mercoledì 30 dicembre 2015

Una interessante aggiunta al catalogo di Antonio De Bellis


01 - De Bellis - Angelo custode

Antonio De Bellis è, tra gli allievi di Stanzione, una figura fino a trenta anni fa quasi sconosciuta alla critica e della quale non possediamo alcun dato biografico certo, essendosi dimostrato mendace il referto dedominiciano della data di morte. Egli si staglia prepotentemente tra i più alti pittori del Seicento non solo «nostro» ma italiano. Un altro dei grandi del nuovo naturalismo napoletano, che medita ed opera, inizialmente, tra il Maestro degli annunci e Guarino, per poi virare verso Stanzione ed il Cavallino pittoricista.
Un artista minore nel limbo dei provinciali orbitanti nell’universo stanzionesco? Troppo ricco è il panorama della pittura napoletana di questi anni per poter assurgere ad una posizione di preminenza, ma per De Bellis, alla luce delle recenti scoperte del De Vito e di Spinosa, si deve almeno parlare di un   minore di lusso.
A conferma dell’autografia e come guida per la collocazione cronologica, vi è in molti dipinti il particolare curioso che l’artista, al pari del Cavallino, ha la civetteria di auto ritrarsi più volte e nelle fogge più disparate, con tratti somatici che variano con lo scorrere implacabile degli anni.
Le stringenti affinità che intercorrono nella scelta delle soluzioni compositive e nella tipologia dei personaggi raffigurati, e le notevoli analogie con la Natività firmata Bartolomeo Bassante del Prado, avevano indotto il Prohaska a trasferire a questo autore una grossa parte della produzione del De Bellis.
L’identificazione della sigla «ADB» su di una roccia nel dipinto Lot e le figlie, oggi a Milano presso la Compagnia di Belle Arti, ha fugato ogni dubbio ed ha permesso di assegnare definitivamente al nostro artista tutto quel gruppo di opere che il Prohaska riteneva di Bartolomeo Bassante.
Un interessante inedito di grande qualità va ad incrementare il catalogo di Antonio De Bellis: un Angelo custode (fig.1) conservato in una collezione privata di Modena, che richiama a viva voce la sua autografia grazie a calzanti confronti con opere certe dell’artista.
Il primo termine di paragone è costituito dal San Sebastiano curato dalle pie donne (fig.2) del museè des Beaux Arts di Lione, con il quale condivide il mantello, identico non solo nel colore, ma anche nell’eleganza con cui sono definite le pieghe (fig.3).
Il secondo raffronto va istituito, soprattutto per il volto sovrapponibile, con un’Immacolata Concezione (fig.4) conservata nella seconda cappella a sinistra dell’ingresso nella chiesa napoletana di San Carlo alle mortelle, dove si trova il più importante ciclo di dipinti del De Bellis, che furono oggetto di uno studio approfondito da parte di Raffaello Causa nel suo monumentale saggio sulla pittura napoletana seicentesca, pubblicato nel 1972 nel V tomo della Storia di Napoli.
Lo studioso annusò nel De Bellis la stoffa del pittore di razza, «sivigliano» a metà strada tra il Velázquez e lo Zurbaran delle Storie di San Bonaventura. Egli esaminò i quadri della serie carolina con le storie del santo, nella chiesa dei Barnabiti di San Carlo alle Mortelle e pensò, sulla falsariga del racconto dedominiciano, che i dipinti fossero stati realizzati durante la peste, per il crudo realismo di alcune scene quasi da reportage fotografico e per la constatazione di alcune tele lasciate incompiute: «non tutti siano di una stessa perfezione, perciocché, alcuni di essi non furono terminati ma dipinti alla prima, così restarono per sua immatura morte» (De Dominici). Il Causa ritenne di grande livello il San Carlo che comunica gli appestati e il San Carlo che visita gli infermi. Stupendi brani di pittura tra i documenti più icastici della peste e tali da poter gareggiare con i celebri bozzetti del Preti eseguiti per le porte della città. «Una figura, un ritratto, un gioco compositivo che rivela l’indipendente di gran classe, punto zenitale di una continuità di grande cultura locale» (Causa).
L’iconografia della serie è nuova ed originale ed alcuni episodi sono stati interpretati solo grazie al contributo conoscitivo che fornì Boris Ulianich, indiscusso pontefice degli studi agiografici. Alcune immagini sono straordinarie e soffuse da una struggente aria di malinconia e di tristezza, come il San Carlo in preghiera con una caterva di cadaveri alle spalle, che rendeva ridicolo al confronto l’analogo soggetto «caramelloso e azzimato», dipinto quarant’anni prima dalla pittrice Fede Galizia per l’altare maggiore. E che dire del dipinto ove il santo dà in carità il suo oro per sfamare i poveri, nel quale «il ritratto del prelato col sacchetto di scudi d’oro entra a buon diritto tra i personaggi più incisivi della pittura seicentesca» (Causa).
La meteora del De Bellis sembrava che dovesse sparire in un attimo nei giorni tumultuosi dell’epidemia, ma il rinvenimento di alcune sue opere siglate e collocabili con certezza agli anni successivi alla peste, tra il 1657 e il 1658, ci hanno dato la certezza che l’artista aveva continuato a lavorare.
Il Bologna, sulla base di considerazioni stilistiche, aveva già da tempo predatato di un ventennio il ciclo carolino, che in seguito, grazie a dei documenti reperiti dal De Vito presso l’archivio dei padri Barnabiti di Milano, ha trovato una definitiva collocazione cronologica agli anni 1636-39.
La formazione del De Bellis viene spostata quindi alla metà degli anni Trenta, con un percorso del tutto affine a quello seguito dal Cavallino, del quale è probabilmente coetaneo. In seguito dopo le esperienze vigorosamente naturaliste, negli anni Quaranta sulla guida delle soluzioni di brillante e luminoso pittoricismo del Grechetto e del Poussin giunse a risultati di così alta eleganza formale e ricercatezza cromatica da essere a lungo, nelle sue opere migliori, confuso con Cavallino.
La tela in esame va di conseguenza collocata cronologicamente intorno agli anni Quaranta, un momento felice nel suo percorso artistico.
Negli ultimi anni della sua attività, il De Bellis, per soddisfare le esigenze di una committenza pubblica legata a soluzioni convenzionali di pittura religiosa di carattere devozionale, dovette variare nuovamente il suo stile. Una progressiva stanchezza ed uno scadimento di qualità si avvertono infatti nelle sue ultime tele come la Trinitas terrestris, siglata, nel santuario della Madonna di Sunj e la Madonna in gloria tra i Santi Biagio e Francesco d’Assisi, anch’essa siglata e conservata nella chiesa del convento dei Domenicani a Ragusa, l’odierna Dubrovnjk, la quale per alcuni particolari topografici nella dettagliata pianta della città è databile con precisione tra il 1657 e il 1658.


02 - De Bellis confronto 1

03 - De Bellis particolare 1

04 - De Bellis confronto 2

05 - De Bellis particolare 2

martedì 29 dicembre 2015

1^- Inesattezze, bugie ed imprecisioni sulla storia di Napoli. Errori madornali e boiate pazzesche a volontà


Libri sulla storia di Napoli e sulla napoletanità ne esistono a migliaia e se ne continuano a stampare senza sosta. Molti, innamorati della città, si improvvisano scrittori, copiando da precedenti pubblicazioni ed aumentando oltre misura il numero dei volumi dedicato all’argomento. Tanti illustri sconosciuti che cercano di aggiungersi a nomi famosi ed autorevoli quali Vittorio Paliotti, Aurelio De Rose e Pietro Gargano (fig.1–2–3). Ma anche questi ultimi non sono immuni da errori e scopo di questo articolo e di altri che seguiranno è quello di mettere in luce una serie di inesattezze, se non vere e proprie castronerie, che si raccontano sulla storia di Napoli e dei Napoletani. 

fig. 01 - Vittorio Paliotti
fig. 02 - Aurelio De Rose
fig. 03 - Pietro Gargano

Un terreno particolarmente fertile di imprecisioni è costituito dal capitolo: Napoli capitale delle reliquie, che si trova in qualunque libro che tratta di storia della città, oltre che di tradizioni e superstizioni. Dovunque leggiamo che nelle chiese, oltre a quello celeberrimo di San Gennaro, si conservano decine e decine di ampolle di altri santi, che contengono sangue che si coagula in particolari giorni dell’anno. Fatta eccezione per quello di S. Patrizia (fig. 04), venerata in San Gregorio armeno, il quale ogni tanto… di martedì compie il prodigio, invano cerchereste altrove altre ampolle miracolose. Sono da tempo irreperibili nei luoghi ove viene riferito si trovino, come nel caso del sangue di S. Alfonso Maria dei Liguori, che dovrebbe trovarsi nella chiesa della Redenzione dei captivi a Port’Alba, ma dove manca all’appello da tempo immemorabile. E se pure altrove riuscite a trovare in altre chiese delle reliquie, esse non producono alcun fenomeno a memoria di uomo.
La situazione si fa più comica se vi mettete alla ricerca delle famigerate ampolle (circa cento) contenenti coaguli di sangue di santi e beati, di proprietà di antiche famiglie napoletane. La notizia viene riferita in tutti i libri che trattano dell’argomento, alcuni addirittura dal titolo la Città dei sangui, ignorando che in italiano la parola sangue non possiede il plurale.
Alcuni mesi fa mi sono personalmente messo alla ricerca di una di queste ampolle, per cui ho cominciato a chiedere a tutti coloro che ne avevano parlato nei loro scritti, il nome di almeno una famiglia che le possedesse. Oltre ai tre famosi napoletanisti citati all’inizio mi sono rivolto senza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio, Marino Niola ed a molti altri, arrivando alla conclusione che trattasi di una leggenda metropolitana, priva di alcun fondamento storico. Tutti hanno candidamente dichiarato che avevano riportato la notizia semplicemente perché altri la avevano riferita.
E rimanendo in campo ematologico segnaliamo che nella cappella destra della navata della chiesa dedicata a San Gennaro (fig.05), posta sulla Domiziana nel comune di Pozzuoli, si venera la pietra sulla quale, secondo la tradizione, è stato decapitato il santo, la quale attira numerosi fedeli da ogni dove e in qualsiasi periodo dell'anno, poiché nei giorni che precedono l'anniversario della sua decapitazione le presunte tracce di sangue appartenenti al santo assumono ogni giorno di più un colore rosso rubino, mentre durante tutto il resto dell'anno la pietra è nera. Secondo studi recenti si è però dimostrato in maniera incontrovertibile che la pietra è in realtà il frammento di un altare paleocristiano di due secoli posteriore alla morte del martire sul quale si sono depositate tracce di vernice rossa e di cera e che il tutto è  solo frutto di una suggestione collettiva.
 
fig. 04 - Culto di S. Patrizia
fig. 05 - Chiesa di San Gennaro alla Solfatara

Se ci portiamo ora in ambito artistico le boiate aumentano considerevolmente, perché la fonte di tutti i napoletanisti, professionisti e dilettanti, è il De Dominici, biografo settecentesco, dotato di un acuto occhio con il quale sa discernere un pittore dall’altro, ma nello stesso tempo dotato di una fervida fantasia, con la quale condisce di particolari del tutto inventati la vita dei protagonisti del suo libro: Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, pubblicato in tre tomi tra il 1742 ed il 1745.
Il caso più eclatante è senza dubbio quello di Diana De Rosa (fig.06), la famigerata Annella di Massimo, moglie del pittore Agostino Beltrano e pittrice anch’ella, nell’ambito della scuola stanzionesca. Diana era la sorella maggiore di Pacecco De Rosa (non la nipote come spesso riferito) e, secondo il celebre biografo, allieva dello Stanzione «cara al maestro come collaboratrice in pittura e, per la sua bellezza, come modella».
Anche le sue sorelle Lucrezia e Maria Grazia, la quale sposò Juan Do, un altro artista, erano molto belle e con Diana furono soprannominate le «tre Grazie napoletane», vezzeggiativo che fu poi ereditato dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse bellissime.
Pur se citata dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pittrice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto i dati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo.
Il De Dominici ciarlava che Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si recava spesso da lei, anche in assenza del marito per controllare i suoi lavori e per elogiarla. Una serva della pittrice, che più volte era stata redarguita dalla padrona per la sua impudicizia, incollerita da ciò, avrebbe riferito, ingigantendone i dettagli, della benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso la discepola, scatenando la gelosia di Agostino, il marito, il quale accecato dall’ira, sguainata la spada, spietatamente le avrebbe trafitto il seno. A seguito di questo episodio il Beltrano, pentito dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti di Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse molti anni prima di ritornare a Napoli.
Oggi la critica, confortata da dati inoppugnabili, tra cui la documentazione che morì nel suo letto dopo avere ricevuto l’estrema unzione, non crede più a tale favoletta, anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» che dal Croce al Prota Giurleo, dal Causa a Ferdinando Bologna unanimemente si credeva fosse stato inventato in pieno Settecento dal De Dominici, è viceversa dell’«epoca», essendo stato rinvenuto in alcuni antichi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei duchi di Maddaloni nel 1648 ed in quello del principe Capece Zurlo del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti assegnati alla mano di «Annella di Massimo».
Questa nuova constatazione fa giustizia della vecchia diatriba tra il comune di Napoli ed il Prota Giurleo, indispettito che una strada della città fosse dedicata ad un nome inesistente e convinto che dovesse ritornare all’antico toponimo di via Vomero Vecchio.
Nonostante questa realtà di dati non vi è scrittore di storia napoletana che non ci racconti la sua fine violenta, un vero e proprio femminicidio ante litteram, oggi tanto di moda.
Passiamo a Mattia Preti (fig.07), il famoso cavaliere calabrese, uno dei giganti della pittura italiana ed ascoltiamo il racconto del De Dominici, ripreso in tutti i libri su Napoli:” Siamo nel 1656, nel pieno infuriare della peste, il pittore si presenta ad una delle porte di accesso della città e, qualificatosi come sommo artista, chiede di poter entrare, ma riceve un diniego da parte del comandante del picchetto di guardia. Senza scomporsi il Preti estrae lo stiletto e trafigge l’interlocutore, al che, i soldati spaventati da tanto ardire, gli cedono il passo e l’ingresso entro le mura. Scatta in breve una condanna a morte con la possibilità di commutare la pena nell’esecuzione di una importante committenza: affrescare le sette porte della città con dei giganteschi ex voto di ringraziamento (fig.08) per la cessazione della peste, che saranno eseguiti in maniera magistrale, ma non certo dopo aver patteggiato la pena, perché il Preti, come ha dimostrato in maniera inconfutabile Spike, uno studioso americano, massimo esperto dell’artista, che ha reperito alcuni documenti che attestano che il Preti risiedeva a Napoli già nel 1653, tre anni prima che infuriasse la peste!!!
 
fig. 06 - Annella De Rosa
fig. 07 - Mattia Preti
fig. 08 - Bozzetto del Preti per un affresco

E passiamo ora a raccontare la vera storia della sfogliatella (fig.09), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli.
La cucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spaghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italiana all’estero. Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcuni dolci sono molto conosciuti ed apprezzati come il sanguinaccio, la pastiera, gli struffoli, le zeppole di San Giuseppe e la sfogliatella. Meno noti, ma non meno saporiti: il casatiello, i taralli, il babà, i mostaccioli, i biscotti all’amarena, la pasta reale, la coviglia al caffè, i croccanti, la pizza di amarena e crema. Nel Seicento andavano di moda tanti piccoli dolcetti, come quelli puntigliosamente descritti nei quadri di natura morta da Giuseppe Recco (fig.010) o da Tommaso Realfonso (fig.11), infarciti di miele e di marmellate, da mangiare letteralmente con gli occhi prima che con la bocca, tanta era la cura nel prepararli e la gentilezza nell’offrirli.
I pittori napoletani erano abili quando rappresentavano fiori o frutta nel renderla talmente somigliante all’originale che, senza esagerazione, si poteva percepire l’odore ed il sapore, per cui raffigurando dolci e dolcetti ed avvicinandosi alla tela all’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca.
Erano la gioia dei salotti della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della nobiltà, che alternavano la preghiera ed il raccoglim ento alle delizie del palato, gustando dolci, senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. lo testimoniano i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito nell’archivio del Banco di Napoli (fig.012). Tra i dolci partenopei il più famoso è certamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la santa rosa. Tutte hanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchiglia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed arricchite di crema e confettura di amarene le S. Rosa. Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di conca dei Marini sulla costiera amalfitana, in torno al XV-XV secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa Chiara (fig.013) alla Croce di Lucca (fig.014), scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua. la scoperta recentissima di alcuni documenti in lingua latina ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa. Pare infatti che già durante le feste priapiche (fig.015), che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta (fig.016), venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile. Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaione. nella grotta si svolgeva anche il culto a Venere genitrice, praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità. il rito si svolgeva durante tutto il mese di settembre sia all’interno che all’esterno della cripta. alcuni volenterosi e ben dotati sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, tra i quali probabilmente anche l’iperglicemica antenata della sfogliatella, si attivavano in maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile. Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si impegnava per la riproduzione della specie,all’esterno, tra anfratti e cespugli, la plebe si abbandonava, al ritmico suono di rudimentali strumenti musicali, a multipli amplessi, in un’atmosfera delirante di eccitazione. dagli espliciti riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità.  Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi  del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto in cambio della ricetta a compiere il pasticcio…ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti. con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.

fig. 09  Sfogliatella riccia napoletana
fig. 010 - Giuseppe Recco

fig. 011 - Tommaso Realfonso
fig. 012 - Interno-dell'hivio
fig. 013 - Napoli-Monastero -Santa Chiara
fig. 014 - Croce di Lucca
fig. 015 - Riti priapici
fig. 016 - Cripta neapolitana


mercoledì 23 dicembre 2015

Novità su Giuseppe Bonito


fig. 1 - Bonito - Una famiglia felice - 175 - 114 - Modena collezione privata

Dall’uscita della mia monografia su Giuseppe Bonito, nel 2014, a cui hanno fatto seguito due nuove edizioni, con cadenza costante mi pervengono da parte di antiquari e collezionisti nuove segnalazioni di dipinti, alcuni di notevole qualità, che quanto prima conto di pubblicare.
Inoltre richieste di conferma per opere di cui si è persa la memoria, come nel caso, alcuni mesi fa, di un docente universitario di letteratura italiana a Firenze, il quale stava curando la traduzione ed il commento del resoconto di un viaggiatore del Grand Tour, che, negli ultimi anni del Settecento, aveva ammirato “I giganti” del Bonito nella Reggia di Portici, dipinto per il quale non si conoscono documenti e che in ogni caso non è più in sede.
Oppure, un caso simile, quando ho letto un articolo su Il Mattino, nel quale, parlando di Palazzo Gravina, uno dei pochi edifici napoletani che posseggono una facciata a bugnato, attualmente sede della facoltà di architettura, ma a lungo ufficio centrale delle poste, si accennava a degli splendidi affreschi che ornavano i saloni, eseguiti, alcuni dal De Mura, altri dal Fischetti ed altri ancora dal Bonito. Anche questi non solo scomparsi, ma per i quali non esiste alcun documento di pagamento, nonostante alcuni testi sui palazzi napoletani ne segnalino l’esistenza.
Infine la molla che mi ha spinto a scrivere sul pittore la visita di una collezione privata modenese, che, tra altri capolavori, conserva uno splendido inedito dell’artista, che potremmo chiamare: Una famiglia felice (fig. 1) e per le identiche misure potrebbe costituire il pendant di una tela (fig. 2 – 3) transitata tempo fa sul mercato antiquariale.
Alcuni particolari della tela in esame sono di notevole qualità e sono classici dello stile del pittore, dal volto rubicondo della bimba che impugna una mela (fig. 4), mentre la sorella più grande (fig. 5) mostra una rosa, segno evidente per la simbologia dell’epoca che è in cerca di marito nonostante la giovane età, il fratellino più piccolo sta tra le braccia della mamma (fig. 6) e gli altri due, più grandicelli, ostentano già delle pompose parrucche (fig.7).
Altri dettagli ci permettono di leggere i titoli dei volumi rilegati (fig. 8 - 9) sui quali si poggia orgoglioso il padrone di casa, libri di argomento colto, da Ippocrate a Socrate. Forse il nobile è un medico erudito, sicuramente un blasonato e sapremo quanto prima anche il nome della sua casata, appena sapremo identificare il suo blasone (fig.10 - 11) con l’aiuto di Nicola Della Monica, esperto di araldica e del presidente del Circolo dell’Unione, che raduna nella sua storica sede, ospitata nei locali del Teatro San Carlo, ciò che resta della gloriosa nobiltà partenopea.



Achille della Ragione


 
fig. 2 - Bonito - Una famiglia numerosa - 175 - 114 - Italia mercato antiquariale



fig 3 - Bonito - I due dipinti a confronto
fig. 4 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 1) - Modena collezione privata


fig. 5 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 2) - Modena collezione privata
fig. 6 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 3) - Modena collezione privata
fig. 7 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 4) - Modena collezione privata
fig. 8 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 5) - Modena collezione privata


fig. 9 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (particolare 6) - Modena collezione privata
fig. 10 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (blasone 1) - Modena collezione privata
fig. 11 - Bonito  - Una famiglia felice - 175 - 114 - (blasone 2) - Modena collezione privata

Il centenario dimenticato



A giorni il 2015 cederà il passo al nuovo anno e bisogna constatare con tristezza che la ricorrenza del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia è stato rimosso e volutamente dimenticato sia dalle istituzioni che dai mass media.
Nessun intellettuale ha fatto sentire la sua voce solenne sui giornali, ammonendo i giovani sui disastri della guerra e ricordando i passi della nostra costituzione che la ripudiano come mezzo per risolvere le controversie tra i popoli.
La televisione ha continuato a propinarci programmi spazzatura, senza organizzare un ciclo di film educativi del livello di Orizzonti di gloria di Kubrick o Roma città aperta di Rossellini, invitando alla meditazione.
Siamo gli eredi della generazione che ha messo, e se ne vantava, i fiori nei cannoni, ma oggi siamo solo impegnati ad acquistare o a sognare il nuovo modello di telefonino o la vacanza ai Caraibi.
Che tristezza!!!

Achille della Ragione

domenica 13 dicembre 2015

Cuffaro libero


Achille con il senatore SALVATORE CUFFARO ex presidente della regione Sicilia

L'ex governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro dopo aver scontato la condanna a sette anni per concorso esterno nel favoreggiamento alla mafia, oggi torna un uomo libero, lasciandosi alle spalle il carcere romano di Rebibbia. Finalmente finisce un doloroso calvario, percorso con cristiana rassegnazione e comincia una nuova vita tutta dedicata al prossimo. Infatti è sua ferma intenzione, subito dopo il periodo natalizio trascorso in famiglia, di partire per il Burundi e lì prestare la sua opera di medico in favore della derelitta popolazione africana, facendo tesoro della preziosa esperienza maturata a contatto con ergastolani senza speranza e con gli ultimi della terra, da tutti dimenticati, spesso anche dai propri cari.  Una decisione che merita rispetto ed ammirazione.
 

sabato 5 dicembre 2015

Il museo delle bambole di Ravenna




01 - Arredi e decori per bambole

Una gioia per grandi e piccoli


Il piccolo museo delle bambole di Ravenna è stato fondato nel 2006 da Graziella Gardini Pasini, che ha voluto condividere la sua collezione privata di bambole e altri balocchi, raccolti nel corso di molti decenni.
Il frutto di una grande passione è oggi a disposizione di grandi e piccini che vogliono conoscere da vicino il mondo e la storia del più famoso giocattolo di tutti i tempi: la bambola.
Il percorso del museo copre il periodo 1850-1950, passando così dai tempi in cui le bambole erano create artigianalmente, al momento in cui iniziano ad essere un oggetto industriale. Tra i materiali scopriamo la porcellana, la carta e corpi di legno, ma quello che ha cambiato notevolmente l’utilizzo di queste bambole e il destino di ogni bambina è la celluloide, una prima plastica dura, che ha reso molto più economici ed accessibili questi affascinanti oggetti. Infatti, mentre un tempo, i pochi possessori delle bambole non potevano nemmeno toccarle per non rischiare di danneggiare la loro così delicata consistenza, una volta in uso questo nuovo materiale, finalmente ci si poteva giocare più liberamente.
E in questa casa delle bambole non potevano mancare le “case delle bambole”: camerette, cucine, stanze complete di suppellettili di ogni genere.
Tutte le bambole infatti vivono in un ambiente in miniatura creato apposta per loro.
Nel museo si trovano alcuni pezzi importanti di marche che hanno fatto la storia della bambola, come Jumeau, Armand Marseille, Lenci, Kathe Kruse, Furga, Tartaruga, Minerva e una piccola collezione di Kewpie.
Il museo non vuole essere soltanto un nostalgico viaggio nel passato, ma un confronto con i modi di vivere e di giocare nelle varie epoche.
Un piccolo pezzo di storia di costume visto attraverso gli occhi dei bambini e delle loro bambole.
hanno. Alcune teche del museo sono dedicate al mondo della scuola con libri, quaderni, cannette, pennini e calamai, altre espongono capi di abbigliamento d'epoca per bimbi e neonati. Inoltre, una sezione è dedicata a bambole eseguite artigianalmente provenienti da varie parti del mondo.

Marina della Ragione

02 - Bambole allegre e tristi
03 - Alcune delle più belle bambole della collezione
04 - Le bambole più eleganti
05 - Bambole dal mondo




giovedì 3 dicembre 2015

Il mausoleo Schilizzi, una potenziale attrazione turistica

01 - Mausoleo Schilizzi


Abito da mezzo secolo a Posillipo, ma solo ieri sono riuscito a visitare il mausoleo Schilizzi, l’originale monumento funebre in stile egizio, con annesso parco, che, con piccoli lavori di manutenzione, potrebbe trasformarsi in una interessante attrazione turistica, oltre a costituire un corroborante polmone di verde per la popolazione alla disperata ricerca di giardini dove trascorrere ore liete.
Sul finir dell’Ottocento doveva essere la tomba di una ricca famiglia livornese, ansiosa di gareggiare con i più potenti faraoni, è divenuto poi da decenni un sacrario in memoria dei tanti giovani che hanno sacrificato la vita per la patria nel corso della 1° guerra mondiale.  Il panorama è mozzafiato, con Capri in primo piano, gli alberi maestosi, i prati numerosi, senza considerare la calma serafica che emana da un luogo di memorie, che induce alla meditazione.
Cosa aspettano le istituzioni con una spesa modesta a restituirlo degnamente alla fruizione di indigeni e forestieri?
Fin qui abbiamo riportato il testo di una lettera che abbiamo inviato ai giornali napoletani con la speranza di smuovere le torbide acque della burocrazia. Vogliamo ora aggiungere qualche notizia storica per gli appassionati delle ricchezze culturali ed artistiche napoletane.
La monumentale tomba inserita in uno splendido parco, dotata di una maestosa scalinata e di uno scorcio di panorama indimenticabile, fu costruita alla fine dell’Ottocento per volere di Matteo Schilizzi, un banchiere livornese attivo in città quando Napoli era una capitale europea del commercio, il quale voleva una sontuosa sepoltura per il fratello Marco, scomparso prematuramente e per i suoi discendenti. Incaricò dell’opera l’ingegnere Alfonso Guerra, che si adoperò alacremente per circa 10 anni, ma dovette poi sospendere i lavori per il sopravvenuto disinteresse del committente.
In seguito, grazie all’interessamento della contessa Martinelli, sarà il figlio dell’ingegnere Guerra, Camillo, a completare l’edificio, che verrà destinato a partire dal 1929 ad ara votiva per i caduti della Patria. Dopo quelli della Grande guerra, trasferiti da Poggioreale, arriveranno quelli della 2° guerra mondiale e delle Quattro giornate di Napoli. A lungo e si vede ancora la nicchia, ma è vuota, ha riposato in eterno Salvo D’Acquisto, prima che i suoi resti mortali fossero trasferiti nella chiesa di S. Chiara.
A sentire gli abitanti del luogo, ogni tanto al tramonto, sembra che il mausoleo si animi, si odono passi ed altri rumori non identificati, molti credono che sia il fantasma di Matteo Schilizzi che vaga inquieto nel parco alla disperata ricerca di una degna sepoltura. Più probabile che sia la voce della città, che richiama al dovere i suoi amministratori, impegnati unicamente a spartirsi fondi e ad accaparrarsi biglietti omaggio per le partite del Napoli.

Achille della Ragione

02 - Primo piano
03 - Chiesa interna
03 - Chiesa interna