giovedì 5 aprile 2012

Le pale d’altare del Farelli per le chiese napoletane


13/4/2011

Una figura di rilievo nel panorama artistico napoletano della seconda metà del secolo è Giacomo Farelli, (Roma o Napoli 1629 - Napoli 1706) del quale un documento recentemente scoperto dal Delfino ci corregge la data, 1629 e non 1624, e forse anche il luogo di nascita.
Concettualmente vicino alla cultura del Di Maria nella fase iniziale della sua carriera, quando persegue l’identico indirizzo intellettualistico dell’Accademia di Notomia fondata dallo stesso Di Maria con Andrea Vaccaro, si avvicina gradualmente al Giordano cominciando ad impreziosire le sue pitture ed infondendo «nobiltà alla sua nuova maniera con l’usare tinte dolci e piene di morbidezza» (De Dominici). Giungerà poi nella piena maturità ad una sorta di neo michelangiolismo che non trova corrispettivo culturale nella nostra città e deriva da lunghe e proficue meditazioni romane a cospetto della Sistina.
Il Farelli esegue pale d’altare per le chiese napoletane per oltre 50 anni, i documenti infatti ce lo mostrano attivo dal 1652 al 1705, spesso realizzando il dipinto destinato all’altar maggiore, a dimostrazione lampante di una fama presso i committenti che non è stata riconosciuta adeguatamente dalla critica moderna.
Numeroso è l’elenco delle chiese dove ha lavorato:Trinità dei Pellegrini, Materdomini, S. Brigida, S. Maria Maggiore, San Carlo alle Mortelle, Duomo,S. Maria Reginacoeli, San Michele Arcangelo al Vomero. S. Maria della Stella, Arciconfraternita dei Verdi allo Spirito Santo, Purgatorio ad Arco, Pietà dei Turchini, San Paolo Maggiore, Redenzione dei Captivi, la parrocchiale di Secondigliano, San Giuseppe dei Ruffi, Egiziaca a Forcella, Gesù Nuovo, S. Domenico Soriano, San Luigi di Palazzo, ed in provincia a Capri nella chiesa di S. Stefano e ad Aliano nella SS. Annunziata.
La sua prima opera documentata, pagata all’artista il 24 maggio1652, è la Visione di S. Antonio(fig. 1 – tav.1), posta sul primo altare a destra  della chiesa della Trinità dei Pellegrini, la quale, per la scelta iconografica, richiama a viva voce la tela di identico soggetto eseguita dallo Stanzione per la chiesa di S. Brigida, mentre nella parte superiore si può apprezzare un sostrato di cultura neoveneta desunto attraverso le tenerezze cromatiche di un Cesare Fracanzano ed un’attenzione agli esempi di Guido Reni.
La scena rappresenta il santo con le mani al cielo nel momento in cui raccomanda al bambin Gesù, circondato da angeli, un confratello della Congrega dei Pellegrini intento a lavare i piedi ad un povero, mentre in alto assiste benevolo il Padre Eterno, che rivedremo simile in altri lavori del pittore, in  particolare nell’ex monastero della Pietrasanta, oggi caserma Del Giudice dei vigili del fuoco, dove compare con le medesime sembianze.
Il De Dominici riferisce che il quadro venne eseguito talmente bene da ingannare i visitatori, che lo ritenevano opera del suo maestro Vaccaro.
Nella sottostante chiesa di Materdomini è conservata una tela, copia da Maratta, raffigurante S. Filippo Neri che prega davanti all’effige della Madonna(tav. 2), attribuita da parte della critica al Farelli, ma che noi riteniamo vada decisamente espunta dal suo catalogo.



Alcuni anni dopo,  grazie all’interessamento del Vaccaro e del Di Maria, che avevano creato una sorta di fronda anti Giordano, il Farelli riesce ad ottenere dai padri lucchesi la committenza per la pala sull’altar maggiore della chiesa di S. Brigida, relegando nel transetto lo stesso Giordano e lo Stanzione. Egli esegue una Visione di S. Brigida che contempla i simboli della Passione(tav. 3 – fig. 2) con grande maestria, consigliato dal Vaccaro ed adoperando colori dolci e pieni di morbidezza, che fecero apparire ai professori preziosa la sua pittura, pur nel rispetto di una serrata costruzione dei volumi. 


La tela è firmata, ma non è stato fino ad ora reperito il documento di pagamento. In ogni caso la data di esecuzione è certamente il 1655, quando fu eseguita la pala del Giordano, perché non è ipotizzabile che la pala principale venisse commissionata dopo quelle laterali.
Alla tela per S. Brigida seguirono la S. Anna (già molto restaurata nel Settecento) e l'Assunta per S. Maria Maggiore, più  conosciuta come chiesa della Pietrasanta, delle quali non possediamo immagini, anche se le tele esistono ancora in un deposito della sovrintendenza dove giacciono da decenni in precario stato di conservazione. Ce le descrivono il Sigismondo ed il Galante, anche se quest’ultimo non ne identifica correttamente l’autore.  
La tela raffigurante l’Assunta, con gli apostoli attorno al sepolcro, ricorda vagamente nella composizione, secondo la Gallichi Schwenn, quella eseguita dal Tiziano, con un atteggiamento delle figure molto più movimentato, mentre la S. Anna rammenta la maniera del Di Maria. La santa è col Bambin Gesù nel grembo, con la Beata Vergine  posta in ginocchio davanti a loro, mentre alla scena assistono San Giuseppe e San Gioacchino, oltre ad un nugolo di angioletti.
Nel ex monastero attiguo alla chiesa, oggi caserma Del Giudice dei vigili del fuoco, è presente una tela del Farelli raffigurante l’Eterno Padre(fig. 3), alla quale va collegato un disegno preparatorio(fig. 4), già nella collezione Ferrara Dentice ed oggi nel museo di San Martino, mentre nella cappella è conservata un’Annunciazione nella quale si colgono lampanti affinità con la tela di identico soggetto oggi  nella chiesa di S. Brigida, ma proveniente dalla chiesa di San Luigi di Palazzo demolita nel 1810. 




Il foglio riporta sul retro un’iscrizione:Farelli e secondo la Pastorelli rappresenta lo studio per l’affresco sito nella volta della chiesa di San Filippo all’Aquila, databile a prima del 1676. La fonte ispirativa è senza dubbio, come ha sottolineato la Causa Picone, l’Eterno Padre che il Lanfranco, tra il 1630 ed il 1636, affrescò al centro del Paradiso nella cupola della Cappella del Tesoro di San Gennaro.
Nel museo di San Martino si conserva un altro disegno(fig. 5), attribuito al Malinconico, che a mio parere deve essere assegnato al Farelli, come ulteriore studio preparatorio per l’affresco aquilano, essendo riscontrabili analogie stilistiche anche con gli affreschi nella chiesa dei SS. Apostoli, firmati e datati 1671.
Nella cappella della Concezione, sita negli ambienti della sacrestia della celebre Cappella del Tesoro nel Duomo vi è un ciclo ad affresco con Storie della Vergine e Simboli dell’Immacolata eseguito dal Farelli, dopo che lo stesso era stato iniziato da Luca Giordano. Il Nostro si impegna a proseguire il lavoro del collega e “raggiunge uno dei suoi livelli più alti in un confronto appassionato e studioso col linguaggio barocco di Preti, Giordano, Lanfranco e Beinaschi”(Leone de Castris).
I lavori del Farelli vengono descritti dal De Dominici, il quale, oltre a giudicarli negativamente, li colloca cronologicamente in un momento che i documenti hanno smentito. Infatti oggi sappiamo con certezza, grazie alle polizze pubblicate da Strazzullo, le quali coprono un arco temporale dal giugno del 1664 all’aprile del 1665, che la Deputazione del Tesoro aveva affidato nell’ottobre del 1663 la decorazione a Luca Giordano, offertosi a lavorare gratis per devozione, completando la committenza entro un anno. Nel mese di novembre il pittore consegna i disegni preparatori per l’approvazione in cambio delle sole spese., ma nei primi giorni dell’anno successivo, preso da molteplici impegni, si vede costretto a declinare l’incarico, che viene assunto dal Farelli, anche lui disposto per devozione a rinunciare ad ogni compenso. 
Certamente sua e l’Immacolata(tav. 4), firmata, posta nella volta ed a nostro parere, anche se parte della critica è discorde, anche le Storie della Vergine nelle lunette e gli Angeli con simboli della Passione nei peducci.
Le cinque lunette raffigurano un Cristo morto, l’Annunzio dell’angelo a S. Anna, S. Anna e San Gioacchino(fig. 6), in cui compare la figura del giovane a torso nudo ripreso di spalle, una consuetudine nella pittura napoletana post caravaggesca,  la Nascita di Maria e Maria che va al Tempio; quest’ultima lunetta segnata palpabilmente dall’influenza del Domenichino, mentre gli altri affreschi manifestano una chiara adesione alla coeva corrente classicista romana.

Sappiamo dal Chiarini che il Farelli affrescò la volta della cappella di San Liborio nella chiesa di San Carlo alle Mortelle, ma il suo lavoro, rovinatosi, venne imbiancato e ridipinto dal De Bellis.
Nell’Arciconfraternita dei Verdi, annessa alla chiesa dello Spirito Santo, gli appartiene il quadro dell’altar maggiore, raffigurante una Natività, la quale sia nell’impostazione che nell’illuminazione, tradisce l’ispirazione reniana, magistralmente espressa nel dipinto di egual soggetto conservato nella Certosa di San Martino.
Per la chiesa di San Michele Arcangelo al Vomero esegue una serie rappresentante i miracoli di San Francesco attualmente dispersa e sempre per l’ordine dei Paolotti dipinse nel coro della chiesa di S. Maria della Stella tre tele distrutte da un incendio provocato dai bombardamenti del 1943. Esse raffiguravano una Madonna che appare a San Francesco(fig. 6) sulla parete di fondo, di cui si conserva una foto nell’archivio della sovrintendenza, Cristo caccia i mercanti dal Tempio alla parete sinistra e Cristo e l’adultera a destra, del quale, come riferito dalle fonti, esisteva in collezione Capomazza a Napoli un quadro corrispondente(fig. 7) nel quale, come afferma Pavone” si rende esplicito riferimento ad una rilettura del Ribera in chiave classicistica per quanto riguarda le figure dei vecchi; mentre il volto dell'adultera trova coincidenza, fin nei riccioli che ricadono sulla fronte, col San Michele del Transito di S. Giuseppe, non meno che con la Vergine del Riposo, sempre in San Giuseppe a Chiaia”.

Le tre tele vengono puntigliosamente descritte dal Chiarini e sulla base di questa lettura la Gallichi Schwenn le interpreta in chiave tintorettesca.
Egli affermava:”Le figure generalmente di poco colorito sono tutte sforzate nei movimenti inclusa quella del Salvatore”. Ed a proposito dell’adultera scriveva:” Scappò di mano al dipintore una magnifica bellezza nella persona della donna adultera, in piedi, che tra le grazie affettate della sua mala condotta e della presente rassegnazione al cospetto dell’Uomo Dio”… ed infine del quadro della Madonna:” Squisitamente condotta con una luce ed un colorito bellissimo”.
Ad un arco temporale dal 1644 al 1681 appartengono le 12 tele ovali poste tra i finestroni della chiesa di S. Maria Reginacoeli, che il Galante sorprendentemente assegna al Farelli, in contrasto con tutte le principali guide sette ed ottocentesche le quali indicano come autori principali Giordano e Micco Spadaro.
La paternità dei quadri, poco studiati perché poco visibili, è stata affrontata dalla Nappi in occasione della revisione della Guida Sacra operata nel 1985 e, seguendo una comunicazione orale di Spinosa, al Farelli spetterebbe unicamente una S. Brigida.
Nel 1670 il pittore consegna la sua S. Anna offre la Vergine bambina al Padre Eterno(tav.5), che viene posta nella zona absidale della chiesa del Purgatorio ad Arco sopra la celebre pala d’altare dello Stanzione raffigurante la Madonna delle anime purganti.

La tela è uno sfolgorio di colori e rappresenta un vero e proprio omaggio al Giordano, in grado di influenzare anche un artista formatosi in ambito diverso, più tradizionalista ed attento alla lezione di un maestro più antico, ma fondamentale, come il Lanfranco. Un vero capolavoro di cromatismo, dominato da tinte azzurre e verdi, che si perdono in un poderoso violaceo nelle parti più scure, dando luogo ad un colorismo piacevole e talmente luminoso da apparire raggiante.
Maria troneggia tra le nubi nella gloria dell’Eterno Padre, la cui testa appare al di sopra delle spalle della Madonna. Più in basso S. Anna inginocchiata ai piedi di lei, supplica le anime purganti, mentre un bell’angelo, che sembra prelevato dalle cupole del Correggio, guarda indifferente verso il basso la valle di pena del Purgatorio.




Un ritorno al tenebrismo delle origini e comunque alla lezione vaccariana è presente, sempre nel 1671, nelle due ampie composizioni per la Pietà dei Turchini, raffiguranti la Nascita di Maria (fig. 1) e la Morte di S. Anna(fig. 2).
I due dipinti sono immersi in un’aura di misticismo con ombre ora cupe ora leggere, rese con leggiadra maestria attraverso un cromatismo delicato.


S. Anna nel letto, subito dopo il parto, riceve la profezia con gli occhi sollevati al cielo, imitando la maniera del Reni, mentre un gruppo di puttini è intento a giocare tra panneggi azzurri. A sinistra la piccola Maria, raggiante di luce è in grembo ad una donna con un turbante orientale, un dettaglio caro al Farelli che lo ripeterà spesso nelle sue composizioni, a guisa di firma criptata. Un’altra donna, presa di spalle mentre prepara dell’acqua in un bacile, si volta sorpresa a fissare un uomo che sembra accecato dalla luce radiosa che emana dalla bambina appena nata.
Nella scena della morte S. Anna appare col volto emaciato devastato dal dolore e dalla vecchiaia, mentre Maria, misericordiosa,  cerca di confortarla. Gesù Bambino alza le mani al cielo e San Giuseppe è seduto ai piedi del letto nel suo mantello giallo oro. Un arcangelo domina dall’alto la scena in un brillio di colori argentei, mentre altri angeli e puttini si avviano verso l’alto per accompagnare l’anima della moribonda.
Il De Dominici racconta che i due quadri furono molto apprezzati ricevendo le lodi non solo dai professori, ma dagli stessi Giordano e Solimena.
L’anno successivo nella grande pala (fig. 3), firmata e datata, posta sull’altar maggiore della chiesa della Redenzione dei Captivi, il Farelli innesta in un neovenetismo di ispirazione giordanesca elementi del classicismo bolognese, giungendo ad esiti di espressionismo esasperato.
Il De Dominici apprezzò molto la grande pala: "In somma è quest'opera degna di ogni laude, così per l'espressiva, come per lo disegno el bel colorito, ch'è molto vago, e per l'ottimo componimento, concepito con idea nobile, e con decoro delle figure, che fanno ornamento a si bella pittura".

Il Pavone in linea con le parole del celebre biografo ha constatato che il dipinto “pur conservando una marcata impronta tenebristica che coinvolge le figure della parte inferiore, parzialmente debitrici di ricordi naturalistici, rivela notevoli propensioni verso un recupero del naturalismo fiorentino, specie nella sottolineata ricchezza degli abiti del mercante e del suo collaboratore dal copricapo piumato. Traspare una volontà di riagganciarsi a quel filone controriformistico napoletano che aveva avviato la controproposta al linguaggio caravaggesco, facendo leva sulle tinte scure di matrice bassanesca. Interviene a questo punto la confluenza verso l'operato del Di Maria, cui sono riconducibili le accentuate torsioni degli schiavi, ma anche il rilievo dato ai volti giovanili legati alle tipologie del Domenichino. Un più movimentato marchio chiaroscurale, denso di riferimenti al Beinaschi del primo periodo napoletano, caratterizza la scena superiore, contraddistinta dal groviglio dei corpi angelici sovrastati dalla Vergine, la cui tipologia impronta le tele di S. Giuseppe a Chiaia e di S. Maria della Stella”.
Il riscatto degli schiavi è rappresentato da un cristiano che giunge con una barca ad un lido turco ed offre un sacco d’oro al mercante, mentre uomini, donne e bambini esprimono la loro gioia ed incredulità attraverso un eccitato dinamismo. Tutta la parte superiore della tela è occupata da un gruppo affollato di angeli che sorreggono la Madonna col Bambino.



La composizione appare ben equilibrata, inquadrata in una prospettiva profonda con un piccolo paese sullo sfondo, ma è dominata dai gesti molto vivaci, dai gruppi troppo intrecciati e dall’esplosione dei sentimenti, che rendono la composizione quanto mai espressiva.
Di poco successive sono le tele nella chiesa di S. Maria Egiziaca a Forcella, in pessimo stato di conservazione: un San Nicola di Bari mentre salva il fanciullo coppiere(tav. 1) ed ai lati una Madonna col Bambino ed un Arcangelo Michele, in cui riaffiorano momenti di integrazione al linguaggio giordanesco, non disgiunti da un recupero iconografico ed il San Ruffo(tav. 2) della chiesa eponima, commissionato da Fabrizio Ruffo, duca di Bagnara, il quale raffigura in basso a destra, il santo, in primo piano con la spada, che rappresenta il suo simbolo iconografico. Egli calpesta la bandiera dei turchi sconfitti, indossando un’ampia veste rosso fuoco, impreziosita in petto da una croce bianca a rappresentare simboli e colori dei cavalieri di Malta.


Vicine stilisticamente ed intrise dagli stessi colori al San Ruffo sono le due poco note tele della chiesa di S. Stefano a Capri, raffiguranti il San Costanzo che libera l’isola dai saraceni(tav. 3) ed il  Martirio di S. Stefano(tav. 4).
Del 1675 è il dipinto conservato nella parrocchiale di Secondigliano da taluni studiosi ritenuto disperso, che il De Dominici descrive come Nostro Signore con i dodici apostoli nell’atto di istruire il Santissimo Sacramento e che invece raffigura il Redentore con i santi Cosma e Damiano. Esso è  ancora in situ, non è firmato ed ha  sul retro una iscrizione dedicatoria con la data di esecuzione.
Difficile datare il Cristo servito a mensa dagli angeli collocato nel corridoio che conduce alla sacrestia nella chiesa di S. Teresa agli Studi, assegnato al Farelli dal Galante e non citato in nessuna delle altre guide cittadine. L’attribuzione del dipinto, poco visibile, è stata confermata dalla Tecce.
Altro dipinto di incerta attribuzione e di difficile datazione è quello conservato nella cappella a destra dell’altare nella chiesa di S. Teresa a Chiaia, assegnato al Nostro dalla Pagano e raffigurante la Vergine che dà lo scapolare a S. Simone Stock.
Disperso nella chiesa di S. Pantaleone e S. Mattia un Crocefisso, ricordato dal Galante, che lo riteneva tra le più belle pitture del Farelli.

In San Pietro ad Aram nella seconda cappella destra è conservato un San Bonaventura nel deserto assegnato al Farelli da Spinosa.
Nella derelitta chiesa di San Giovanni Battista delle monache, chiusa da tempo immemorabile, si conservava del Farelli, nel corridoio che porta alla sacrestia,       un’Incredulità di San Tommaso, forse dimenticata in qualche deposito della sovrintendenza o più probabilmente dispersa.
Il De Dominici ricorda l’opera del Farelli nella chiesa del Gesù Nuovo, dove dipinse “l’arco della cappella del reggente Fornaro, a fresco sulla tonaca, delle quali pitture fu ben riconosciuto e n’ebbe molta lode”.



Gli affreschi raffigurano tre Virtù(tav. 5) e furono realizzati nel 1688 nel sottarco del secondo arco a sinistra fra la navata centrale e la navata minore, in corrispondenza della cappella Fornaro; nello stesso tempo egli realizzava anche il primo sottarco a sinistra, in corrispondenza della cappella dedicata ai SS. Martiri, il quale, andato in rovina, fu ridipinto nel 1789 da Vincenzo De Mita.
Farelli in precedenza, nel 1669, come si evince da un contratto notarile pubblicato dal Delfino, si era impegnato a decorare tutta la cappella Merlino, ma non avendo rispettato l’impegno la committenza passo al Giordano, il quale affrescò la cupola distrutta poi dal terremoto del 1688.
I due dipinti conservati nella chiesa di San Giuseppe a Chiaia, raffiguranti il Riposo nella fuga in Egitto(tav. 6) ed il Transito di S. Giuseppe(tav. 7) appartengono alla piena maturità del Farelli e furono eseguiti nel 1690 e non nel 1673, come riferito dal De Dominici, una data ripresa da tutta la critica fino alla recente scoperta del documento di pagamento. Una circostanza che ha falsato tutte le ricostruzioni dell’attività del pittore.


Essi offrono la chiara testimonianza di una ripresa di toni vaccariani legati ad una più ampia formulazione figurativa, ma anche di una riproposta di connotazioni naturalistiche racchiuse in un più marcato contorno disegnativo, con una predilezione per l’addensamento delle ombre anche nei primi piani.
Il Pavone nel commentare le tele ha sottolineato nel riposo durante la fuga in Egitto la figura del San Giuseppe, il quale stende una mano rugosa e tinta di scuro che richiama quella del vecchio posto al centro del Cristo e l’adultera già in collezione privata a Salerno e nello stesso tempo nel Transito di San Giuseppe la Vergine lascia fuoriuscire dal manto una mano le cui dita sottili emergenti dall’ombra rammentano quelle dell’adultera del quadro testé citato.

“Nella Fuga in Egitto la testa del S. Giuseppe, pur improntata secondo modelli di stampo naturalistico stanzionesco, è concepita attraverso il puro abbozzo cromatico che disperde l'analisi minuziosa dell'epidermide in un impasto materico grumoso e sfuggente, allo stesso modo in cui il Bambino, investito dalla luce, perde la consistenza corporea. Questa riacquista maggiore forza nel Battesimo di Cristo, dove si assiste alla delineazione di figure giganteggianti sull'esempio di M. Preti, ma sottoposte ad un luminismo più tenero e duttile, vicino al Giordano”(Pavone).
Ancor più approfondita è l’analisi dei due dipinti da parte della Gallichi Schwenn, la quale sottolinea nel Riposo nella fuga in Egitto la matrice marattiana della composizione in contrasto con la figura del San Giuseppe pienamente caravaggesca, mentre l’Angelo custode si rifà alle delicatezze del Reni, con il suo mantello svolazzante, che imprime dinamismo alla composizione. La tavolozza è quanto mai originale, infatti la Madonna indossa una veste rosa chiaro ed un mantello azzurro, che nelle parti più luminose provoca un effetto giallastro, mentre le ali dell’angelo riflettono dei chiari e degli scuri di un argento dorato.
Nell’altra composizione San Giuseppe è sul letto di morte con Gesù chinato su di lui, mentre a sinistra vi è una bella e giovane donna inginocchiata con accanto l’Arcangelo Michele che atterra Lucifero con la sua gamba muscolosa. Alla scena assistono un nugolo di angioletti ed una dolce figura femminile, forse Maria, con il volto addolorato. Ora i colori sono più robusti, dalla corazza verdognola dell’angelo al mantello rosa che vira verso il violaceo. Intorno al moribondo domina il marrone dorato ad eccezione della figura del Gesù, che porta una nota rossa nella veste ed una blu nel mantello.
Il De Dominici si dilunga nella descrizione delle opere dipinte nell’oratorio dei nobili in San Francesco di Paola, sotto il titolo di Nostra Signora de’ Sette dolori, ove vi era la più completa raccolta dell’attività del Farelli.
Egli ci ricorda affreschi che furono distrutti e tele che andarono disperse al momento della demolizione di San Luigi di Palazzo, avvenuta nel 1810 per ordine di Gioacchino Murat, allo scopo di realizzare il Foro Gioacchino, nel cui ambito, utilizzando un precedente progetto murattiano, fu costruita nel 1816 da Ferdinando I di Borbone l’attuale chiesa di San Francesco di Paola.
Il biografo descrive due tondi con puttini intenti a sostenere gli strumenti della Passione, dipinti con buon disegno e delicato impasto di colore e due affreschi, uno raffigurante la Resurrezione del Redentore e l’altro l’Assunzione della Beata Vergine.
Vengono poi segnalate le tele che oggi si trovano nella chiesa di San Ferdinando, ad eccezione dell’Orazione al tempio di S. Anna e San Gioacchino per ottenere la prole quando vennero scacciati dal sommo sacerdote che risulta dispersa, mentre le altre sono attualmente così collocate: la Nascita della Vergine(fig. 4) nella seconda cappella destra, la Presentazione al Tempio(fig. 5) nella prima cappella sinistra, la annunciazione(tav. 8) nella seconda cappella destra, la Visitazione ed il Sogno di san Giuseppe conservati nella sacrestia.
Il De Dominici segue a fornirci una dettagliata lettura iconografica di otto tondi ad olio: il primo raffigurante S. Isidoro, il secondo l’immagine di San Francesco di Paola, che, essendosi consumata per l’umido venne ricopiata dal suo discepolo Francesco Manzini. Gli altri sei tondi rappresentavano puttini con tra le mani gli attributi e le glorie della Beata Vergine.
La volta era tutta affrescata con 4 storie: l’Orazione di nostro Signore nell’orto, la Cattura di Cristo, la Crocefissione e l’Angelo che parla alla Maddalena. Vi erano poi vari profeti ed altre storie: la Purificazione, la Fuga in Egitto, la Disputa tra i dottori, l’Andata al Calvario, la Deposizione dalla croce ed infine la Sepoltura di nostro Signore.
Per il primo affresco delle quattro storie del Nuovo Testamento il De Dominici indica la data del 1668, quando l’artista comincia a realizzare il vasto ciclo decorativo per l’Oratorio dei Nobili, detto di Nostra Signora dei Sette dolori, il quale aveva sede nel chiostro di San Luigi di Palazzo, completato solo nel 1691 a seguito di una lunga controversia con i Fratelli della Congregazione.
Ritorniamo ora alle cinque tele conservate nella chiesa di San Ferdinando per sottolinearne il disegno accurato ed i colori chiari, caratteristici dei modi del Farelli negli anni Sessanta, ma soprattutto ”i ricchi panneggi che accompagnano il saldo impianto volumetrico dei corpi, i brani di natura morta – vasellame di rame in particolare - inseriti ai margini della composizione, le elaborate acconciature che disegnano i languidi ovali dei volti femminili, le mani moderatamente rigonfie  e con unghie perfettamente ritagliate; mentre fasci di luce, nel solco della locale tradizione naturalista, fanno emergere le figure dal fondo scuro, evidenziandone consistenza di apparenze, ma anche, per le sostanziali preferenze accordate dal pittore alle tendenze classiciste negli anni ’50, compostezza e garbo di gesti e atteggiamenti”(Monaco).
Nell’Arciconfraternita della Madonna del Rosario nella chiesa di San Domenico Soriano sulle pareti si conservano tele sagomate del Farelli, alcune datate 1703. Esse, in precario stato di conservazione appalesano una caduta nella qualità dello stile, fiacco e ripetitivo e  rappresentano, a sinistra dell’altar maggiore, l’Annunciazione, la Visitazione e la Natività ed a destra la Caduta sotto la croce, l’Incoronazione di spine e la Presentazione al Tempio(frammentaria).
Del 1703 è anche la data del dipinto di Airola raffigurante un Gesù Cristo in gloria che mostra l’ostia(fig. 6) conservato nella chiesa dell’Annunziata ad Airola, il quale presenta in basso a destra l’iscrizione J.us Farelli F.
Alla fase finale della sua attività spetta poi il quadro posto sopra la porta d'ingresso della distrutta chiesa di S. Luigi di Palazzo (1705), "ove con una infinità di figure rappresentò l'incontro del Santo col Re di Francia Ludovico XI, che lo venne ad incontrare, con molti belli accompagnamenti che fan ricca la storia" (De Dominici).


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