al San Carlo, a proposito del quale si attende da tempo  un rilancio.   

 
tav. 2 - Pianta della zona del Rettifilo

 
tav. 3 - Statua di  Nicola Amore  a piazza Vittoria

 
tav. 4 -Agostino Depretis

 
tav. 5 - Umberto I


tav. 6 - Matilde Serao

tav. 7 - Il ventre di Napoli

tav. 8 - Fontana di Mezzocannone

tav. 9  -Il Rettifilo, corso Umberto I
Approfondiamo ulteriormente l’argomento.
Con il nome di Risanamento ci si riferisce al grande intervento urbanistico che mutò radicalmente e definitivamente il volto della maggior parte dei quartieri storici, in alcuni casi (Chiaia, Pendino, Porto, Mercato, Vicaria) sostituendo quasi totalmente le preesistenze, talvolta anche di gran valore storico o artistico, con nuovi edifici, nuove piazze, nuove strade.    
L'intervento, ipotizzato sin dalla metà dell'Ottocento, fu portato a compimento a seguito di una gravissima epidemia di colera, avvenuta nel 1884. Sotto la spinta del sindaco di allora, Nicola Amore, nel 1885 fu approvata la Legge per il risanamento della città di Napoli e il 15 dicembre 1888 venne fondata la Società pel Risanamento di Napoli (confluita dopo varie vicissitudini nella Risanamento S.p.a.): allo scopo di risolvere il problema del degrado di alcune zone della città che era stato, secondo il sindaco Amore, la principale causa del diffondersi del colera.
Si decise l'abbattimento di numerosi edifici per fare posto al corso Umberto, alle piazze Nicola Amore e Giovanni Bovio, alias piazza Borsa (fig.10), via A. Depretis e alla Galleria Umberto I (fig.11). In realtà alle spalle dei grandi palazzi umbertini la situazione rimase immutata: essi infatti servirono a nascondere il degrado e la povertà di quei rioni piuttosto che a risolverne i problemi.
Nonostante gli studi e i progetti per una risistemazione urbanistica della città, e nonostante il colera fosse scoppiato ben tre volte in meno di un ventennio (nel 1855, nel 1866 e nel 1873) una nuova epidemia si diffuse nel settembre 1884 con estrema violenza nei quartieri bassi e propagandosi in misura minore anche nel resto della  città. Per la prima volta, sulla scorta dell'emozione provocata nell'opinione pubblica nazionale dalla tragedia, si delineò quindi un intervento governativo che risolvesse definitivamente gli annosi mali della città. Agostino Depretis, presidente del Consiglio, dichiarò allora solennemente che era necessario "Sventrare Napoli" (fig.12), coniando così il neologismo sventramento (ispirato dalla lettura della prima edizione de "Il Ventre di Napoli" di Matilde Serao) che si applicò da quel momento alla principale operazione di bonifica da effettuare; termine che poi fu esteso a tutte gli interventi urbanistici simili compiuti in Italia in quegli stessi anni.
In occasione della visita di Umberto I ai cittadini colpiti dal morbo, si parlò della bonifica dei quartieri bassi. Fu allora che si delinearono i principali interventi da realizzare, tra cui la creazione di un'efficace rete fognaria per eliminare il pericolo dell'inquinamento del suolo per le infiltrazioni delle acque infette. Era inoltre necessario ottenere un'abbondante erogazione d'acqua attraverso l'esecuzione dell'acquedotto del Serino e pianificare lo sventramento e la bonifica dei quartieri bassi, da ottenersi mediante una strada principale dalla stazione centrale al centro cittadino e una rete viaria minore ad essa afferente che favorisse la circolazione verso l'interno della brezza marina; inoltre si auspicava la creazione di un quartiere di espansione a nord della città.
Si trattava, come si è visto, del rilancio di temi ricorrenti da decenni, questa volta imposti dalla gravità cui era pervenuta la situazione igienica. La necessità inderogabile di una bonifica della città e in particolare dei quartieri bassi era avvertita dalla classe dirigente, ma, purtroppo, ogni soluzione al problema era rimasta, per tutte le amministrazioni che si erano susseguite, allo stato di enunciato programmatico, essendone la fase esecutiva perennemente impedita da difficoltà di carattere politico ed economico. La situazione economica era d'altra parte gravissima, dato che il Comune era stato costretto, dopo l'Unità d'Italia, a farsi carico di tutte le spese precedenti al 1860, compreso il passaggio dall'illuminazione ad olio a quella a gas e le spese di esproprio dei terreni di Corso Vittorio Emanuele e Corso Garibaldi. Il problema della sistemazione della rete fognaria non era mai stato adeguatamente affrontato.
Il 19 ottobre 1884 Adolfo Giambarba (futuro responsabile dell'elaborazione dei progetti) presentò al sindaco un progetto accompagnato da relazione e computi metrici, nonché da dati statistici circa lo stato dei fabbricati, la destinazione del suolo e delle abitazioni, per il risanamento dei quartieri bassi e l'ampliamento ad oriente della città.  Il progetto di Giambarba polarizzò l'attenzione del Consiglio comunale e dell'opinione pubblica: in esso, la bonifica era perseguita attraverso una strada rettilinea - che sventrava i quartieri Porto, Pendino e Mercato - con inizio in via Medina, al suo incrocio con via San Bartolomeo, ove si creava una piazza ottagonale da cui partiva una strada verso via Toledo. Lungo il suo percorso erano previste sedici strade ortogonali ed altre parallele ad esse, dando luogo ad una trama viaria che incideva su buona parte del tessuto urbano preesistente; si prevedeva, inoltre, un ampliamento della zona portuale tramite colmate.
Per le strade afferenti a Piazza Garibaldi era prevista un'ampiezza di 30 metri e una fascia di esproprio di 50 metri mentre per le traverse del Rettifilo una larghezza di 12 metri; il livello del piano stradale era innalzato di 3 metri e mezzo, adoperando il materiale delle demolizioni, onde costruire una nuova rete fognaria. A completare il disegno del nuovo piano, il Corso Garibaldi era prolungato sino all'Albergo dei Poveri.
Altre polemiche nacquero poi circa la ristrutturazione del sistema fognario, ma finalmente, nel giugno del 1884, la proposta di Giambarba fu approvata e, il 17 febbraio 1885, confermata. Il 10 maggio dello stesso anno si ottenne un altro importante risultato ai fini del risanamento cittadino, con l'inaugurazione dell'acquedotto del Serino.
Il 27 novembre 1884 il presidente del consiglio Agostino Depretis presentò alla Camera dei deputati un disegno di legge in quindici articoli costituenti i "Provvedimenti per Napoli", che fu promulgata il 15 gennaio 1885.
Fu quindi denunciato, per la prima volta e già prima dell'inizio dei lavori, l'effetto della legge 1885: essa aveva provocato a Napoli una speculazione sui suoli fino ad allora sconosciuta. Il consigliere Enrico Arlotta enfaticamente dichiarò: "Dopo l'invasione colerica e l'iniziativa del Municipio per combattere le cause di tanta sciagura, la speculazione di tutta Italia si è riversata sulla Città di Napoli. La speculazione che a volte ha colpito i valori dello Stato, altre il debito pubblico, oggi ha preso di mira i suoli edificatori". E il Giambarba confermando, aggiunse: "La febbre dell'acquisto dei terreni su larga scala ha invaso gli speculatori, si sono comprati fondi decuplicandone il valore e ciò doveva menare ad un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree edificabili".
La speculazione e la possibilità di imponenti lavori avevano del tutto trasformato il mercato edilizio napoletano: grosse società immobiliari avevano, infatti, intuito la possibilità di proficui investimenti, generando negli amministratori cittadini il timore di superare le spese previste, dal momento che gli espropri costituivano la voce passiva di maggiore entità.
Essendo stati i cento milioni previsti dalla legge dilazionati in dodici rate annuali, sarebbe stato logico considerare il valore delle espropriazioni al momento dell'erogazione delle rate: ciò era però improponibile, a causa del continuo aumento di valore dei suoli. Era impossibile avere elementi certi di valutazione, né d'altra parte, si poteva contrarre un nuovo prestito che anticipasse la sovvenzione da parte dello Stato, poiché una simile situazione avrebbe comportato il pagamento di interessi che avrebbero gravato con nuove tasse sui contribuenti napoletani.
Era dunque necessario un solo concessionario che si assumesse i tre punti essenziali dell'opera (espropriazioni, proprietà dei suoli, nuove costruzioni) con tutti i rischi che comportavano: le espropriazioni potevano superare i cento milioni (senza contare i lavori per le fognature); era richiesto un rapido svolgimento, poiché il rimborso era previsto in 10 anni; era necessario, evidentemente, cedere al concessionario i suoli di risulta per le nuove costruzioni, al fine di consentirgli di ricavare un utile dai lavori.
Il concessionario prescelto doveva inoltre coincidere con una società anonima "potente e vigorosa", di cui si sperava facessero parte finanziatori locali, che possedesse il capitale iniziale di 30 milioni necessario per cominciare le espropriazioni. Un rigoroso capitolato avrebbe cautelato i rapporti tra il Comune e la società, al fine di salvaguardare gli interessi dei proprietari dei fabbricati da espropriare.
Per evitare che il concessionario costruisse prima nei nuovi quartieri, dove il guadagno era certo e non vi erano fabbricati da espropriare (nella realtà si verificherà proprio l'opposto, costruendo nelle zone centrali e trascurando le aree di ampliamento), il Comune si impegnava a controllare che fossero edificate abitazioni economiche nel quartiere orientale, secondo quanto già previsto da Ferdinando II.
Si giunse così al capitolato in 40 articoli approvato dalla giunta comunale il 2 marzo 1887, sindaco era ancora Nicola Amore.

tav. 10 - Piazza della Borsa

tav. 11 - Galleria Umberto I

tav. 12 - Piazza della Selleria

Vediamo ora come interpreta la vicenda Angelo Forgione, un giovane quanto preparato napoletanista, a cui diamo la parola. Egli parte da lontano.
 LA SPECULAZIONE EDILIZIA
Il passaggio di consegne del 1860 cambiò l'ottica urbanistica di Napoli, dando inizio a un modo di costruire che valutava i metri cubi unicamente in funzione dello sfruttamento dei suoli edificabili e di ciò che essi rappresentavano in termini di rendita fondiaria.
Paradigmatica la questione del lungomare di Chiaja che, subito dopo l'Unità, perse la sua spiaggia e tutto l'ambiente naturale fin lì celebrato, per far posto, tra feroci polemiche, a una colmata su cui fu costruita l'ampia e pur elegante strada di via Caracciolo e gli edifici sulla riviera. Le spese dell'opera se le accollò l'imprenditore privato belga Ermanno Du Mesnil, in cambio di suoli edificabili e di un consistente sussidio. Corse il rischio di essere demolito persino il Castel dell'Ovo, lasciato all'abbandono (fino al 1975) e minacciato dal delirio della Sezione di Architettura degli Scienziati, Letterati ed Artisti di Napoli, operante in consiglio comunale, che indicò le linee guida dell'intervento generale senza alcun rispetto per le testimonianze del passato. Il maniero sul mare fu definito "brutto e ormai inutile…, un rudere che non ha più ragione di essere in piedi". Così scrissero i tecnici nel progetto generale del 1873 con cui proposero anche la cancellazione di un simbolo storico identitario, il luogo dove la città ebbe origine, per far spazio a un nuovo rione. Fortunatamente, al proposito non fu dato seguito, pur restando emblematico della nuova "sensibilità" in materia di tutela dei beni culturali. I nuovi palazzi sorsero dirimpetto, su un'ulteriore colmata che annientò anche la spiaggia di Santa Lucia (fig.13). La naturale morfologia costiera della città che aveva affascinato l'Europa fu completamente cancellata, senza alcuna valutazione di impatto ambientale.
L'identità andò via con i controversi lavori sul lungomare e quelli più ampi del Risanamento di Napoli, un'operazione gover­nativa per la soluzione dei problemi igienico-sanitari che avevano causato una violenta epidemia di colera di provenienza francese nel 1884; un complesso intervento urbanistico che donò alla città un più sicuro sistema fognario, il completamento dell'acquedotto del Serino, nuovi quartieri, eleganti e più agevoli strade e palazzi signorili, ma dietro il quale, in realtà, si nascondeva il pretesto per una colossale speculazione edilizia privata d'epoca umbertina. Da spartire c'era una torta di denaro pubblico da più di centotrenta milioni di quell'epoca, tutti e subito. E allora, al grido di «bisogna sventrare Napoli», si trovò il modo per allontanare circa novantamila persone meno abbienti dai suoli pregiati. Il piano iniziale di "pubblica utilità", che prevedeva la bonifica dei quartieri bassi a ridosso dell'area portuale con la realizzazione di nuove costruzioni popolari, fu indirizzato verso abitazioni più costose, stravolto in corso d'opera con una variante di progetto senza alcun vantaggio per il Municipio, approvata su forte pressione delle società im­mobiliari e finanziarie piemontesi e romane: la Società Generale di Credito Mobiliare Italiano, la Banca Subalpina e la Società Fratelli Marsiglia di Torino; la Banca Generale e l'Immobiliare dei Lavori di Utilità Pubblica ed Agricola di Roma. Senza dimenticare la Banca Tiberina, di Torino (fig.14), che si era assicurata i terreni e la costruzione del nuovo rione residenziale del Vomero, nell'ambito della stessa legge. Il capitale, completamente esterno alla città, prima fece da parte il Municipio, strappandogli il controllo della città, e poi attuò solo in parte la bonifica. Tutto si
rivelò come occasione per una pura operazione di sfruttamento dei suoli, che non si fermò neanche di fronte al preventivo obbligo scritto di denunciare il ritrovamento di reperti di interesse storico-artistico che avrebbe causato la sospensione dei lavori. Tutte le testimonianze del passato presenti nelle aree dei lavori ne fecero le spese, tra cui una sessantina di chiese anche d'epoca medievale e il notissimo teatro San Carlino a largo del Castello (fig.15). I vecchi inquilini furono costretti a sovraffollare i rioni degradati a ridosso delle nuove abitazioni, eleganti e inaccessibili, allargando un'atavica caratteristica del tessuto sociale cittadino e creando una diversa criticità in quei luoghi: ricchi e poveri negli stessi quartieri ma separati da strade di demarcazione sociale, a Santa Lucia come al nuovo "Rettifilo". Le polemiche sugli appalti portarono alle dimissioni del sindaco Nicola Amore, già discusso questore nei fatti luttuosi di Pietrarsa dell'agosto 1863, che dovette difendersi dalle accuse di aver favorito le banche torinesi nei lavori di bonifica e la società svizzera "Geisser" nell'acquisto di suoli edificabili della città. Ulrich Geisser aveva scalato l'alta finanza grazie ai solidi legami stretti con Cavour e controllava le azioni della Banca Tiberina di Torino, istituto proprietario di alcuni suoli a Chiaja, oltre che al Vomero, che speculò anche a Roma nello sviluppo della nuova capitale del Regno d'Italia. In un momento di crisi economica, il trasferimento di ingenti capitali nelle due importanti città, l'eccessivo sfruttamento dei terreni in tutto il Paese, l'affarismo sfrenato e la disinvolta concessione di prestiti agli speculatori edilizi generarono una crisi del sistema bancario che culminò nel crollo del settore edile e nel fallimento degli istituti di investimento ai quali la Banca Romana aveva elargito prestiti a lungo termine. Per coprire le enormi perdite, l'istituto di credito capitolino forzò l'emissione di moneta senza autorizzazione e stampò un ingentissimo quantitativo di banconote con un numero di serie identico ad altre emesse precedentemente, riservandone una parte per pagare politici e giornalisti. L'iniziale insabbiatura non servì a scongiurare uno scandalo di dimensioni enormi, uno dei primi della storia d'Italia, che svelò un'alleanza strategica tra aristocratici proprietari terrieri e banche settentrionali catapultate su speculazioni a breve termine. Una colossale truffa in cui furono implicati Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e una ventina di parlamentari, nonché, seppur indirettamente, il re Umberto di Savoia, fortemente indebitato proprio con la Banca Romana. Il processo farsa del 1894 produsse un colpo di spugna con cui fu salvata l'alta politica del Regno italiano dei Savoia. I giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la colpevolezza degli imputati. Stessa fine avevano fatto gli incarta­menti di una Commissione d'inchiesta che nel 1864 aveva inda­gato sulle grosse speculazioni attorno alla costruzione e all'esercizio delle reti ferroviarie meridionali, cedute dal governo di Torino alla compagnia finanziaria privata Bastogi, torinese, che le aveva subappaltate vantaggiosamente e clandestinamente, sostituendosi al governo nell'approvare un contratto con destinatari diversi da quelli indicati dal ministero. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord, con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Il politico e industriale livornese Pietro Bastogi, amico del Cavour, era stato l'ispiratore della manovra che gli aveva fruttato un grossissimo margine. Costretto a dimettersi, fu "premiato" col titolo di conte da Vittorio Emanuele II e continuò la sua attività di guida dei grandi banchieri settentrionali, rendendosi abile tessitore anche nella descritta speculazione edilizia di Napoli, Roma, Milano e altre città. Le ferrovie meridionali restarono al palo: sparirono i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adria­tico e, per spostare le merci, furono unite verticalmente a quelle settentrionali che nel frattempo si svilupparono intensamente con la regia di un'altra guida delle banche del Nord, un altro amico di Cavour, quel Carlo Bombrini per cui il Mezzogiorno non avrebbe dovuto più essere in grado d'intraprendere. Fu lui, comproprietario dell'Ansaldo, a coordinare le famigerate banche nel finanziamento delle imprese settentrionali. Una di queste, il Credito Mobiliare di Torino, finanziò il piemontese Francesco Cirio nell'ascesa della sua industria conserviera, cui fu concesso un contratto agevolato dalle Società Ferrovie Alta Italia per la spedizione all'estero di migliaia di vagoni di alimenti. Cirio rastrellò pelati e prodotti della terra nelle zone agricole del Napoletano, del Casertano e del Salernitano ed ebbe piena disponibilità della rete ferroviaria a costi irrisori e contro ogni norma di concorrenza leale, divenendo un caso discusso ripetutamente in varie sedute di un'altra specifica Commissione parlamentare d'inchiesta del 1878 sull'esercizio delle ferrovie. Bastogi e Bombrini, questi erano gli amici di Cavour che inaugurarono le fortune imprenditoriali del Nord; e non c'è da stupirsi delle parole che Vittorio Emanuele II pronunciò al plenipotenziario inglese Augustus Paget:
«Ci sono due modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione.»
Usò le une e l'altra il "re galantuomo" che, alla sua morte, lasciò debiti personali per quaranta milioni di lire (circa quarantacinque milioni di euro di oggi) e molti scheletri nell'armadio. Con questi ed altri scandali, al sorgere dell'Unità, fu inaugurata l'esecrabile commistione tra finanza e politica. Così è nata l'Italia delle tangenti; come poteva diventare un Paese diverso?
Napoli, intanto, iniziava a collassare, colpita dal costo della vita triplicato, in un Mezzogiorno che, producendo un reddito pari al 22% di quello complessivo italiano, versava il 36% del relativo gettito tributario. Nel 1898 si registrarono tumulti per il caro vita, cartina di tornasole di una ex capitale che veniva messa in ginocchio dalle politiche del Regno d'Italia e che iniziava a registrare il fenomeno sconosciuto e progressivo dell'emigrazione. Nel dicembre dell'anno seguente, il settimanale socialista La Propaganda denunciò la corruzione e il clientelismo dell'amministrazione cittadina nell'ambito degli interminabili lavori del Risanamento. Fu istituita la già citata Commissione Saredo, che fece luce sugli intrecci tra amministrazione locale e "alta camorra", mettendo a nudo il disinteresse dei governi di Torino, Firenze e Roma per la città e per il Sud nei primi quarant'anni di Unità.
La speculazione edilizia e la cattiva amministrazione inghiottirono alcune anticipatrici proposte urbanistiche di straordinario valore, su tutte quelle di Lamont Young (fig.16), architetto eclettico e urba­nista napoletano di origini scozzesi, talmente fervido da partorire progetti innovativi e pionieristici mai realizzati. Lui sì che idealizzò un vero abbellimento della città, sfruttandone le potenzialità e non i suoli. Già nel 1872, presentò i disegni della metropolitana di Napoli che prevedevano la costruzione di una strada ferrata sotterranea, con strutture sopraelevate in alcuni tratti, di connes­sione tra Bagnoli, Posillipo, Vomero, San Ferdinando e Capodimonte. Di cultura fortemente progressista, stimolò uno sviluppo sostenibile del turismo e propose i disegni del "Rione Venezia", un nuovo quartiere che da Santa Lucia, lungo la costa di Posillipo avrebbe dovuto collegare Napoli con i Campi Flegrei attraverso un canale navigabile con battelli, sfociando a Bagnoli in un quartiere residenziale a scarsa densità abitativa fornito di stabilimenti balneari e termali, alberghi, un giardino zoologico, giardini, zone terrazzate, ville degradanti verso il mare, negozi e un palazzo di cristallo con un lago e delle isolette. Le sue intuizioni avrebbero modificato il corso della storia urbanistico turistica di Napoli, ma tutti i suoi progetti, a parte quelli di alcuni noti edifici cittadini, rimasero su carta. Entrò in un violento contrasto con la Banca Tiberina di Torino, che avviò la realizzazione delle funicolari di Chiaia e di Montesanto, in conflitto con i prospetti dell'urbanista, e gli espropriò nel 1886 un suolo di proprietà tra i tanti confiscati per costruire la stazione di via Cimarosa. Per l'atteggiamento contrario all'affarismo che poco apportava alla città, Young fu completamente boicottato dall'imprenditoria operante, che poco stimava e che gli diede amare delusioni, conducendolo al disperato suicidio, seppur a vecchiaia sopraggiunta, nella sua Villa Ebe alle rampe di Pizzofalcone. I progetti della ferrovia Cumana, del passante ferroviario tra Gianturco e Pozzuoli e delle successive gallerie cittadine verso la zona flegrea sarebbero stati ispirati alla sua "utopia"; a Bagnoli, il cui nome indica i trascorsi turistico termali, sarebbero poi sorte a inizio Novecento le acciaierie che avrebbero annullato e deturpato una grande risorsa turistica del territorio.

tav. 13 - S. Lucia, colmata
tav. 14 - Banca Tiberina
tav. 15 - Teatro San Carlino
tav. 16 - Lamont Young