martedì 26 febbraio 2019

Una replica autografa del Giacobbe del Ribera


 fig. 1 - Jusepe De Ribera -  Giacobbe e il gregge - 174x 219 - firmato e datato 1632 -
El Escorial (Madrid) monastero di San Lorenzo

Prima di esaminare l’inedito, che presentiamo in questo contributo, appartenente ad una importante collezione italiana, riteniamo parlare, anche se brevemente dell’autore, uno dei più grandi artisti del Seicento europeo.
Nel 1616 giunge a Napoli Jusepe Ribera che rappresenterà una delle figure più importanti del Seicento europeo; valenzano di nascita, ma napoletano a tutti gli effetti per scelta culturale, interessi familiari, affinità di sentimenti. A Napoli avrà residenza, affetti, lavoro, protezione e per alcuni anni sarà protagonista assoluto e punto di riferimento indiscusso.
La sua bottega che forgerà alcuni dei maggiori pittori del secolo dal Maestro degli Annunci ai due Fracanzano, dal Falcone a Salvator Rosa, allo stesso Giordano, sarà un punto di riferimento e di scambio culturale anche verso la Spagna, ove giungerà gran parte della sua produzione, mentre dal Murillo allo Zurbaran, fino allo stesso Velazquez, ospite del Ribera per alcuni mesi nel 1630, perverrà a Napoli l’eco della migliore pittura spagnola, il cui influsso possiamo cogliere agevolmente da un’attenta lettura di molte opere del Finoglia, del Falcone, del Vaccaro, del Guarino e di tanti altri ancora.
Le sue opere ebbero una notevole diffusione anche per la sua abilità di incisore, grazie alla quale egli riproduceva e moltiplicava le sue opere più significative.  
Giunto nel maggio del 1616 a Napoli egli sposerà la figlia del pittore Giovan Bernardo Azzolino ed entrerà nelle grazie del viceré, il duca di Osuna, che diventerà il suo protettore, come lo saranno in seguito tutti i potenti di Spagna, presso i quali il suo prestigio sarà illimitato. Egli del luminismo diede una sua personale interpretazione: il realismo caravaggesco fu infatti profondamente drammatico e sintetico, quello di Ribera fu analitico, caricaturale fino al grottesco.
Il Ribera si abbandona ad un verismo esasperato al di là di ogni limite convenzionale col suo pennello intriso di una densa materia cromatica, con un vigore di impasto che ricorda l’accesa policromia delle più crude immagini sacre della pittura spagnola coeva, segno indefettibile della sua mai tradita hispanidad, ignara dei risultati della pittura rinascimentale italiana. Ed ecco rappresentato un infinito campionario di umanità disperata e dolente, ripresa dalla realtà dei vicoli bui della Napoli vicereale con un’aspra e compiaciuta ostentazione del dato naturale.
La sua pittura è carica di materia da poter essere paragonata ad un bassorilievo cromatico, in grado di trasformare il potente chiaroscuro caravaggesco in un’esperienza percettiva tattile. I bagliori della sua tavolozza fanno risaltare la ruvida pelle dei suoi martiri ed in egual misura lo splendore cangiante delle vesti, che a partire dagli anni Trenta segnano il recupero della lezione coloristica della pittura veneta.
Con una tavolozza accesa vengono rappresentati con enfasi appassionata e senza alcuna pietà santi ed eremiti penitenti, sadicamente indagati nella smagrita decadenza dei corpi consunti, dalla epidermide incartapecorita e grinzosa, dagli occhi lucidi e brillanti, martirii efferati e spettacolari, giganti contorti in esasperazioni anatomiche, repellenti esempi di curiosità naturali: donne barbute e bambini storpi dal sorriso ebete; tipizzazioni mitologiche spinte fino all’osceno, come la ripugnante figura del Sileno nella dilagante rotondità dell’enorme ventre pendulo; il tutto con un tono superbo e crudele e con accenti di grottesca ironia e di cupa drammaticità.
Lentamente la brutalità delle sue prime composizioni che fece esclamare al Byron che il Ribera”imbeveva il suo pennello con il sangue di tutti i santi” cedette ad una maggiore ricerca di introspezione psicologica dei personaggi e ad un lento allontanamento dal tenebrismo per approdare, sotto l’influsso della grande pittura veneziana e dal contatto con la pittura fiamminga di radice rubensiana e vandychiana, a nuove soluzioni di chiarezza pittorica e di rinnovata cordialità espressiva.   
Tra i capolavori del Ribera occupa un posto di rilievo Giacobbe ed il gregge (fig.1), firmato e datato 1632 e conservato in Spagna nell’Escorial vicino Madrid. 
Della tela si conoscono varie copie di bottega, come quella transitata ad una vendita Christie’s nel 1972 o quella della pinacoteca di Cosenza, ma nel caso del dipinto in esame (fig.2), possiamo, per l’altissima qualità della composizione, parlare con ragionevole certezza di replica autografa. 
L’inedito che presentiamo ai lettori appartiene alla collezione Marasini di Alessandria, della quale abbiamo già illustrato in passato  interessanti dipinti di Marullo, Novelli e Cavallino e per chi volesse ammirarli basta digitare il link
http://achillecontedilavian.blogspot.com/search?q=dipinti+inediti+di+attribuzione+problematica

Il dipinto rappresenta Giacobbe in mezzo al suo gregge accanto ad una sorgente d’acqua e costituisce un momento cruciale nel percorso stilistico dell’artista, infatti si nota un cambiamento nell’uso della luce, che risente dell’influsso del Grechetto, mentre la materia pittorica, imbevuta di luce, è impreziosita da riflessi argentati eseguiti con particolare maestria. Ne replicala che presentiamo alcuni dettagli (fig.3–4) sono di una qualità talmente alta da riconoscere la mano del maestro, che avrà lasciato alla sua bottega l’esecuzione di parti secondarie del dipinto.

Achille della Ragione


fig. 2 -Ribera - Giacobbe e il gregge (replica autografa) -
Alessandria collezione Marasini
fig. 3 -Ribera - Giacobbe e il gregge (replica autografa) - particolare -
Alessandria collezione Marasini
fig. 4 -Ribera - Giacobbe e il gregge (replica autografa) - particolare -
Alessandria collezione Marasini

domenica 24 febbraio 2019

Una sensuale Lucrezia di Andrea Vaccaro

tav. 1 - Lucrezia - 65 x45 -  olio su rame -
Liguria collezione privata

Da un collezionista ligure mi è stato richiesto di dare una paternità ad un dipinto su rame (fig.1) chiaramente derivato dalla tela di Guido Reni raffigurante il Suicidio di Lucrezia (fig.2) ubicata presso il RISD Museum a Rhode Island.    
Il proprietario del quadro si era rivolto per un parere a due studiosi, il professor Benati, che aveva dichiarato:"...il dipinto di cui m'invia le foto è una derivazione, forse di epoca già settecentesca, da un dipinto di Guido Reni raffigurante Lucrezia. Stante il carattere di copia, è impossibile stabilirne una precisa paternità." ed il celebre Vittorio Sgarbi, la cui segretaria prontamente rispose: "Il professore ha analizzato il materiale da lei inviato e ritiene l’opera importante, con molta probabilità di Francesco Gessi, allievo di Guido Reni ed è disponibile a redigere l’expertise."        
Entrambi non avevano riconosciuto la paternità lampante di Andrea Vaccaro e la straordinaria somiglianza con un dipinto, sito in Uruguay e da me pubblicato tempo fa, identico nella luminosità degli occhi e l'acconciatura dei capelli. 
tav. 2 - Guido Reni - Suicidio di Lucrezia -
Rhode Island, RISD Museum

Sul retro del dipinto, che ricordiamo è un rame, compare un sigillo in ceralacca (fig.3) che non appartiene a famiglia nobile, seguendo il parere di Luca Becchetti esperto sfragista pontificio di Roma il quale afferma: "La prassi di apporre sigilli in ceralacca sul retro dei dipinti è circostanza abbastanza frequente e - date le motivazioni delle prerogative sfragistiche – può rappresentare significati diversi; principalmente segno di appartenenza o pertinenza, ma anche certifica la bontà di provenienza di una tela, avvenuti passaggi doganali dei quadri e molto altro. Tutti questi interrogativi potrebbero essere soddisfatti solo in seguito alla possibilità di capire a chi o a cosa riconduce il leone (o il grifone?), accompagnato dal Capo d'Angiò, pezza araldica che raffigura gigli separati da un lambello, che l’impronta mostra, esercizio che in realtà risulta assai difficile, poichè tale titologia è abbastanza frequente in araldica. Risulta dunque molto complicato, dati gli elementi assai generici che mostra il blasone, effettuare attribuzioni certe". 


tav. 3 - Sigillo sul retro del dipinto


tav. 4 - Dolcezza del volto

Soffermiamoci ora su alcuni dettagli del quadro in esame per sottolineare la dolcezza del volto (fig.4), l’elegante orecchino (fig.5) ed il caratteristico girar degli occhi al cielo (fig.6), il famoso “sottoinsù”, oltre alle labbra carnose e l’epidermide alabastrina.   
Il dipinto in esame fa parte di quella produzione per una clientela laica sia napoletana sia spagnola che il Vaccaro, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, creava con scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente;  diviene così il pittore della "quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo  indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione" (De Vito).
Tra i suoi dipinti "laici", alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, che gli servirono a fornire mezze figure dai volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni. Queste eterne bellezze mediterranee dal volto sensuale ed accattivante fanno mostra del loro pensiero  con indifferenza e con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con gli occhi che sembrano proiettato fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina. La pittura in queste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave ed incanta l’osservatore.

Achille della Ragione



tav. 5 - Elegante orecchino
tav. 6 - Caratteristico girar degli occhi al cielo

venerdì 22 febbraio 2019

Visita sabato 2 Marzo: chiesa S. Teresa a Chiaia


  

Carissimi amici ed amici degli amici esultate, la prossima visita guidata gratuita, la 25° del nuovo anno accademico, sarà a Napoli sabato 2 marzo ed interesserà la chiesa di S. Teresa a Chiaia e poscia la mostra (gratuita) sulla pittura e la scultura napoletana del Novecento che si tiene al Pan, con appuntamento all’ingresso della chiesa alle ore 10:30.
Nelle more vi invio un articolo sulla mostra e vi segnalo che in futuro potrete sapere dove si svolgono le visite consultando il mio blog digitando il link
http://achillecontedilavian.blogspot.com/ 
Vi preannuncio che i successivi sabato 9 marzo visiteremo l’Anfiteatro Flavio e Villa Avellino, mentre sabato 16 marzo la mostra su Marc Chagall.
Spargete la lieta notizia ai 4 venti

Achille

  

I CAPOLAVORI DEL NOVECENTO NAPOLETANO IN MOSTRA AL PALAZZO DELLE ARTI DI NAPOLI


AL PAN successo della  Mostra Novecento a Napoli. Capolavori di pittura e scultura promossa dalla Galleria Mediterranea (tra le più antiche gallerie italiane) e da La Fenice con il Patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Napoli.
La Mostra, curata da Saverio Ammendola, Paolo La Motta e Isabella Valente si pone  l’obiettivo di contribuire a rivitalizzare e valorizzare il dibattito critico che, a partire dalla seconda metà degli anni 80, si è sviluppato intorno alla pittura e scultura napoletana del XIX secolo e che trova il suo esordio istituzionale con la Mostra “Fuori dall’ombra” in Castel Sant’Elmo (1991).
La Mostra ha così colmato una grave lacuna nello studio della scultura napoletana che con il tempo sarebbe potuta divenire ingiustamente (pressoché) irrecuperabile.
È, pertanto, evidente l’interesse e l’attesa che si respirano intorno alla Mostra “Novecento a Napoli. Capolavori di pittura e scultura che si inaugura, non a caso, il giorno dopo San Valentino perché destinata a tutti gli amanti dell’arte, di quella napoletana in particolare, e destinata a sedurre anche quanti si avvicineranno per la prima volta alla pittura e scultura napoletana del 900.
Particolare e meticolosa attenzione è stata riservata dai curatori al rastrellamento delle opere, quelle che meglio potessero costituire testimonianza del respiro nazionale (quando non mittleuropeo) di cui l’arte napoletana è stata (non sempre riconosciuta) portatrice.
Tra gli autori proposti, che non certo esauriscono l’articolato e significativo panorama degli artisti napoletani del tempo, spiccano, tra gli altri, Crisconio, Viti, Villani, Bocchetti, Brancaccio, Notte, Ciardo, Cifariello, , Chiancone, Striccoli, Capaldo, Fabbricatore, Perez, Guido Casciaro, Bresciani, Tamburrini, Girosi, Verdecchia, Cajati, Lippi, Vittorio, Tizzano, Uccella e Waschimps.
   






Degli autori vengono proposte opere (oltre 50 dipinti e oltre 30 sculture), assai spesso non note al grande pubblico e, talora, anche ai collezionisti più appassionati e che tuttavia sono state esposte in importanti mostre nazionali e internazionali. Tra le altre sono esposte “Il bagno” di Giovanni Brancaccio (Biennale di Venezia; Mostra Carnegie Institute, Pittsburgh), “Libro bianco” (Carnegie Institute, Pittsburgh), “ Il Beone” (esposto anche in “Anni difficili”) nonché “Il ritratto del pittore De Simone”), di Eugenio Viti, “Novembre in città” di Guido Casciaro (I Mostra Intersindacale Fascista 1933), “Dopo la pioggia” di Rubens Capaldo (VII Quadriennale di Roma),“Colloqui” di Carlo Striccoli, “Al balcone” di Carlo Verdecchia (Biennale di Venezia 1936), “Nello studio” (ovvero “Solitudini”) di Alberto Chiancone (Biennale Venezia 1936), “Le amiche al caffè” di Nicola Fabbricatore (Biennale Venezia 1946), “Le donne sarde” di Gennaro Villani (da ultimo esposta in “Gli anni difficili”), “l’Uomo e l’uccello” di Raffaele Lippi (Mostra al Castel dell’Ovo del 2004, curata da Vitaliano Corbi).
Un evento da non perdere per i napoletani (appassionati e non) e che consentirà a tutti noi una feconda passeggiata nella nostra storia culturale (prima che artistica) di cui i più conoscono ancora troppo poco o, peggio ancora, talora troppo male.


venerdì 15 febbraio 2019

Mostra di bozzetti da Baroq



  

Dopo il successo della mostra su Domenico Gargiulo, Baroq, il mitico bistrot di piazza Vittoria, prosegue con una mostra di bozzetti del Seicento e Settecento napoletano da ammirare tra un bicchiere di vino ed una vivanda prelibata.
Per gli appassionati di arte, anche astemi, proponiamo le immagini dei capolavori che sono in mostra con le relative schede.


IN NUCE

Bozzetti del barocco napoletano

Massimo Stanzione, Giovanni Lanfranco, Luca Giordano, Francesco Solimena e Giacinto Diano


Una mostra intima e preziosa, tra bellezza e memoria. Nove importanti bozzetti, dipinti da alcuni tra i più celebri artisti vissuti nel XVII e XVIII secolo. Tracciati in velocità o pensati e ripensati per essere definiti con esattezza, da alcuni sono considerati la rappresentazione più fedele dell’ispirazione.
C’è tanta arte autentica nei “modelletti” degli artisti, frammenti di un tempo per fortuna fermato, contro l’ingiuria dei terremoti, delle guerre e dell’incuria.
Ciascuno dei nove studi presentati è riferito, come si chiarisce in ogni testo di accompagnamento, ad una relativa opera pubblica, ancora visibile nei luoghi per cui era stata realizzata oppure sventuratamente scomparsa. In quest’ultimo caso, il bozzetto diventa uno straordinario documento storico-artistico.


Baroq
piazza vittoria, 6 / 80121 napoli
081 18671407 • www.baroq.it


Massimo Stanzione (Napoli, circa 1585 -1656),
San Paolo morso da una vipera olio su tela, cm 49×75

Questo prezioso dipinto racconta un episodio tratto dagli Atti degli apostoli quando San Paolo, raggiunta la spiaggia di Malta dopo un drammatico naufragio durante il viaggio per Roma, è morso da una vipera spaventata dal falò acceso dagli abitanti del luogo per riscaldare gli sventurati; uscendone illeso appare a tutti come un dio. L’opera, con una vecchia attribuzione a Bernar- do Cavallino giustificata dalla sua cromia preziose dall’elevata qualità, è il modelletto per uno dei riquadri affrescati sul soffitto della basilica di San Paolo Maggiore a Napoli.
Il vasto ciclo, realizzato da Massimo Stanzione tra la fine del 1642 e il 1644, è dedicato ai santi Pietro e Paolo, che sostituivano gli eroici gemelli Castore e Polluce, cui era dedicato l’antico tempio pagano romano sui cui resti era sorta la chiesa.
I documenti attestano che il lavoro piacque così tanto ai committenti da riconoscere all’artista, il frescante napoletano più richiesto del suo tempo, un premio aggiuntivo rispetto al compenso pattuito. Una foto Alinari degli scorsi anni Venti, che riprende purtroppo solo i due terzi del soffitto, ci consente di avere un’idea dello stato dell’epoca oggi irrimediabilmente compromesso in seguito a cattivi restauri eseguiti tra Ottocento e Novecento e ai danni causati dalla guerra e dall’incuria.
La scena in questione ripresa nell’affresco risulta quasi completamente perduta, rendendo questo bozzetto un documento visivo indispensabile per la memoria del lavoro dell’artista.

     
Giovanni Lanfranco (Parma 1582 - Roma 1647)
Paradiso olio su tela, cm 60x75

Quest’opera, dipinta velocemente e ricchissima di ripensamenti, costituisce un importante documento storico-artistico relativo alla fase napoletana del pittore emiliano Giovanni Lanfranco.
Un suo disegno conservato al Museo di Capodimonte, raffigurante una testa di Cristo molto somigliante alla testa di Cristo di questo bozzetto, è stato recentemente ricondotto alla decorazione della cupola del Gesù Nuovo. Pertanto, è largamente verosimile che siamo di fronte ad uno studio preparatorio per quell’affresco.
Lanfranco vi lavorò dal 1633 al 1636 ma purtroppo la cupola andò irrimediabilmente perduta in seguito al terremoto del 5 giugno 1688. Il pittore, del resto, era uno specialista del genere avendo realizzato in città anche la cupola della celebre cappella del Tesoro di San Gennaro.

Luca Giordano (Napoli, 1634 -1704)
I Santi Benedetto e Pietro su una barca intercettano i Saraceni
olio su tela, cm 49,5 × 39,5

Il dipinto rappresenta il prodigioso intervento dei Santi Benedetto e Pietro durante il temporale che scongiurò l’attracco delle navi saracene dirette a Montecassino, reduci dalla distruzione di Fondi.
Il pittore, impegnato per la decorazione della chiesa dell’Abbazia di Montecassino nel 1677 e poi nuovamente nel 1691, realizzò questo bozzetto per una delle tele laterali della terza cappella a sinistra, intitolata a Sant’Apollinare abate.
Esso rappresenta un raro documento delle numerose opere eseguite dall’artista per l’abbazia benedettina di Montecassino, perdute nel terribile bombardamento aereo allato del 15 febbraio 1944, il cui nucleo più cospicuo raffigurava miracoli della vita di San Benedetto. Nel Museo della ricostruita Abbazia è conservata una modesta copia della perduta tela.
     
    
Luca Giordano (Napoli, 1634 -1704)
Sant’Antonio di Padova predica ai pesci
olio su tela, cm 80 × 54
   
Il dipinto raffigura uno dei più noti prodigi di Sant’Antonio di Padova, quando per rispondere all’incredula indifferenza dei riminesi, il santo rivolge la sua predicazione ai pesci che accorrono ad ascoltarlo.
A incorniciare la scena con fluide e sapienti pennellate è presente in alto una cortina retta da un angelo, mentre sulla parte bassa è rappresentata la personificazione della Carità, riconoscibile dalla veste rossa e dal cuore ardente stretto nelle mani.
L’opera è il modelletto preparatorio per uno degli otto riquadri affrescati lungo il registro superiore della parete ellittica della chiesa di Sant’Antonio dei Tedeschi (già dei Portoghesi) a Madrid, eseguiti su commissione reale da Luca Giordano tra la fine del 1698 ed il 1701, durante il fecondo decennio spagnolo in seguito alle insistenti richieste del re Carlo II di Spagna.
La sveltezza pittorica e le evidenti variazioni del dipinto rispetto all’opera finale, si notino le differenti posture dei volti del Santo e della Carità, ci restituiscono tutto il fascino della prima idea, documentando un elemento di una più ampia serie, di cui un altro esemplare è conservato presso la National Gallery di Londra.
     
Francesco Solimena
(Canale di Serino 1657 - Barra di Napoli 1747)
Due studi di angeli
coppia di oli su tela, cm 37x24,5
         
Francesco Solimena
(Canale di Serino 1657 - Barra di Napoli 1747)
Due studi di angeli
coppia di oli su tela, cm 37x24,5

Questi due bozzetti di angeli furono certamente eseguiti da Francesco Solimena durante la fase di studio per l’affresco della controfacciata del Gesù Nuovo con La cacciata di Eliodoro dal tempio, datati 1725.
Il tema, per il messaggio esplicito, rispondeva alla volontà dei Gesuiti come monito per i fedeli che entravano in chiesa.
Eliodoro, ministro del re di Siria Seleuco IV, tentò di profanare il tempio di Gerusalemme impadronendosi del tesoro. Ma improvvisamente, dopo le preghiere del sacerdote Onia, apparvero un cavaliere e due angeli che riuscirono a cacciare Eliodoro.
Solimena raccoglie l’attenzione nel centro della scena, mentre il profanatore è rovinosamente a terra allontanato con la forza. In particolare, il bozzetto raffigurante l’angelo in piedi, per la precisa postura del braccio e delle gambe, mette a fuoco inequivocabilmente la figura del maestoso angelo ammantato di bianco che sta colpendo al centro della scena Eliodoro con una verga. Il secondo studio, invece, raffigurante un angelo accomodato su una nuvola mentre stringe tra le mani un tempietto, è una prima idea per l’angelo in cielo, seduto in controparte su una nuvola.

Francesco Solimena
(Canale di Serino 1657 - Barra di Napoli 1747)
Dialogo tra i Santi Andrea e Agostino
olio su tela, cm 76x63

Il dipinto è il modelletto per uno degli affreschi realizzati da Francesco Solimena, tra il 1682 e il 1685, su una delle pareti laterali del coro della chiesa di Santa Maria Donnaregina Nuova. Negli anni Trenta del ‘900, però, quando si decise di recuperare la vecchia abside della precedente chiesa trecentesca, una parte del ciclo fu strappata e trasferita in alcuni ambienti dell’annesso omonimo convento.
La piccola tela rappresenta un prezioso reperto storico-artistico a causa del cattivo stato di conservazione degli affreschi staccati e si fa testimonianza della prima idea del pittore. Interessante è notare a riguardo le differenze apportate sul volto di Sant’Agostino, che inizialmente pensato molto giovane si trasforma poi nell’affresco, forse per una richiesta esplicita delle stesse mona- che francescane committenti dell’opera, in un più anziano uomo barbuto.
Sul piano stilistico, il bozzetto, insieme ad altre tele note e poste in relazione con lo stesso ciclo pittorico, testimonia in questa fase iniziale di una lunga e brillante carriera il significativo volgersi del giovane pittore in direzione barocca, sugli esempi prodotti in città dai più anziani Giovanni Lanfranco e Luca Giordano.
 
Giacinto Diano (Pozzuoli 1731 - Napoli 1803)
L’immacolata al cospetto della Trinità
olio su tela, cm 62,5x43,5


Giacinto Diano, detto ‘o puzzulaniell, abitò nella sua città fino al 1752, quando si trasferì a Napoli per cominciare il suo apprendistato presso la bottega del celebre Francesco De Mura (Napoli 1696-1782).
Questa piccola tela centinata rappresenta il modelletto, con qualche piccola variante, per una pala d’altare conservata nella chiesa di Sant’Antonio Abate a Procida.
L’evidente legame con i modelli del maestro, che si evince chiaramente da un disegno di De Mura con lo stesso soggetto conservato presso lo Staatliche Museen di Berlino, insieme ad una preziosità cromatica conquistata in seguito alla conoscenza del pittore Corrado Giaquinto, suggerisce una datazione intorno al settimo decennio del secolo XVIII.

 
Giacinto Diano (Pozzuoli 1731 - Napoli 1803)
Deposizione dalla croce
olio su tela, cm 90x54

Questa tela è il modelletto per la pala dell’altare maggiore realizzata da Giacinto Diano nel 1775 per la chiesa della Pietà dei Turchini. Il peculiare nome ricorda il colore dell’abito indossato dagli orfani accolti nell’istituto annesso, dove venivano iniziati alla musica dando vita al famoso Conservatorio della Pietà dei Turchini.
La Deposizione dalla croce è l’episodio finale della passione di Gesù culminata con la sua morte, quando dopo essere stato tirato giù dalla croce è sul punto di essere sepolto.
L’artista ormai maturo, resosi stilisticamente indipendente dal maestro De Mura, si presenta con le sue caratteristiche cromie lievi dai colori quasi pastello, pur mostrando una corposità materica propria della pittura ad olio.




mercoledì 6 febbraio 2019

Presentazione libro su Pozzuoli




Achille Della Ragione, Giovedì 7 febbraio, dalle ore 17:30 alle ore 19:30, presenterà il suo nuovo libro su Pozzuoli, presso la suggestiva Aula Magna della Chiesa di S. Maria  della Libera in via Belvedere, al Vomero.
Il nuovo gioiello siglato Della Ragione è intitolato: "Da Puteoli a Pozzuoli, una storia gloriosa". L'evento è ad ingresso libero.

Di seguito riportato l’invito del Dottore:


“Carissimi amici ed amici degli amici, esultate, l’appuntamento più importante del 2019 sarà giovedì 7 febbraio, quando, alle 17:30, nell’aula magna della chiesa di S. Maria della Libera in via Belvedere al Vomero, ci sarà, con l’ausilio di decine di foto, la presentazione del mio ultimo libro: ”Da Puteoli a Pozzuoli una storia gloriosa” (Edizioni Clean). Sarà possibile accaparrarsi una copia del libro con soli 15 euro. Spargete la lieta notizia ai 4 venti…”

venerdì 1 febbraio 2019

Domenico Gargiulo sponsor della convivialità

Micco Spadaro, cronista e narratore nella Napoli del Seicento
7 dicembre 2018 - 7 febbraio 2019
piazza vittoria, 6 Napoli 081 18671407
baroq.it

Questo mio articolo potrebbe anche essere intitolato: Sacro e profano a cena da Baroq, dal nome del nuovo locale aperto a Napoli in piazza Vittoria, nel quale, oltre a bere un buon bicchiere di vino o addentare un gustoso panino, si può, anzi si deve, ammirare una serie di dipinti esposti alle pareti ed illustrati da schede esaustive.
Ogni mese cambieranno i capolavori esposti.
Si comincia con 4 dipinti inediti di Domenico Gargiulo, alias Micco Spadaro e si proseguirà con artisti di pari livello.

Nel 1839 Louis Daguerre presenta il dagherrotipo, una specie di specchio dotato di memoria. È l’inizio della fotografia, che si svilupperà e perfezionerà lungo tutto il secolo.
Ma prima di allora come si faceva a fissare le immagini e a raccontare i fatti che accadevano?
Naturalmente era compito dei pittori, in particolare di alcuni, abilissimi a fermare il tempo con il pennello per consegnare alla storia frammenti di vita.
Il pittore Domenico Gargiulo amatissimo dalle grandi famiglie dell’aristocrazia napoletana ed anche dalla corte vicereale, può essere considerato un grande fotoreporter ante litteram.
Nato a Napoli (1609/1610-1675 [?]), venne soprannominato Micco Spadaro perché figlio di un fabbricante di spade.
Le fonti raccontano che fin da ragazzo manifestasse questa sua predisposizione alla pittura e al disegno, e ben presto, grazie al suo talento e non senza screzi con il padre, riuscì a realizzare questo suo proposito.
Cominciò la sua carriera nella bottega del famoso Aniello Falcone, detto l’Oracolo delle battaglie per la sua particolare inclinazione nel dipingerle, dove fu in contatto con numerosi altri significativi artisti. Particolarmente importante fu il sodalizio stretto con il bergamasco Viviano Codazzi, uno specialista della scenografia con cui inventerà una formula professionale a quattro mani di ampio e riconosciuto successo (di cui abbiamo qui un esempio visibile).
Micco non abbandonò mai la sua città, neppure durante lo scoppio della peste del 1656, che falcidiò oltre i due quinti della popolazione napoletana tra cui molti suoi colleghi e dalla quale riuscì a salvarsi, lavorando al riparo presso la Certosa di San Martino.
Proprio a lui, nel 1657, scongiurato il pericolo del morbo, i certosini commissionarono un grande ex voto in omaggio alla Vergine e ai Santi protettori di Napoli.
Con occhi curiosi ed uno stile da narratore paziente ed attento, Micco Spadaro praticò tutti i generi. Raccontò la Bibbia e i miti con quel suo facile linguaggio rigorosamente descrittivo, tra immagini e argo- menti appropriati per le sue favole, in un connubio artisticoletterario denso di contenuti. Fotografò fatti storici e di cronaca documentandoli, descrisse palazzi e luoghi del passato poi sventuratamente scomparsi, delineò ritratti, costumi sociali, squarci urbani ed appunti di vita cristallizzandoli e donandoli alla storia dell’umanità.

opere in mostra

Domenico Gargiulo e Viviano Codazzi
Preparativi per una festa nella Villa di Poggioreale
olio su tela, cm 97 x 137

La Villa di Poggioreale, situata fuori le mura della città, fu uno degli edifici più importanti del Rinascimento napoletano. Intorno al 1487, il Duca di Calabria e futuro re Alfonso II d’Aragona decise di realizzare una residenza reale extra moenia.
Il progetto venne affidato all’architetto fiorentino Giuliano da Maiano, che diresse il cantiere fino alla sua morte nel 1490; in breve la Villa fu poi terminata, divenendo il luogo privilegiato per i ricevi- menti della corte.
La struttura era caratterizzata da un impianto molto originale e contaminato: appariva come una villa antica circondata da un porticato, protetta come un castello medievale ed arricchita da giardini, fontane e una grande peschiera riempita d’acqua e di pesci guizzanti.
Le cronache ricordano il festino organizzato dal duca Medina de las Torres, quando la corte su dieci barchette si dilettò a pescare ed anche lo spettacolare convito che il duca di Ossuna vi organizzò per diecimila persone, con i nobili a pranzare nel casino ed i giardini imbanditi per il popolo.
Entrambi i pittori frequentarono certamente la Villa (che ora non esiste più), fotografandola mentre erano in atto i preparativi per una festa e lasciando scorgere sul fondo il profilo di Castel S. Elmo sulla collina del Vomero.

     

    
Domenico Gargiulo
L’imprevisto
olio su tela, cm 37,5 x 48,5 siglato DG

Questo simpatico e raro dipinto, che ferma il momento preciso in cui una puledra bianca sta calciando le avances di un focoso cavallo spaventando e mettendo in difficoltà i presenti, rientra in quella particolare rosa di dipinti tratti dalla realtà di tutti i giorni, di cui il pittore fu grande interprete.
In città, percorsa quotidianamente da muli e cavalli indispensabili all’epoca per gli spostamenti ed i trasporti, scene del genere dovevano essere sotto gli occhi di tutti, soprattutto nella stagione primaverile della monta.
Infatti, anche nell’importante dipinto raffigurante Il Largo del Mercato, custodito presso il museo del Hospital de Afuera a Toledo e considerato un raro documento per lo studio del costume e della vita sociale dell’epoca, vi è rappresentata la stessa scena, in una piazza del Carmine gremita di persone intente a mercanteggiare.
È verosimile che anche questa pruriginosa immagine dovette essere suggerita al pittore dal vero.

    
   
Domenico Gargiulo
Santa Maria Egiziaca
olio su tela, cm 100 x 128 siglato DG


Questo suggestivo dipinto, di devozione privata, rappresenta Santa Maria Egiziaca, alla quale a Napoli sono dedicate due chiese: Santa Maria Egiziaca a Forcella (anche detta Santa Maria Egiziaca all’Olmo) e Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone.
Maria, di origine egiziana, sin da fanciulla aveva sentito stretti i vincoli della famiglia, della società e della morale. Precoce ed avvenente, fuggì dalla casa paterna e si recò ad Alessandria, dove dette sfogo al suo temperamento sensuale, vivendo per diciassette anni una vita di disordine e peccato.
Imbarcatasi con molti pellegrini, volle raggiungere Gerusalemme e la festa dell’Esaltazione della Croce, ma appena giunta in prossimità di varcare la soglia del tempio fu come trattenuta da una forza invisibile, che le ripeteva di non essere degna.
Convertitasi, andò a vivere solitaria nel deserto oltre il Giordano, dove restò per tantissimi anni.
La Santa è inginocchiata in preghiera, protetta in cielo da una nuvola di angioletti. Nuda e coperta solo da un telo di iuta, secondo la tradizione, rimase lì a meditare. Alle sue spalle sono appoggiati il teschio, simbolo della riflessione dell’uomo sulla brevità della vita terrena, e dei tozzi di pane, che sarebbero miracolosamente bastati a sostenerla per tutto il tempo di penitenza.
Lo spiccato sintetismo di Micco fotografa l’ambiente con un velutato accordo cromatico verde muschio e si concentra sugli scarni oggetti del racconto e sull’espressione ispirata e pentita della Santa.


   

Domenico Gargiulo
Il Buon Samaritano
olio su tela, cm 102 x 123

Nata come “Biblia pauperum” (Bibbia dei poveri), la rappresentazione delle pagine religiose diventa nel Seicento un prezioso medium comunicativo con i fedeli di tutte le estrazioni sociali, soprattutto con quelli che non potevano conoscere diversamente le Sacre Scrit-ture perché analfabeti. E’ bene ricordare, infatti, che anche le messe, celebrate esclusivamente in latino, non erano di facile comprensione.
Tutti gli inventari delle collezioni di quel secolo presentano dipinti e oggetti sacri, una preferenza accordata per lanciare un messaggio ben preciso, sia in termini di autentico rapporto protettivo e spirituale con la fede, sia come più opportunistico simbolo ideologico e sociale.
Con la sua tipica grafia veloce, da narratore che ha tanto da racco tare, Gargiulo affronta spesso anche il tema sacro. Qui traduce la celebre parabola evangelica (Luca, 10:25-37) sulla fratellanza umana.
«Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: […] «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui».
La tela coglie il cuore del racconto, quando il Samaritano si avvicina all’uomo per medicargli le ferite, andando ad affiancarsi a tante altre opere di iconografia religiosa dipinte da Micco nel corso della maturità.
Domenico Gargiulo
Eruzione del Vesuvio del 1631
olio su tela, cm 126 x 177, Napoli, Museo di San Martino


Il dipinto raffigura la processione svoltasi il 17 dicembre 1631, per implorare la fine dell’eruzione del Vesuvio verificatasi la notte precedente.
Alcune testimonianze, riportate in letteratura, ricordano durante il tragitto dal Duomo di Napoli fino a Porta Capuana l’apparizione di San Gennaro, che qui è rappresentato in cielo su una nuvola.
Insieme alla folla ammassata ma descritta nei particolari, sono ben visibili il busto reliquiario di San Gennaro e le ampolle con il sangue trasportate sul baldacchino, mentre in corteo si riconoscono le figure del viceré spagnolo, del cardinale Boncompagni e di tutti i rappresentanti dell’aristocrazia napoletana.
Sui tetti dei palazzi la gente guarda la scena e nel fondo il Vesuvio incombe ed appare ancora fumante. 
   
Domenico Gargiulo
La rivolta di Masaniello
olio su tela, cm 126 x 177, Napoli, Museo di San Martino

Il dipinto rappresenta uno dei documenti figurativi più interessanti della sommossa antispagnola verificatasi a Napoli tra il luglio del 1647 e l’aprile del 1648.
La scena si svolge in piazza Mercato, ripresa dalla chiesa di Sant’Eligio. Sul lato destro, evidente è il campanile della chiesa del Carmine, preceduta dalla cappella del Re Corradino, poi abbattuta nel Sette- cento. Al centro si erge, invece, il basamento del monumento, mai completato e poi distrutto, che Masaniello aveva ordinato a Cosimo Fanzago, dove appaiono come trofei le teste mozzate dai rivoltosi.
Leggermente più in basso, Masaniello, in groppa al suo cavallo e con un cappello rosso sul capo, accende la rivolta.
La minuzia dei dettagli e delle scene rappresentate suggerisce, anche in questo caso, una partecipazione diretta agli avvenimenti.
  
Domenico Gargiulo
Punizione dei ladri ai tempi di Masaniello
olio su tela, cm 29 x 38, Napoli, Museo di San Martino
L’opera è un documento storico importante perché rappresenta la particolare modalità con cui venivano puniti i ladri nella metà del Seicento. Il colpevole, dopo essere stato cinto sul capo con una corona di cartone, veniva fatto girare per la città a cavalcioni su un mulo.
La scena è ambientata nel Largo del Mercatello, l’attuale piazza Dante, davanti alla scomparsa porta dello Spirito Santo che apriva su via Toledo. Il dipinto è databile intorno al 1647 e fa parte di un gruppo di quattro dipinti citati dal biografo Bernardo De Dominici e raffiguranti particolari episodi della rivolta di Masaniello. Il piccolo formato ed il taglio moderno e trasversale rendono quest’immagine, insieme alla successiva, un’anticipazione delle fotografie di reportage.


     
Domenico Gargiulo
Uccisione di Don Giuseppe Carafa
olio su tela, cm 29 x 38, Napoli, Museo di San Martino

Anche in questo caso, l’immagine attesta un documento storico i portante perché vi è rappresentata la crudele e spettacolare uccisione di Don Giuseppe Carafa, fratello del Duca di Maddaloni, Diomede, avvenuta il 10 luglio 1647 in piazza del Carmine.
Il Duca aveva organizzato un complotto ma viene smascherato e la folla inferocita, non potendo raggiungerlo, si accanisce contro il fratello.
La testa recisa ed infilzata viene portata come un trofeo al cospetto di Masaniello, che appare in piedi su un podio sul lato sinistro della scena ad arringare la folla.
  
 Domenico Gargiulo
Largo del Mercatello a Napoli durante la peste del 1656
olio su tela, cm 126 x 177, Napoli, Museo di San Martino

Il Largo del Mercatello, posto all’epoca fuori le mura della città, è l’attuale Piazza Dante.
In alto, sul lato destro del dipinto compare la Porta dello Spirito Santo, chiamata anche Porta Reale, che dava l’accesso a via Toledo. Dietro alle mura si scorgono la cupola della chiesa di San Sebastiano, crollata nel 1939, ed il campanile della chiesa del Gesù.
Nella piazza, proprio perché esterna alla città, venivano raccolti i moribondi e i cadaveri provocati dalla terribile peste che colpì la città di Napoli nel 1656.
Mettendo a fuoco i particolari, la tradizione vuole ricondurre alcune figure ritratte a personaggi ben noti. Tra tutti, dando ascolto ad una testimonianza dello storico Dalbono, sembra spiccare Massimo Stanzione, che moribondo appare sul margine basso a destra mentre gli viene offerta l’ultima eucaristia.
 
Domenico Gargiulo
Rendimento di grazia dopo la peste del 1656
olio su tela, cm 207 x 305 Napoli, Museo di San Martino

Questo scenografico e grande ex voto fu dipinto da Micco nel 1657, in ringraziamento alla Vergine e ai Santi Bruno e Martino, patroni della Certosa, come si legge sulla ben evidente lapide marmorea.
Dinanzi ad una veduta spettacolare di Napoli, che è la stessa che ancora oggi si va ad ammirare da lassù, una settantina di certosini sono accorpati nel centro della tela, ciascuno con la propria fisionomia. Accanto, ben distinguibili appaiono il cardinale Filomarino, il Priore Cancelliere ed il pittore con la sua tavolozza.
Svolazza in alto la Vergine, circondata da quattro putti, e San Bruno che le porge la Regola.
Sul margine sinistro, sopra una grossa nuvola, compare Gesù Cristo, affiancato da San Giuseppe, San Giovanni Battista e i Santi Gennaro e Martino in abiti vescovili.
Vestito di rosso ed armato di spada, San Martino respinge la peste, personificata in una vecchia che ricorda le streghe dipinte in quegli stessi anni da Salvator Rosa.