venerdì 10 aprile 2020

Uno scandalo originale



Ho apprezzato l'ultima puntata dell'Uovo di Virgilio nella quale Vittorio Del Tufo magistralmente descrive la vita che si svolgeva nel carcere minorile Filangieri ed il triste destino attuale della gigantesca struttura, che potrebbe essere trasformata in ricovero per anziani e barboni, in grado di ospitare migliaia di persone.
Ma vorrei accennare ad un dettaglio scandaloso di cui nessuno è a conoscenza: la contigua chiesa delle Cappuccinelle, il cui monastero è divenuto poi il Filangieri, era ricca di opere d'arte, in particolare grandi pale d'altare di Solimena e dei principali allievi del Giordano ed è stata sottoposta dagli attuali occupanti della struttura ad un saccheggio sistematico, asportando non solo dipinti ed acquasantiere, ma anche tutte le mattonelle del pavimento. Ma non contenti, coadiuvati da abili writers, essi hanno sostituito le immagini sacre con degli imponenti ritratti di Lenin, Fidel Castro e Che Guevara ed utilizzano la enorme sala per riunioni politiche extra parlamentari

Achille della Ragione

giovedì 9 aprile 2020

Un San Girolamo di Luca Giordano

fig.1 - Luca Giordano - San Girolamo - 60 x72 -
Brescia collezione privata


Abbiamo ricevuto da un collezionista di Brescia una foto di un San Girolamo (fig.1), sovrapponibile anche per le misure, a quello da me identificato nella collezione Pellegrini di Cosenza nel 1998, quando, con la consulenza dei massimi esperti di pittura napoletana del Seicento: Nicola Spinosa, Vincenzo Pacelli, Mario Alberto Pavone e Pierluigi Leone De Castris  stilai un esaustivo catalogo della raccolta, fino ad allora ignota a tutti.
Il San Girolamo (fig.2), quadro di altissima qualità, tra i gioielli della raccolta, è attribuibile con certezza a Luca Giordano nella sua fase riberesca. Nei primi anni della sua attività è a tutti noto che l’artista si rifece ai modi pittorici del Ribera e ne riprese alcuni temi iconografici di successo, come le mezze figure di filosofo, che ebbero nel Seicento una grande diffusione, non solo in Italia, perché richieste da uomini di cultura che amavano adornare i loro studi e le loro biblioteche con immagini di sapienti dell’antichità.
Molto ricercate erano anche le figure di santi per devozione privata e tra queste bisogna includere il nostro San Girolamo, il quale ci consente di verificare il grado di assimilazione della lezione del valenzano da parte del Giordano, un imprinting mai dimenticato, infatti la critica più avvertita ritiene che anche in anni maturi Luca dipinse più volte alla maniera del Ribera. Nella composizione si osserva l’abbandono del netto stacco chiaroscurale, dei bagliori folgoranti e dei fondi scuri presenti anche nel San Girolamo della Pinacoteca civica di Asolo, mentre col Profeta Balaam fermato dall’angelo del museo di Berlino condivide il tono della folta barba bianca.
Per la collocazione cronologica della tela l’ipotesi più convincente è intorno agli anni Sessanta, a comprovare il recupero di formulazioni verso le quali Luca si era orientato nei tempi della sua prima formazione. Prima di aderire anche lui con convinzione alla paternità giordanesca del dipinto il Pacelli aveva ipotizzato che potesse trattarsi di un prodotto della bottega riberiana ed aveva pensato al pennello di Hendrick Van Somer, uno dei suoi allievi più dotati.
Il dipinto in esame per l'elevata qualità della pennellata potrebbe costituire l'originale o in ogni caso una replica autografa di eguale valore.

Achille della Ragione




fig.2 - Luca Giordano - San Girolamo - 61x74 -
Cosenza collezione Pellegrini



mercoledì 8 aprile 2020

Vietato anche morire dignitosamente





Stamane una telefonata concitata della badante di mia zia: "Correte subito la signorina dopo aver invocato più volte il vostro nome ha perso i sensi". Salto in auto pochi minuti e sono al capezzale di chi mi ha invocato, giusto in tempo per ascoltare gli ultimi rantoli disperati e chiudere gli occhi alla mia adorata zia, ultranovantenne, religiosissima, che ieri ha recitato il suo ultimo rosario, ma che non potrà avere la benedizione della salma, perché un'ordinanza lo vieta, come pure domani al suo funerale potrà partecipare soltanto un parente.
Viviamo tempi tristi e difficili, ma anche morire con dignità ci è precluso

Achille della Ragione

Un Diogene inedito firmato di Salvator Rosa

tav. 01 - Salvator Rosa - Diogene - firmato -
76 x 101 - Torino collezione Salvatore Canato


Nel vasto panorama del secolo d'oro della pittura napoletana, Salvator Rosa, tra tanti giganti, occupa un posto di rilievo, anche per la varietà dei temi iconografici trattati, dai panorami alle battaglie, dalle stregonerie alle immagini di sapienti dell'antichità, argomento di cui si parla nel dipinto che illustreremo ai lettori: un Diogene (fig.1), firmato (fig.2) di proprietà del famoso collezionista Salvatore Canato di Torino.
Prima di attribuire con certezza un dipinto all'autore, a parte nel nostro caso la firma, inequivocabile, bisogna adottare un criterio molto restrittivo, per sceverare le opere genuine dalla grandissima quantità di imitazioni e copie: valutare con attenzione la qualità della pennellata e la palpabile armonia della composizione, caratteristiche presenti nell'opera in esame, che va ad incrementare il già vasto catalogo del pittore.
Diogene è un personaggio dell'antichità più volte raffigurato da Salvator Rosa, a volte da solo, come nel caso del dipinto (fig.3) di collezione privata italiana e talune volte in compagnia ,come nel celebre Diogene getta via la scodella (fig.4), conservato a Copenaghen nello Statens museum for Kunst, quando l'autore opponeva Democrito quale esempio di scetticismo nei confronti della logica e simbolo della vanità della scienza, a Diogene, filosofo cinico, massimo esempio di stoicismo e di totale abnegazione.
Dopo aver illustrato questo interessante inedito vogliamo parlare un poco dell'artista, del quale, racconteremo gli spostamenti tra Napoli, Firenze e Roma e soprattutto la sua personalità eclettica ed i suoi svariati interessi culturali.
Uno degli allievi più prestigiosi di Ribera è Salvator Rosa, il quale entra nella sua bottega grazie all’interessamento del cognato Francesco Fracanzano, passerà poi in quella di un altro ex allievo Aniello Falcone, quando questi diventa autonomo e vi rimarrà per tre anni.
Dal Ribera egli eredita il vezzo per i tipi volgari, l’amore per le espressioni tragiche e la gioia nel rappresentare le sofferenze umane, mentre dal Falcone recepisce la simpatia per la macchietta e la grande abilità nel dipingere le battaglie.
Presto lascerà Napoli, che rimarrà sempre nel suo cuore e conserverà il suo spirito partenopeo e la sua vena naturalistica, anche quando divenne una delle maggiori personalità del Seicento italiano e l’eco della sua fama percorse fino al Settecento tutta l’Europa.
Nel 1635 si trasferisce a Roma dove ha contatti con l’ambiente dei  Bamboccianti, con Claude Lorrain e Nicolas Poussin e comincia a cogliere del paesaggio il suo aspetto pittoresco. Di questo periodo sono l’Erminia e Tancredi e la Veduta di una baia conservati nella Galleria estense di Modena e l’Incredulità di San Tommaso del museo civico di Viterbo.
Costretto a fuggire da Roma per le sue pungenti recite satiriche sotto la maschera napoletana di Pascariello Formica, nel 1640 il Rosa si rifugiò a Firenze sotto la protezione del cardinale De Medici, in un ambiente culturale di scienziati e letterati nel quale si rinfocolarono le sue ambizioni di umanista e filosofo stoico. Scrive le sue Satire  e viene influenzato da artisti come Jacques Callot e Filippo Napoletano. Il paesaggio naturale, spoglio,  selvaggio e carico di mistero, diventa scenario per la rappresentazione idealizzata di episodi della vita di grandi filosofi e di grandi personaggi storici, come nel Cincinnato chiamato alla fattoria e nell’Alessandro e Diogene, entrambi nella prestigiosa collezione Spencer ad Althorp o nella Selva dei filosofi conservata a Firenze a Palazzo Pitti.
Contemporaneamente dipinge grandiose scene di battaglie che nella loro  monumentalità si risolvono anche esse in solenni rappresentazioni ideali. Uno spirito epico anima le sue tele come una fiamma, una torrida febbre percorre le sue composizioni di grandi dimensioni, dotate di un ricco paesaggio con città sullo sfondo, ruderi di templi ed edifici lontani che smorzano in parte la tragicità delle scene. Nelle mischie furibonde si riesce a cogliere il senso di un dramma cosmico come quello della guerra.
Negli ultimi anni del suo soggiorno fiorentino i suoi interessi artistici si allargano ai temi esoterici della magia e della stregoneria, infatuato dalla cultura magico filosofica di Giovan Battista Della Porta, ricordiamo Streghe ed incantesimi, eseguito nel 1646, alla National Gallery, mentre la sua pittura sempre più scura nei toni si concentra sulla rappresentazione allegorica di temi morali ed idee filosofiche come nella Fortuna conservata al Paul Getty museum di Malibu.
Animo estroso e bizzoso il Rosa fu pittore e disegnatore, incisore e poeta, letterato e polemista, teatrante ed erudito, un personaggio veramente complesso, dal temperamento vivace ed animoso, insofferente della società del suo tempo, sdegnoso del volere dei committenti, ma nello stesso tempo ansioso di essere ammirato.
Tornato a Roma nel 1649 è ambito da facoltosi committenti ed è richiesto dalle maggiori corti europee principalmente per i suoi paesaggi, spesso animati da vivaci figurine ed imitati fino alla fine del Settecento. Lo scenario è spesso quello del sud con le sue rocce ed i suoi panorami aspri e severi, resi con una certa dose di libertà espressiva e di fantasia, che non permette mai di identificare con precisione i luoghi rappresentati. Il fogliame è reso con grande accuratezza e spesso sono presenti le caratteristiche torri di avvistamento presenti in tutte le nostre coste flagellate dalle incursioni dei saraceni. Le figure dei contadini sono riprese nell’atto di animare la conversazione con una gestualità tipica delle popolazioni meridionali. La scelta dei colori cupi ed ombrosi è una costante della paesaggistica rosiana che tende a rappresentare le sue scene al tramonto, per rendere l’atmosfera più raccolta e più intimo il discorrere dei personaggi.
Oltre al paesaggio si dedicò a dipinti di soggetto filosofico e mitologico come l’Humana fragilitas del Fitzwilliam museum di Cambridge e lo Spirito di Samuele evocato davanti a Saul acquistato da Luigi XIV ed oggi al Louvre. Negli ultimi anni della sua attività ritornò al paesaggio, dipingendo una natura spoglia e solitaria come gli eremiti ed i filosofi che l’abitavano.
La maggior parte dei dipinti di Salvator Rosa è conservata dal Settecento in Inghilterra, dove  la sua fama giunse all’apice grazie ad una biografia romanzata scritta nel 1824 da una fervente ammiratrice dell’artista Lady Morgan. Oltre manica egli fu apprezzato più che in Italia e molti videro in lui un precursore di Byron e del romantico ultra pittoresco. L’influsso del pittore italiano sugli artisti inglesi e sulla pittura olandese di paesaggio fu molto grande ed il paesaggio alla Salvator Rosa fu diffuso per molti anni dopo la sua morte grazie ad una serie di epigoni ed imitatori ed acquistò il carattere distintivo di un genere.
L’artista come è noto non ebbe allievi diretti, ma si servì soltanto di aiuti che sbozzavano le sue tele. Il De Dominici indica alcuni nomi come seguaci, mentre il grande successo dell’artista giunse fino al secolo successivo con un corteo di imitatori a volte anche molto modesti.
Notevole fu anche la sua attività di incisore attraverso la quale diffondeva le sue opere e di disegnatore, la cui abilità si apprezza anche per la precisione dei suoi schemi compositivi.
Oggi la critica, pur se ha in parte ridimensionato la figura artistica di Salvator Rosa, comunque gli riserva una posizione significativa nel panorama figurativo non solo italiano ma europeo, ed un posto di rilievo tra i titani del Seicento napoletano.
Bibliografia

Achille della Ragione - Il secolo d'oro della pittura napoletana - I tomo, pag. da 6 a 10 - Napoli 1998 - 2001



tav. 02 - Salvator Rosa - Diogene - firmato -
76 x 101 particolare firma - Torino collezione Salvatore Canato

tav. 03 -Salvator Rosa - Diogene -
Italia collezione privata

tav. 04 - Salvator Rosa - Diogene getta via la scodella -
Copenaghen, Statens museum for Kunst




lunedì 6 aprile 2020

Bonazze

William McGregor Paxton Nausicaa

In attesa che mi venga l'ispirazione per scrivere il testo, voglio proporre ai miei lettori di sesso maschile questa immagine radiosa, concupiscente, potremmo pure definirla arrapante ed in attesa che finisca la pandemia, trascorriamo del tempo felice e facciamo pure pensieri lascivi, aiutano a vincere la noia.

domenica 5 aprile 2020

Due pendant inediti di Gaspare Lopez

fig.1 - Gaspare Lopez - Natura morta con fiori, frutta e paesaggio -
70 x110 - Trento collezione privata
fig.2 - Gaspare Lopez - Natura morta con fiori, frutta e paesaggio -
70 x110 - Trento collezione privata


La pittura di natura morta del Settecento napoletano non ha la stessa qualità e notorietà di quella del secolo precedente, ma molti dipinti sono piacevoli e creano un’atmosfera di serena tranquillità.
Tra gli esponenti più qualificati spicca la figura di Gaspare Lopez, del quale le uniche notizie biografiche ci vengono fornite dal De Dominici, ma vanno integrate con nuove acquisizioni documentarie relative al suo lungo soggiorno fiorentino.
Nato probabilmente a Napoli, fu allievo del Belvedere, ma conobbe anche le opere di Jean Baptiste Dubuisson, abile diffusore a Napoli dei modi aulici di Jean Baptiste Monnoyer,  che lo indussero ad una pittura di gusto ornamentale, a volte superficiale, ma segnata costantemente da un vivace cromatismo. Non fu molto apprezzato dal Causa, che lo definì un “divulgatore mediocre di un barocchetto illusionistico e cavillosamente decorativo, deviando verso un vistoso ornamentalismo il nobile timbro stilistico del Belvedere”.
Egli amò ambientare le sue composizioni en plein air, entro parchi verdeggianti di alberi e siepi, percorsi da viali e sentieri ed arricchiti da elementi decorativi: vasi, urne, busti, obelischi, posizionati con apparente casualità insieme a resti archeologici ed uccelli multicolori come il pappagallo ed il pavone.
L’uscita della mia monografia sull’argomento ha affollato la mia mail di foto di quadri che gelosi collezionisti, dopo aver tenuto celato per anni i propri tesori, desiderano un parere e la pubblicazione dei loro dipinti, affinché un vasto pubblico possa godere ammirandoli.
In particolare in questo articolo illustreremo due pendant di una collezione privata di Trento, che meritano di essere conosciuti da studiosi ed appassionati.
La prima coppia  di nature morte con fiori e frutta inserite in un paesaggio (fig.1–2) è realizzata  con una tavolozza preziosa, che esalta il variopinto cromatismo dei fiori, dai colori  vivaci, una caratteristica che possiamo riscontrare in altre famose tele del Lopez, come nel Fiori, anguria e maioliche del museo Filangieri di Napoli, caratterizzato da una vivissima accensione cromatica, che riscatta il taglio compositivo piuttosto convenzionale e presenta un vaso molto simile a quello in esame, la tipica modalità del pittore nel disporre fiori e frutta all’aria aperta tra vasi e ceramiche in sintonia col gusto rococò dominante a Napoli nei primi decenni del secolo. Da sottolineare la presenza del cocomero spezzato in due, un doveroso omaggio alle invenzioni del Brueghel napoletano, anche se i suoi riferimenti primari vanno individuati in Andrea Belvedere, suo maestro ed in Jean Baptiste Dubuisson, dal quale apprese quel moderato decorativismo  che seppe volgere in graziosi partiti ornamentali.
Nella seconda coppia di dipinti (fig.3–4), di qualità più eccelsa, vi è un vero trionfo floreale, con esemplari eseguiti con tale abilità che, avvicinandosi alla tela, si può percepirne il profumo. I due quadri, già di proprietà di una celebre collezione straniera, offrono un raro esempio dell’abilità dell’artista nella restituzione oggettiva del dato naturale, attraverso un’esecuzione attenta e puntuale dei due vasi pieni di riflessi, sottoposti ad un’illuminazione quasi drammatica, con una semplicità di impianto inconsueta.
Si tratta di due esempi di straordinaria freschezza di quel gusto pastorale e boschereccio, amante della vita in villa e di una natura addomesticata e graziosa così caratteristica del Settecento.
Le due composizioni sono da collocare nella piena maturità dell’artista quando l’artista adopera i fiori come metafora di un mondo rustico, di arcadia contadina in armonia con le coeve ricerche poetiche.
Negli ultimi anni in asta e sul mercato sono comparse numerose nature morte firmate ed a volte datate di qualità molto alta, che hanno aumentato la quotazione dell’artista ed hanno permesso di ricostruire il suo percorso artistico.
Approfittiamo dell’occasione per proporre ai lettori una biografia aggiornata sull’artista.


fig.3 - Gaspare Lopez -  Natura morta di fiori  -
38 x28  giá Pittsburg, J.J. Gillespie, oggi Trento collezione privata


fig.4 - Gaspare Lopez -  Natura morta di fiori  -
38 x28  giá Pittsburg, J.J. Gillespie, oggi Trento collezione privata

Gaspare Lopez detto Gasparo dei Fiori
(Napoli - Firenze 1740)
Nato a Napoli nell’ultimo quarto del Seicento, Gaspare Lopez è stato un pittore
naturamortista del periodo tardo-barocco. Secondo il biografo napoletano
Bernardo De Dominici iniziò i suoi studi con il pittore Andrea Belvedere, per
poi proseguirli con Jean-Baptiste Dubuisson.
In seguito alle esperienze maturate con quest’ultimo, Lopez si orientò verso una pittura illusionistica che ha come soggetto squisiti trionfi floreali all’aperto. In seguito ai successi conseguiti nella città partenopea, Lopez si trasferì a Roma e poi a Venezia.
Dopo aver viaggiato anche in Polonia, Prussia e Portogallo, rientrò in Italia stabilendosi a Firenze dove rimase fino alla sua morte, nel 1740.
Si presume che sia arrivato a Firenze nel 1728, anno in cui si immatricolò all’Accademia del Disegno. Le sue eleganti composizioni floreali ebbero subito grande successo presso i Medici che lo nominarono pittore di corte; in particolare fu apprezzato dal granduca Gian Gastone e dalla sorella, l’elettrice palatina, Anna Maria Luisa.
Alla sua ascesa come pittore di fiori contribuì la mancanza di rivali importanti nella città granducale dopo la morte di Andrea Scacciati nel 1710 e quella di Bartolomeo Bimbi nel 1729; fu molto richiesto così dai nobili fiorentini per i quali realizzò raffinate composizioni in cui aveva fuso le esperienze maturate a Napoli e nei viaggi con quelle acquisite in Toscana. Ferito in seguito a una rissa durante un viaggio a Venezia, Lopez rientrò a Firenze dove morì il 15 ottobre del 1740. Fu seppellito nella chiesa di San Michele Visdomini.

 
Bibliografia

della Ragione A. - Il secolo d'oro della pittura napoletana, vol. VI, pag. 396 - Napoli 1999

della Ragione A. – La natura morta napoletana del Settecento, pag. da 22 a 27, tav. da 59 a 81, tav. da 31 a 36 – Napoli 2010

sabato 4 aprile 2020

Un inedito di Gregorio Preti

fig.1 - Gregorio Preti - Cristo e l' adultera - 129 x 94-
Torino collezione Salvatore Canato
Una importante aggiunta al catalogo di Gregorio Preti è costituita dalla tela, raffigurante Cristo e l'adultera (fig.1) in collezione Salvatore Canato a Torino che illustreremo ai nostri lettori in questo breve articolo, operando dei raffronti con altri dipinti dell'artista, fratello maggiore del più noto Mattia.
Abbiamo chiesto il parere sul quadro ad alcuni noti napoletanisti, il primo autore di un libro sull'artista, il secondo tra gli organizzatori della recente mostra (fig.2) tenutasi nel 2019 a Roma, che ha inquadrato in maniera esaustiva l'opera dei due fratelli ed entrambi hanno avanzato l'ipotesi di un dipinto eseguito in collaborazione tra i due germani, ipotesi che mi trova consenziente, anche se ritengo che gran parte del merito spetti a Gregorio.
Appena ho cominciato a studiare la tela, sia per la mia passata professione di senologo ed in parte per la passione che ancora coltivo verso il più importante attributo femminile, sono stato attirato dalla fanciulla in primo piano, per la quale a mio parere è stata utilizzata la stessa modella presente nel San Nicola salva il fanciullo coppiere (fig.3-4), conservata a Fabriano nella chiesa di San Nicolò e nella presentazione al Tempio (fig.5-6) del museo civico di Viterbo, a lungo attribuita da Roberto Longhi al giovane Antiveduto Gramatica e di recente restituita al pennello di Gregorio dal valente studioso Giuseppe Porzio.
Dopo aver ammirato lo splendido seno della modella spostiamo lo sguardo sugli occhi puntati verso l'alto, a rimembrare la lezione del "sotto in su" del celebre Guido Reni e possiamo essere certi di essere davanti alla stessa fanciulla che ha posato per gli altri dipinti dell'artista che prima abbiamo citato. Anche altre figure che compaiono nella composizione possiamo ritrovarle in altre opere eseguite dal pittore calabrese durante il suo soggiorno nella città eterna, per cui l'autografia non lascia alcun dubbio.
Vogliamo ora accennare brevemente alla biografia di Gregorio, sottolineando che negli ultimi 30 anni la critica ha operato una profonda rivalutazione della sua attività ed il pittore è uscito da un cono d'ombra generato dal generalizzato silenzio delle fonti e dei biografi, ad eccezione del De Dominici.
Egli nacque nel 1603 circa a Taverna, in Calabria, da Cesare e da Innocenza Schipani (De Dominici, 1745, 2008, p.590 s.). La sua figura di pittore è rimasta a lungo nell’ombra di quella del più celebre fratello minore Mattia.
Giovanni Vecchio de’ Vecchi da Fabriano lo dice «allievo dello Spagnoletto e poi di Domenichino, maestro di Giacinto Brandi e di Mattia suo fratello» (Spike, 1997, p. 15). Ne consegue che, se è lui quel «Gregorio dello Preti napoletano» censito nel 1624 a Roma , qui sarebbe giunto in tempo per frequentare l'«Accademia di Domenichino» prima che quest’ultimo partisse per Napoli nel 1630.
Dal 1632, e per oltre quarant’anni, fece parte dell’Accademia di S. Luca e della Congregazione dei Virtuosi al Pantheon .  A Roma, facilitato verosimilmente dalla protezione degli Aldobrandini, titolari in Calabria del feudo di Rossano, strinse rapporti con influenti collezionisti . Fu così che nei confronti del fratello Mattia, che lo avrebbe raggiunto nel 1632 e con il quale abitò sino al 1636, svolse il ruolo di apripista più che di maestro, riducendosi, a suo dire, «a strapassar l’arte per allevare il fratello alla virtù» e dipingendo «per bottegai che allora erano ricchi e famosi e facevano lavorare» (P.J. Mariette, Abecedario… (ante 1742), IV, Parigi 1857-1858, p. 207). Ciò spiegherebbe i quadri da stanza a lui attribuiti (quattro ovati, Ariccia, palazzo Chigi; Concerto, coll. privata (Spike, 2003, p. 34); Gesù che disputa con i dottori, Londra, National Gallery; Scena in una taverna, Roma, Circolo ufficiali delle forze armate d’Italia, palazzo Barberini; quattro tele per la collezione Gabrielli, ora a Roma, palazzo Taverna), nei quali oscilla tra l’attenzione classicista e il tentativo di adeguarsi ai dettami caravaggeschi, interpretati con maggior forza dal promettente fratello. Da quest’ultimo fu aiutato negli stessi anni in opere quali il Matrimonio della Vergine (Grosio, S. Giuseppe, 1642-44), l’Apostolato (incompleto e smembrato tra l’episcopio di Nepi e la cattedrale di S. Maria Assunta a Sutri), Pilato che si lava le mani (Roma, Centro congressi Rospigliosi), la Flagellazione di Cristo (Roma, ospedale S. Giovanni Calibita), la Madonna della Purità (Taverna, S. Domenico). Fu invece autonomo nella Madonna della Provvidenza (Taverna, S. Domenico, 1632 circa) e a Roma, nelle stesse sedi in cui, in una sorta d’impresa familiare, era contemporaneamente impegnato anche Mattia: a S. Pantaleo realizzò un S. Flaviano, ora disperso e a S. Carlo ai Catinari, sulla controfacciata destra, S. Carlo che fa l’elemosina (1652). Un riflesso del sodalizio si rintraccia, inoltre, nei conti di Marcantonio Colonna, che registrano un pagamento (1651) a favore di entrambi i Preti  per un gruppo di tele, di cui otto del solo Gregorio; tra queste i Ratti di Europa, di Proserpina e di Ganimede (Roma, Galleria Pallavicini).
Partito il fratello da Roma, Gregorio restò fedele alla matrice idealizzante di Domenichino e, nella seconda metà del Seicento, eseguì un David e Golia e il Ritorno del figliol prodigo per la cattedrale di Fabriano, e un S. Nicola in estasi e il Miracolo di s. Nicola per la chiesa di S. Nicolò nella stessa città; per Taverna dipinse inoltre l’Estasi di s. Teresa d’Avila e S. Martino vescovo e quattro santi(rispettivamente nelle chiese di S. Barbara e di S. Martino). Infine, secondo Filippo Titi (1674, p. 429) fece a Roma un S. Antonio di Padova con Gesù Bambino nella chiesa di S. Rocco a Ripetta, rinnovata nel 1663.
Sposò nel 1668 Santa Duchetti, vedova aquilana, avendo come testimone il pittore Giacinto Brandi.
Morì a Roma il 25 gennaio 1672 (Spike, 2003, pp. 102 s.)
Pur lontano dai risultati raggiunti dal fratello, riuscì un «pittore di buon nome» (De Dominici, 1745, 2008, p. 590), guadagnandosi uno spazio tra i sostenitori della poetica classicista.
Vogliamo concludere questo nostro contributo correggendo un errore su Mattia Preti presente su tutti i libri e dovuto a quanto dichiara il De Dominici: il "Cavaliere calabrese" lascerà Roma per Napoli il 22 marzo 1653 e non nel 1656 durante l'infuriare della peste. Per chi volesse approfondire l'argomento può consultare in rete il mio libro "Errori e bugie sulla storia di Napoli" a pag. 9.   

Achille della Ragione
fig.2 - Copertina catalogo mostra Roma
fig.3 - Gregorio-Preti- San Nicola salva il fanciullo coppiere -
Fabriano - chiesa San Nicolò




fig.4 - Gregorio-Preti- San Nicola salva il fanciullo coppiere -(particolare)
Fabriano - chiesa San Nicolò


fig.5 - Gregorio Preti - Presentazione al Tempio -
Viterbo museo civico
fig.6 - Gregorio Preti - Presentazine al Tempio (particolare) -
Viterbo museo civico



venerdì 3 aprile 2020

Un Martirio di San Lorenzo di Luca Giordano

fig.1 - Luca Giordano - Martirio di San Lorenzo -
120 x 168 - Torino collezione Salvatore Canato


Il dipinto che presentiamo in questo articolo raffigura un Martirio di San Lorenzo (fig.1) e può essere assegnato al brillante pennello di Luca Giordano, il quale, nella sua poco meno che sterminata produzione, oltre che centinaia di pale d'altare, che adornano le chiese di tutta Italia e ad affreschi luminosi, che caratterizzano gli anni del suo soggiorno in Spagna, si cimentò più di una volta nella pittura di martirio, un genere molto richiesto dalla committenza, soprattutto a Napoli a partire dalla metà del XVII secolo.
Per la dimensione del quadro e per la cura dell’esecuzione il presente dipinto mostra un impegno formale molto più attento di quello riscontrabile nelle altre opere eseguite su cavalletto e la sua destinazione sarà stata certamente quella di adornare la casa di un nobile o di un ricco mercante.
I caratteri stilistici sono tipici della pittura napoletana della seconda metà del Seicento e si legano alla tipica produzione di Luca Giordano in quel periodo. Nel caso in specie la composizione della scena è raffrontabile in controparte, e con varianti, a quella di un poco noto dipinto di ugual soggetto a lui attribuito, già a Milano, collezione G. Riva (cf. Fototeca Zeri, scheda 52650).
Il momento stilistico riscontrabile nel dipinto qui in discussione come anche  del dipinto già in collezione Riva, è quello delle opere di tendenza neo veneta del settimo decennio del Seicento, contrassegnate da una tavolozza spesso ispirata ai toni squillanti di Paolo Veronese. L’esecuzione accurata  enfatizza i caratteri di una accurata gamma cromatica, mentre i personaggi che lo attorniano sembrano essere partecipi del dolore e della solennità dell'evento.
Il martire assume una posa così naturale che, grazie all’uso sapiente dei chiaroscuri ed alla varietà cromatica, sembra quasi distaccarsi dalla tela. Al suo fianco vi sono due personaggi, ambedue resi con una luce così viva da sembrare illuminati dal fuoco. La disposizione in diagonale dei protagonisti accresce l’effetto drammatico della scena ed amplifica l’emozione dell’osservatore.

Bibliografia
Achille della Ragione - Il secolo d'oro della pittura napoletana - pag. da 304 a 320 - Napoli 1998 - 2001
Achille della Ragione - Repertorio fotografico a colori della pittura del Seicento napoletano - da pag. 53 a pag. 59 - Napoli 2011


giovedì 2 aprile 2020

Abolire il divieto di vendita di cibo da asporto




In Campania un'ordinanza poco meno che demenziale, perché il rischio di incrementare la pandemia è inesistente, ha vietato la vendita di cibo da asporto, qualunque esso sia, mettendo in ginocchio un settore che dava lavoro a decine di migliaia di addetti e creando disagi intollerabili ad infinite persone che non sanno o non vogliono cucinare. Ci vuole poco a rimediare: abolire l'ordinanza

Achille della Ragione

Un capolavoro inedito di Francesco Fracanzano

fig.1 - Francesco Fracanzano - Testa di santo - 65 x50 -
Torino collezione privata





La Testa di santo (fig.1) racchiusa in una spettacolare cornice di cui ci occuperemo in questo nostro articolo, appartenente ad una collezione torinese, fa parte della più cospicua produzione di Francesco Fracanzano: la rappresentazione di mezze figure di santi e filosofi, investigati con crudo realismo, una moda nata nella bottega del Ribera a Napoli ed affermatasi poi anche in provincia grazie ai suoi discepoli, tra i quali, con una rilettura originale, si annovera anche il sommo Luca Giordano, che più volte ritornerà sul tema nel corso della sua lunga carriera, dilatando oltre misura la sua fase  riberesca , identificata erroneamente dalla critica con un periodo unicamente giovanile.
Tra i più convinti seguaci del valenzano si distingue Francesco Fracanzano, il quale nel 1622, dalla natia Monopoli, si trasferisce con la famiglia nella capitale, entrando giovanissimo nell’ambiente artistico partenopeo, grazie anche al matrimonio, celebrato nel 1632, con la sorella di Salvator Rosa.
Lavorando con il Ribera ne recepì la stessa predilezione per la corposità della materia pittorica e ripropose spesso i soggetti più richiesti dalla committenza: studi di teste e mezze figure di filosofi e profeti su fondo scuro.
Nel quadro trasuda  una massa pittorica levigata, più morbidamente plasmata e vibrante di vita. Qualche indulgenza ad un gusto manieristico più abboccato, un certo compiacimento formalistico, un senso morale più allentato e molte concessioni di indole pietistica e devozionale che potrebbero suggerire il nome di Cesare come collaboratore, qui impressionato dalla prepotente personalità del fratello.
Si tratta di poderosi personaggi vestiti di rudi panni, con attributi iconografici irrilevanti che solo con l’ausilio della fantasia ne permettono a volte l’identificazione.
Il De Dominici accenna all’attività del Fracanzano nella bottega del Ribera: ”il maestro molto lo adoperava nelle molte richieste di sue pitture... mezze figure di santi e di filosofi”.
Nessuno di questi quadri, attribuibili con un buon margine di certezza alla sua mano, è firmato o datato, probabilmente perché spesso dovevano passare per autografi del maestro e ad avvalorare questa ipotesi ci soccorrono di nuovo le parole del biografo ”il Maestro molto lo adoperava nelle molte richieste di sue pitture e massimamente per quelle che dovevano essere mandate altrove, ed in paesi stranieri... egli è così simile all’opera del Ribera che bisogna sia molto pratico di lor maniera chi vuol conoscerlo... nell’esprimere la languidezza delle membra, nella decrepità dei suo vecchi.

Achille della Ragione