mercoledì 31 ottobre 2018

Tradizioni popolari e dialetto puteolano

tav. 1 - Palo di sapone


Oltre ai festeggiamenti nella importante ricorrenza di San Gennaro il 19 settembre, il 15 agosto viene festeggiata l'Assunta con la competizione del cosiddetto palo di sapone (tav.1). Un pennone in legno viene tenuto in posizione quasi orizzontale su un molo del porto e cosparso di sapone. I concorrenti locali provano a turno a raccogliere delle bandierine poste all'estremità del palo, cadendo, nella maggior parte dei casi, a mare. La sera la ricorrenza viene festeggiata con una processione e con un bellissimo spettacolo di fuochi d'artificio.
Il Santo Patrono di Pozzuoli, San Procolo (tav.2), co-martire insieme a San Gennaro, viene festeggiato il 16 novembre; i festeggiamenti in suo onore, però, si svolgono la seconda domenica di maggio.
Il dialetto puteolano è una variante della lingua napoletana con delle connotazioni proprie singolari, in particolare nella fonetica, che risulta talvolta molto diversa dal napoletano e con analogie con quella di Torre Annunziata, situata specularmente sul mare rispetto a Napoli. Il dialetto puteolano è considerato di difficile comprensione perfino dagli stessi Napoletani.
Pozzuoli era un movimentato porto commerciale, ed il suo dialetto è un misto di più idiomi, da gente proveniente da tutte le parti del mondo. La prerogativa della cadenza prolungata sembra sia dovuta, ai venti che battono la costa. Infatti si dice che, dalle barche in mezzo al mare, i pescatori gridassero magari: "Mammaaaaaaaaaaaaa", ed a terra giungesse la forma contratta "Mamma". Altri dialetti, molto simili al puteolano si ritrovano a Torre del Greco, a Paternò, nella bella ma lontana Sicilia, ed anche a Furore, nella costiera amalfitana. Il dialetto puteolano, ha una enorme varietà di vocaboli strani che lo formano, per esempio, il blu jeans, è chiamato "degheris" o "tegheris", a seconda delle zone di provenienza di chi lo pronuncia; infatti la caratteristica più singolare di questo dialetto è la particolare inflessione che variando da posto a posto, riesce a volte, a rendere quasi incomprensibile qualche parola. Sono in pochi ormai, coloro i quali sanno parlare il puteolano vero.
La sensazione che si prova a sentire il dialetto di una volta, ed il puteolano moderno, è la stessa sensazione che si prova bevendo in buon bicchiere di vino genuino, e poi se ne beve un altro bicchiere aggiungendo al vino dell’acqua. Indubbiamente il gusto e la qualità sono sempre quelli, ma il vino se è stato diluito, non lascia più in bocca un gusto pieno, ma solo un vago ricordo di una bontà sbiadita!
E’ veramente un peccato che oggi non si ricordi più il dialetto di una volta, perché comunque aveva delle caratteristiche molto belle e varie, infatti le molte persone, provenienti da vari parti del mondo, che qui giungevano per affari, avvertivano l’importanza di comprendersi reciprocamente per poter concludere affari vantaggiosi per tutti. Da ciò probabilmente, nacque la necessità di usare un linguaggio che fosse frammisto di vocaboli vari e comprensibili a tutti, insomma, in sintesi una specie di primordiale "esperanto" di casa nostra. Altra nota simpatica, è il dialetto dei suonatori, che era usato dai gruppi di musicanti, che si proponevano per matrimoni e feste varie; anche se questo linguaggio pare fosse adottato proprio dai suonatori in genere, anche in altre zone limitrofe.
Di recente sull’argomento si è pronunciato, dalle pagine de Il Mattino, Roberto De Simone (tav.3), il quale ha solennemente dichiarato: ”La lingua di Pozzuoli sfugge all’italianizzazione forzata della televisione e agli imput dell’era global. I vocianti pescatori e gli eredi del Rione Terra si intendevano foneticamente con muti tronacamenti sillabici e frasi idiomatiche, che conferivano ai dittonghi puteolani un tono unico e uno stile di nobili ascendenze. Mentre l’italiano di matrice televisiva a partire dagli anni Cinquanta si modellava su un realismo dialettico manierato e falso, che lo rendeva meccanicamente retorico e ipocritamente unitario, il granitico dialetto puteolano è sempre vivo, forse spinto da endogeno bradisismo linguistico quasi Serapeo millenario, quasi isola di Pasqua nell’oceano della dimenticanza massificata, quasi misteriosa e gigantesca scultura in pietra della stessa isola, icona di un’abissale divinità, tuttora indistruttibile: la facoltà di esprimersi e comunicare con i suoni tradizionali della propria storia”.
Nel dibattito ha fatto sentire il suo parere anche l’assessore alla cultura di Pozzuoli, Maria Teresa Moccia Di Fraia (tav.4), la quale ha sottolineato che al dialetto servono cure: “La diaspora degli abitanti a seguito delle crisi bradisismiche del 1970 e del 1983, l’estensione delle new towns di Rione Toiano e Monteruscello rispetto al centro storico, l’aumento della popolazione a favore di immigrati napoletani hanno spezzato coesione e valori identitari, mettendo in discussione anche il dialetto, che oramai resta appannaggio dei pescatori e degli anziani”.

tav. 2 - Festeggiamenti per San Procolo
tav. 3 - Roberto De Simone
tav. 4 - Assessore alla cultura

domenica 28 ottobre 2018

Il parco archeologico del Pausilypon e la grotta di Seiano


fig. 1 - Luca Giordano-Jezabel divorata dai cani


Il parco archeologico del Pausilypon è una spettacolare area archeologica sita nel quartiere Posillipo aperta al pubblico dal 2009. L'accesso al parco ai visitatori è da discesa Coroglio 36, attraverso l'imponente Grotta di Seiano.
Ho avuto l’onore di visitare il parco quando era proprietà privata circa 30 anni fa.   
Il racconto comincia lì dove sorgeva la villa di Vedio Pollione, divenuto ricco col commercio del grano ed amico dell’imperatore Augusto ed in epoca moderna la dimora di Ambrosio, anche lui re del grano e sodale del potente ministro Cirino Pomicino. E fu proprio il braccio destro di Andreotti a favorire il nostro incontro per visionare uno spettacolare quadro di Luca Giordano (fig.1) e preparare il relativo expertise.
Dopo aver ammirato il dipinto e sorbito un eccellente caffè, il padrone di casa candidamente chiese: “Vogliamo andare a teatro?”.
“Vi è qualche spettacolo interessante da vedere all'Augusteo o al Diana?”
"Intendevo farle visitare il mio teatro personale".
Con grande meraviglia ci recammo in un'area contigua alla sua villa dove potemmo ammirare, ben conservato, uno splendido teatro in grado di contenere 2.000 spettatori (fig.2), un Odeion e altre strutture di sommo interesse archeologico, da un ninfeo a delle antiche terme.
Negli anni, per fortuna dei napoletani e per sfortuna del nostro anfitrione, il monarca del grano incappò in una serie di disavventure giudiziarie, che si conclusero con l'esproprio delle sue proprietà, le quali, passate allo Stato, sono ora di godimento pubblico e sono visitabili ogni giorno, basta percorrere da via Coroglio, l’imponente Grotta di Seiano realizzata in epoca romana dall’architetto Lucio Cocceio, che fu riportata alla luce, riaperta e riadattata nel 1840 da Ferdinando II di Borbone. Il traforo, della lunghezza di circa 780 metri, attraversa la collina tufacea di Posillipo, collegando l’area di Bagnoli e dei Campi Flegrei con il Parco sommerso della Gaiola.  Il colpo di grazia al percorso terreno del nostro ospite fu la sua morte violenta: ucciso dalla servitù, che voleva rubare i gioielli di famiglia.
Accenniamo ora alla storia gloriosa della struttura, che sorge quando Napoli era una dependance di Roma.
Dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), l'equite e liberto Publio Vedio Pollione decise di trascorrere gli ultimi suoi giorni in quello splendido scorcio situato tra la Gaiola e la baia di Trentaremi, in una località denominata Pausilypon cioè “sollievo dal dolore”. Accanto alla villa, fece costruire anche un teatro di 2000 posti (fig.3), un odeon per piccoli spettacoli, un ninfeo e un complesso termale (fig.4).
Le strutture dell'imponente Villa si estendono fin sotto la superficie del mare e sono dal 2002 tutelate dall'istituzione della limitrofa Area marina protetta Parco Sommerso della Gaiola, che interessa tutto lo specchio acqueo ai piedi del promontorio di Trentaremi ed intorno all’isolotto della Gaiola.
I resti di altre domus romane si possono scorgere a Marechiaro, lungo la spiaggia, oppure alla Calata Ponticello, risalendo il borgo, dove si possono scorgere una colonna a base ionica ed una nicchia in laterizio. Sulla scogliera, invece, si può ammirare ciò che rimane della Villa degli spiriti (fig.5). Il palazzo degli Spiriti (o villa degli Spiriti) è un complesso archeologico che insiste lungo la costa di Posillipo, nei pressi di Marechiaro. Fu costruito nel I secolo a.C. ed era appartenuto ad un ninfeo alle dipendenze della villa del ricco liberto romano Publio Vedio Pollione (ovvero la villa imperiale di Pausilypon). Per alcuni, si tratta dei resti di un "murenaio", cioè una struttura adibita all'allevamento di murene, serpenti marini considerati prelibati, che ancora a fine anni degli anni 80 erano presenti. Le vasche sono sommerse perché il livello del mare nei secoli si è alzato, ma è possibile vederle ancora oggi chiaramente. Il palazzo degli spiriti viene usato quotidianamente da audaci scugnizzi per i loro tuffi pericolosi in mare, anche lanciandosi dal secondo livello della struttura. Proseguendo lungo la costa, verso occidente, è possibile notare il perimetro della “Scuola di Virgilio” dove si riteneva che il "vate" praticasse arti magiche. 


 fig. 2 - Parco Pausilypon

 fig. 3 -  Teatro

fig. 4  - Parco archeologico visto dall'alto
 fig. 5 - Palazzo degli spiriti a Marechiaro

Il parco è stato riaperto al pubblico dopo i lavori di restauro nel 2009 per la kermesse Maggio dei monumenti. Oggi il parco sta venendo pian piano riscoperto dai cittadini napoletani, ma anche dai turisti stranieri grazie alla strutturazione di diversi itinerari di visite guidate, organizzati da benemerite associazioni, oltre ad una serie di concerti serali, che si tengono da giugno a settembre (fig.6) Il parco offre numerose testimonianze archeologiche nonché naturalistiche e paesaggistiche trovandosi in uno dei luoghi più belli della città, ovvero lungo la costa di Posillipo (fig.7-8).
Tra i reperti più importanti vi sono la grotta di Seiano, il parco sommerso di Gaiola, la villa imperiale di Pausilypon, il teatro dell'Odeon ed il palazzo degli Spiriti.
La grotta di Seiano (fig.9–10-11) è un traforo lungo 770m, scavato in epoca romana nella pietra tufacea della collina di Posillipo, che congiunge la piana di Bagnoli, via Coroglio, con il vallone della Gaiola, passando per la baia di Trentaremi.
Deve il nome a Lucio Elio Seiano, prefetto di Tiberio, che secondo la tradizione nel I secolo d.C ne commissionò l'allargamento e la sistemazione; il primo traforo era stato realizzato una cinquantina di anni prima dall'architetto Lucio Cocceio Aucto per volere di Marco Vipsanio Agrippa, per collegare la villa di Publio Vedio Pollione e le altre ville patrizie di Pausilypon ai porti di Puteoli e Cumae. La galleria, orientata in direzione est-ovest, si estende per circa 770 metri, con un tracciato rettilineo ma una sezione variabile sia in altezza che in larghezza; dalla parete sud si dipartono tre cunicoli secondari, terminanti con aperture a strapiombo sulla baia, che forniscono luce ed aerazione.
Caduta in disuso e dimenticata nel corso dei secoli, fu rinvenuta casualmente durante i lavori per una nuova strada nel 1841 e subito riportata alla luce e resa percorribile per volontà di Ferdinando II di Borbone, diventando meta di turisti. Nel corso della seconda guerra mondiale fu utilizzata come rifugio antiaereo per gli abitanti di Bagnoli; gli eventi bellici ed alcune frane nel corso degli anni Cinquanta la riportarono in uno stato di abbandono.
Attraverso l'imponente grotta di Seiano si accede al complesso archeologico-ambientale che racchiude parte delle antiche vestigia della villa del Pausilypon.
Qui, nell'incanto di uno dei paesaggi più affascinanti del golfo, è possibile ammirare i resti dell'imponente teatro capace di 2000 posti, dell'Odeion e di alcune sale di rappresentanza della villa (visibili ancora tracce dei decori murali), le cui strutture marittime fanno oggi parte del limitrofo Parco sommerso di Gaiola, su cui si affacciano i belvedere a picco sul mare del Pausilypon. La Villa Imperiale, detta anche Villa di Pollione, fu fatta erigere nel I secolo a.C. dal cavaliere romano Publio Vedio Pollione e alla sua morte, avvenuta nel 15 a.C., la villa, grazie alla sua posizione molto ambita (a metà sul mare e panoramica con vista sulla parte restante di Napoli, sulla penisola sorrentina, sul Vesuvio e Capri) divenne dunque residenza imperiale di Augusto, e di tutti i suoi successori. Molto interessanti, in vari punti delle vestigia, sono le presenze delle condutture dell'acquedotto (rivestite in malta idraulica), segno di ulteriore opulenza di chi vi soggiornava.
L'ultimo ad abitarla fu Publio Elio Traiano Adriano
Le escursioni in mare consentono di ammirare i resti della villa imperiale sommersi nonché l'ambiente naturale marino-costiero ricco e variegato. Il parco sommerso della Gaiola è stato dichiarato area marina protetta con decreto interministeriale del 2002.


fig. 6  - Concerti serali
 fig. 7  - Parco archeologico del Pausilypon dall'alto

fig. 8  - Parco archeologico del Pausilypon

 fig. 9  - Grotta di Seiano, ingresso
 fig. 10  - Grotta-di Seiano, percorso

fig. 11  - Grotta di Seiano, uscita

venerdì 26 ottobre 2018

La Solfatara da dimora degli inferi ad attrazione turistica

fig. 1 - Solfatara vista dall'alto

Incombe direttamente sulla città l’agorà di Efesto, pianura circondata da ciglioni infuocati che mandano spesso esalazioni come fornaci e piuttosto puzzolenti. La pianura è piena di polvere preziosa… (Strabone, Geografia V).
Così appariva agli occhi degli antichi la cavità craterica della Solfatara (fig.1-2), fucina dominata dal divino fabbro Efesto. Sede di scene diaboliche fu creduta a lungo se, ancora alla fine del Cinquecento, si racconta che i Padri Cappuccini della vicina chiesa di San Gennaro fossero tormentati dai diavoli (fig.3) che sovente facevano sentire ”ululati e terrori di grande spavento” (Capaccio 1604).
Fumarole, tremori, un suolo che sembra sempre in fieri sono ancora le caratteristiche di questo vulcano che conta quasi 4000 anni, ma che ha conservato i suoi caratteri originari, offrendosi all’osservazione dei geologi e dei loro strumenti come una sorta di laboratorio naturale per la ricerca. I Borbone vollero sistemare qui il loro Osservatorio vulcanico, un piccolo edificio celato dai vapori della Bocca Grande in cui, ancora oggi, si controlla l’attività vulcanica esaminando temperature e composizione delle esalazioni gassose. In passato vi erano anche piccole officine per l’estrazione dell’allume, dello zolfo e del vetriolo.
Di certo qui atmosfere e colori non possono non suscitare anche nel più disincantato dei visitatori un che di inquietante. Qui il tempo sembra essersi fermato da quando il poeta Petronio nel suo Satyricon così dipingeva a fosche tinte il Forum Vulcani:” Vi è un luogo posto nel fondo di un abisso cavo, tra Partenope ed i vasti campi di Dicearchia, bagnato dalle acque del Cocito; infatti il vapore che si sprigiona, si spande con calore mortifero. Non in autunno questa terra verdeggia, non fa crescere l’erba il fertile campo, né in primavera risuonano i teneri cespugli dell’armonia discordante del canto degli uccelli, ma il caos e i luoghi deserti coperti di nera lava gioiscono circondati dal funereo cipresso”.
Se con un salto temporale di secoli ci portiamo ai nostri giorni dobbiamo con tristezza constatare che da oltre un anno, a seguito di un evento in cui persero la vita alcuni visitatori (fig.4), l’accesso alla Solfatara è precluso, circostanza nefasta che significa una perdita di decine di migliaia di visitatori e di conseguenza una calamità devastante per l’economia puteolana.
Immaginiamo che quanto prima le indagini della magistratura, in genere poco meno che eterne, si completino e la struttura riapre. 
La visita alla Solfatara viene svolta solitamente in senso antiorario seguendo il perimetro del cratere, ove si concentrano la maggior parte delle attività vulcaniche: dopo aver superato un bosco di querce ed una zona con la tipica vegetazione della macchia mediterrane si arriva ad un belvedere (fig.5) da dove è possibile osservare l'intera area del cratere. Si prosegue per il pozzo d'acqua minerale, la fangaia, le cave di pietra trachite, la grande fumarola e le stufe antiche.
Il pozzo d'acqua minerale ha una profondità di circa dieci metri e la sua falda varia nel tempo a seconda sia delle precipitazioni sia per l'effetto del bradisismo: nel 1913 la temperatura dell'acqua, che ha un sapore asprigno, simile al limone, era di 70º. L'attuale pozzo fu costruito nell'Ottocento e serviva sia per cure termali che per estrarre allume: infatti analisi dell'acqua, effettuate da Sabatino De Luca, un noto chimico dell'università di Napoli, rivelarono un contenuto di allume, ossidi di zolfo, solfati di calcio, magnesio, ed altri minerali. L'acqua termominerale della Solfatara veniva attinta fin dal Medioevo. Per Pietro da Eboli (fig.6) il Balneum Sulphatara era ritenuto miracoloso per la cura della sterilità femminile, ridando fecondità alle donne sterili: in miniatura del Codice Angelico si notano donne immerse fino alla vita in una vasca esagonale in muratura mentre tra le rocce un personaggio incrementa con un soffietto le fiamme e le esalazioni provenienti da varie fumarole a forma di vulcanetti. Quest'acqua inoltre era utilizzata per alleviare i sintomi del vomito, dei dolori allo stomaco ed ancora guariva dalla scabbia, distendeva i nervi, acuiva la vista e toglieva la febbre coi brividi. 

fig. 2 Solfatara- Ingresso
fig. 3 - Totò all'inferno, girato nella Solfatara
fig. 4 - Funerale all'aperto
fig. 5 - Belvedere
fig. 6 - Pietro da Eboli - Balneum Sulphatara

La Fangaia (fig.7) è formata da acqua piovana e da condensazione del vapore acqueo che mescolandosi con materiale argilloso forma del fango, il quale con le alte temperature del suolo ribolle. Il fango, utilizzato anche per fini termali, è ricco di minerali quali boro, sodio, magnesio, vanadio, arsenico, zinco, iodio, antimonio, rubidio; dalla Fangaia fuoriescono anche dei gas, ad una temperatura che si aggira tra 170° e 250° gradi, e dalla composizione varia. Sulla superficie del fango si notano delle striature scure, le quali costituiscono colonie di archeobatteri, chiamati Sulfolobus solfataricus, che riescono a sopravvivere alle alte temperature e riscontrate solo in tali luoghi; altro tipo d'invertebrato che vive nella Solfatara è la Seira tongiorgii, descritta per la prima volta nel 1989.
Le cave di pietra trachite offrono la possibilità di osservare l'antica attività mineraria che si è svolta fino intorno agli anni Cinquanta del XX secolo: si estraeva oltre alla pietra alchitrachite anche allume e bianchetto.
La Bocca Grande (fig.8) è la principale fumarola della Solfatara con il vapore, dal caratteristico odore di zolfo simile ad uova marce, che raggiunge temperature di circa 160°. Denominata dagli antichi Forum Vulcani (fig.9), nei suoi vapori si trovano sali come il realgar, il cinabro e l'orpimento che posandosi sulle rocce circostanti danno una colorazione giallo-rossastra. Nelle sue vicinanze, il vulcanologo tedesco Immanuel Friedländer, fece edificare un osservatorio all'inizio del Novecento, poi crollato a seguito del bradisismo e dell'aumento dell'attività della fumarola.  
Le Stufe Antiche (fig.10), realizzate nell'Ottocento ed in seguito rivestite di mattoni, sono due grotte naturali che utilizzando i vapori delle fumarole erano sfruttate ai fini termali: chiamate una del Purgatorio e l'altra dell'Inferno a causa della variazione di temperatura tra le due, oggi non sono più utilizzate. Nel periodo in cui venivano effettuate le cure termali le persone potevano sostare al loro interno soltanto alcuni minuti: ciò causava un'eccessiva sudorazione e si inalavano vapori solfurei ritenuti ottimali per la cura di patologie delle vie respiratorie e della pelle. Nelle vicinanze delle stufe è possibile ritrovare cristalli di zolfo e allume.
La visita è finita, ma quando comincerà?


fig. 7 - Fangaia
fig. 8 - Grande Fumarola
fig. 9 - Forum Vulcani
fig. 10 -Stufe antiche

martedì 23 ottobre 2018

Una piazza per Achille Lauro

  
 Convegno giovedì 8 novembre 2018  ore 17:30 - 19:30, per intitolare una piazza ad Achille Lauro
aula magna dell'università ter, sita nella chiesa di S. Maria della Libera, via Belvedere Napoli.


A Napoli vi è via Kagoshima e via Jan Palach, vico Scassacocchi e vico Fico, via dei Chiavettieri al Porto e via dei Chiavettieri al Pendino, ma nessuna piazza, largo, via, viale, vico, fondaco, cupa, strettoia che ricordi ai napoletani Achille Lauro. Chi era costui? Uno sconosciuto Carneade, oppure il sindaco plebiscitario per anni della città, l'abilissimo imprenditore, il presidente a vita del calcio Napoli, il più grande armatore di tutti i tempi nel mondo, o, come amava definirlo Antonio Ghirelli: l'ultimo re borbone. Ad oltre trenta anni dalla morte è giunto il momento di sdoganarlo, ristabilendo la verità storica e di farlo conoscere alle giovani generazioni, cancellando pregiudizi politici che non hanno più motivo di esistere ai nostri giorni. Per chi volesse approfondire l'argomento consiglio di consultare in rete il libro "Achille Lauro superstar", il quale, in un capitolo, tratta con nuovi documenti gli anni travagliati del «sacco della città», dimostrando che il grosso delle nuove costruzioni nei quartieri alti napoletani non avvenne durante il periodo in cui Lauro era sindaco (1952-'58), bensì durante i tre anni della reggenza Correra, il famigerato commissario inviato dal potere centrale per punire la città che votava il partito monarchico. Doveva rimanere in carica soltanto tre mesi per gestire le elezioni, regnò viceversa per oltre trenta mesi e cementificò interi quartieri.

Achille della Ragione

Questa lettera, con piccole varianti del testo e spesso con un titolo diverso, a partire   al 2003 è stata pubblicata decine di volte dai principali quotidiani italiani, dall’Espresso al Corriere della sera, dalla Repubblica a La stampa, da Il Mattino al Roma ed al Corriere del Mezzogiorno, oltre ad infinite riviste minori, cartacee e telematiche. I risultati: nessuno.
Questo è il motivo per cui ho organizzato un convegno sull’argomento, invitando, a parte importanti personalità della cultura, lo stesso sindaco De Magistris e l’assesore con delega alla toponomastica.

sindaco.segreteria@comune.napoli.it

Gentile signor sindaco, vorrei invitarla come ospite d’onore ad un convegno che ho organizzato per giovedì 8 novembre ore 17:30 - 19:30, per intitolare una piazza ad Achille Lauro, che si terrà nell'aula magna dell'università ter, sita nella chiesa di S. Maria della Libera, via Belvedere Napoli.
Ho già avuto numerose adesioni, da Achille Lauro jr. all'ingegner Manfellotto, dal direttore Sasso ad esponenti della famiglia Grimaldi, dai giornalisti Mimmo Carratelli e Toni Iavarone, all’ex presidente del Napoli Corrado Ferlaino, oltre all’onorevole Amedeo La Boccetta 
Gradirei potesse intervenire
Grazie, in attesa di una risposta anche se negativa.
Achille della Ragione
081 7692364 - 329 3233706

Voglio poi rassicurare tutti coloro che hanno a cuore la questione, io leggo nel futuro e posso predire che entro un mese una importante piazza napoletana cambierà il suo nome assumendo quello del mitico Comandante.
Nel frattempo invito tutti a consultare il mio libro sul personaggio: Achille Lauro superstar, di cui vi allego la prefazione, digitando il link
https://digilander.libero.it/achillelauro/indice.htm

Una piazza per Achille Lauro, è una battaglia che va avanti


PREFAZIONE
Perché un libro su Achille Lauro? Perché non esiste personaggio, oggi -a vent'anni dalla sua morte- più attuale del Comandante, vero precursore di Berlusconi ed in parte, senza colpa, anche del ruspante Bossi.
Un grande imprenditore che scende nell'agone politico, creando un suo partito personale di stampo populista, ad immagine e somiglianza del fondatore, presidente di una squadra di calcio con assi comprati a fior di milioni, proprietario di una testata giornalistica prestigiosa e creatore della prima emittente televisiva privata italiana.
Se sostituiamo al Partito monarchico Forza Italia, al Napoli il Milan, al "Roma" e a "Canale 21" le reti Mediaset, abbiamo fotocopiato il ritratto del Cavaliere.
Pur con le dovute differenze geo-antropologiche, da un lato una capacità greco-partenopea di cogliere gli umori della gente, dall'altra il settentrionale americanizzato che non si muove se non dopo quotidiani sondaggi d'opinione, due gemelli, due cloni della stessa schiatta, due politici di prim'ordine in grado di trasformare il populismo in virtù, non solo peronismo e demagogia, ma volontà di dare voce alla sacrosanta richiesta della gente, che vuole instaurare un più contiguo rapporto con il potere, senza i lacci dei partiti.
Entrambi, prima d'impegnarsi direttamente vivono all'ombra della politica: Lauro nei meandri dei palazzi del potere fascista e delle corporazioni, sotto l'ombra benevola di Ciano; Berlusconi nelle dorate stanze del socialismo craxiano.
Oggi Lauro è sconosciuto ai giovani che al massimo ne hanno sentito parlare come del sindaco di "Mani sulla città", della stagione del sacco edilizio e della cementificazione selvaggia.
Si discuterà anche di questi aspetti, con il conforto di nuovi ed inediti dati, ma come si può tardare ancora a "sdoganare", se non altro a livello mediatico, un personaggio definito oggi, anche da autorevoli studiosi fino a ieri silenziosi: "Un uomo di grande capacità, un politico dal forte carisma e dalla straordinaria forza decisionale".
Due soltanto sono i libri che raccontano la storia di Lauro, da tempo esauriti e praticamente introvabili, ma nel frattempo nuovi elementi conoscitivi impongono una impostazione diversa della vicenda, politica ed imprenditoriale, almeno per gli anni più recenti.
Gli episodi legati al crack della flotta, con i conseguenti processi da poco conclusisi, hanno fornito nuova e attualissima materia, anche per la caratura dei personaggi coinvolti, tutti di primo piano (armatori, imprenditori, politici, faccendieri) che possono oggi agire liberamente, come se niente fosse successo, grazie al complice silenzio dei mass-media, che hanno calato un velo pietoso di silenzio sugli avvenimenti. Questi tristi figuri e le loro losche gesta vengono per la prima volta trattati puntigliosamente, con tanto di nome e cognome, in un capitolo di questo libro.
Per il periodo del sacco edilizio abbiamo inoltre cercato di avviare una rivisitazione storica più precisa, sulla base di nuovi dati documentari, proponendo di ribaltare il periodo "nero", dagli anni del laurismo agli oltre trenta mesi della "reggenza" del commissario prefettizio Correra, il quale, braccio esecutivo del governo centrale democristiano, fu il vero demiurgo della devastazione edilizia abbattutasi sulla città.
Le fonti, oltre alla consultazione dei non molti libri (una ventina) sull'argomento, sono state i giornali e le riviste dell'epoca, che hanno richiesto un estenuante e certosino lavoro in emeroteca. Inoltre, si è attinto alle testimonianze dirette di coloro che vissero a fianco del Comandante quel lungo periodo della nostra storia (familiari, politici, giornalisti, ma anche gente comune).
Ciò ha consentito di raccogliere molte notizie interessanti e tanti nuovi aneddoti, una vera e propria miniera per un personaggio così colorito e vivace, un "unicum" nel panorama della politica e dell'armatoria italiana.
Non vi è stata l'intenzione di pubblicare un libro da destra, ma credo di aver realizzato una ricerca onesta su un personaggio, che non può essere dimenticato e deve anzi essere riproposto in una nuova luce all'attenzione delle nuove generazioni, non solo napoletane.
Qualcuno noterà un taglio forse troppo giornalistico del testo, dovuto anche alla circostanza che alcuni capitoli sono nati come articoli per quotidiani e mensili.
C'è forse nelle pagine del libro un troppo insistito richiamo alla "esuberanza fisica " del nostro don Achille, alla quale è dedicato un apposito capitolo, ma per un personaggio del quale si racconta, ed abbiamo avuto più di una conferma, che prossimo agli ottanta anni libasse ancora a Venere tre volte al giorno, forse è stato anche poco.
Le storie, è un mio parere, per essere lette con passione devono essere condite con tre "S": Sangue, Sesso, Soldi.
Del sangue, verso il quale nutro peraltro un' invincibile idiosincrasia, forse per la mia passata professione di medico, ho fatto volentieri a meno; ma dagli altri due ingredienti, così ben omogenei alla vicenda descritta, ho attinto generosamente a piene mani.

Napoli  7 febbraio 2003

Una piazza per Achille Lauro, è una battaglia che va avanti

Il Roma - 10 novembre 2018, prima pagina
Il Roma - 7 novembre 2018, pag. 11
Il Roma - 10 novembre 2018, pag. 13

Una piazza per Achille Lauro, è una battaglia che va avanti

lunedì 22 ottobre 2018

L’ANFITEATRO FLAVIO


fig. 1 -Anfiteatro Flavio di Pozzuoli

Puteoli fu, ad eccezione di Roma, l’unica città dell’Italia antica a possedere ben due anfiteatri.
Il maggiore (fig.1–2–3) sorge a sud ovest dell’altro, più piccolo, costruito con gli assi orientati secondo i 4 punti cardinali, con una capienza di circa ventimila spettatori. Come dimensioni è il secondo in Campania (149–116) dopo quello di Capua ed il terzo in Italia dopo il Colosseo. Su ciascuno degli accessi principali, frammenti di un’iscrizione testimoniano che la città”colonia flavia augusta puteolana”, avrebbe realizzato l’opera a sue spese “pecunia sua”. Ciò ha fatto ritenere tradizionalmente l’edificio di età flavia, ma oggi, alla luce di nuove scoperte epigrafiche, viene proposta una diversa ipotesi che anticiperebbe la datazione dell’anfiteatro al periodo neroniano. Le iscrizioni in tal caso documenterebbero piuttosto il completamento e la decorazione del monumento in età flavia.
Un autentico gioiello, che i bravi architetti di Vespasiano, gli stessi del Colosseo di Roma, costruiscono in opus reticulatum e in laterizio.
La sua edificazione in sostituzione dell’antico edificio di età romana repubblicana, non fu troppo celere, e vide il passaggio di Nerone, Vespasiano e Tito, finchè, nel 79 d.C. potè definirsi certamente completo anche nei paramenti esterni. L’anfiteatro puteolano venne costruito là dove confluivano le principali vie della regione, la Via Domitiana e la via per Napoli.
Il colosso Flavio poteva ospitare fino a 40mila spettatori che qui si recavano per assistere ai ludii gladiatores e fu progettato con ben tre ordini sovrapposti, quattro ingressi maggiori e dodici secondari, garantendo, quindi, una accessibilità comoda ed efficiente. Come il Colosseo era provvisto di un sistema di schermatura per la luce e la calura estiva con pali e vele, abilmente mosso dai marinai di Miseno.
È stato attribuito agli stessi architetti del Colosseo, del quale è di poco successivo.
La cavea, divisa in tre livelli di gradinate, permetteva di contenere fino a 20.000 spettatori.
La struttura, di pianta ellittica, misura 147 x 117 metri, mentre l'arena ha i due semiassi di 72,22 e 42,33 metri
L’edificio si innalzava per tre ordini architettonici, l’ultimo dei quali adorno di finestre e statue. I primi due, che si presentano ad arcate, fungevano anche da supporto per la cavea, che a sua volta era suddivisa in tre parti: summa, media e ima cavea e doveva essere coronata da un portico colonnato ricco di statue. Naturalmente anche allora i posti riservati ai personaggi più importanti erano quelli più vicini all’arena, dove si collocavano senatori e cavalieri, magistrati et similia. La summa cavea, la parte più alta , si raggiungeva anche dall’esterno, salendo rampe di scale che partivano dal piano stradale, mentre ai settori più bassi si accedeva da uno dei tre ambulacri concentrici posti all’interno e che correvano lungo l’intero perimetro dell’edificio.
Al centro dell’arena si trova la fossa scenica, che comunica con i sotterranei da dove venivano sollevate le scenografie per le diverse ambientazioni di giochi e combattimenti, mentre dalle botole quadrangolari di piperno, che si aprono sul pavimento dell’arena si issavano, probabilmente con un gioco di carrucole, le gabbie con le fiere. 


fig. 2 - Anfiteatro di  Pozzuoli, veduta aerea

 fig. 3 - Anfiteatro Flavio, interno

fig. 4 -  Anfiteatro Flavio - Sotterranei

La parte meglio conservata è la zona dei sotterranei (fig.4–5), dove sono tuttora visibili parte degli ingranaggi per sollevare le gabbie che portavano sull'arena belve feroci e probabilmente altri elementi di sceneggiatura degli spettacoli. Al di sotto dell’arena si intravedono ancora parte degli impianti idrici, che permettevano l’alimentazione di fontane per il pubblico. Nei sotterranei lungo un corridoio ellittico, sono disposti una serie di piccoli ambienti che dovevano ospitare ogni sorta di animali: pantere, leoni, orsi, tori, cinghiali, perfino giraffe ed elefanti, che venivano poi catapultate nel bel mezzo dell’arena, a volte per combattere tra loro, più spesso per divorare condannati a morte, o divenire vittime di venatores (cacciatori), che le trafiggevano con archi e frecce. In ogni caso erano sempre protagoniste di un gioco crudele la cui emozione più grande era la morte.
Anche San Gennaro con San Procolo (patrono di Pozzuoli)  ed i suoi compagni, nel 305 d. C. dovevano essere divorati dalle belve, le quali però aderirono ad uno sciopero della fame e si inginocchiaro devote, come immortalato nel celebre dipinto (fig.6 ) di Artemisia Gentileschi, dove ad uno sguardo attento ci si accorge che ad inchinarsi non è il re degli animali, bensì un mastino napoletano; per cui si fece un secondo tentativo chiudendo San Gennaro in una fornace ed attendendo una mezz’ora per farlo cuocere a dovere, ma all’apertura della porta il martire usci tutto elegante, mentre le fiamme avvolgevano gli astanti, come descritto nello spettacolare rame (fig.7) di Ribera, conservato nella Cappella del Tesoro del duomo di Napoli. Disperati i carnefici dissero, facciamo un ultimo tentativo: tagliamogli la testa e scelsero come cornice la Solfatara, come fissato nel quadro (fig.8) esposto nella quadreria del Pio Monte della Misericordia, dove erroneamente è assegnato a Niccolò De Simone, mentre l’autore è Carlo Coppola, come si evince dall’occhio del cavallo che dà l’impressione di fissare l’osservatore, una sorta di firma criptata dell’autore. E concludiamo correggendo un ultimo errore degli storici che affermano pomposi: la decapitazione avvenne il 19 settembre del 305, regnante Diocleziano, ignorando che il suddetto dal 1 maggio aveva abdicato alla massima carica.

fig. 5 -  Anfiteatro Flavio - Sotterranei
fig. 6 - Artemisia Gentileschi - Martirio di San Gennaro nell'Anfiteatro - Pozzuoli, Cattedrale
fig. 7 - Jusepe Ribera - San Gennaro esce illeso dalla fornace - Napoli Duomo, Cappella del Tesoro
fig. 8 - Carlo Coppola - Decapitazione di San Gennaro - Napoli quadreria del Pio Monte della Misericordia



venerdì 19 ottobre 2018

La nascita del futurismo




L’inaugurazione di una interessante mostra su futurismo nella Cappella Palatina di Palazzo Reale ci fornisce l’occasione per rendere noto, tra tanti record negativi, un misconosciuto primato positivo della città di Napoli.
Pochi sanno, neanche tra gli specialisti, che il battesimo del movimento futurista  avvenne a Napoli, dove il Manifesto di Marinetti venne pubblicato sul periodico La Tavola rotonda  il 14 febbraio del 1909 dell'editore Bideri, famoso per le sue copie delle canzoni di Piedigrotta, 6 giorni prima della sua comparsa sulle pagine del Figaro di Parigi.
E dopo pochi mesi, il 29 aprile 1910, vi fu il battesimo del fuoco al teatro Mercadante davanti ad un pubblico battagliero ed interessato con poltrone e palchi presidiate dalla intellighenzia partenopea, da Croce a Scarpetta, da Scarfoglio a Matilde Serao, oltre a politici, professionisti ed un plotone di giornalisti, i quali variamente commentarono l'evento sui loro giornali.
Tra i paladini del nuovo movimento Marinetti, Palazzeschi, Boccioni e Carrà, i quali erano andati nell'antica capitale, inebriati da quella atmosfera avvolgente della Belle Epoque, accoppiata ad un momento esaltante di creatività culturale ed artistica, testimoniata da un numero senza eguali di teatri e giornali, in stridente contrasto con una fase di severa crisi economica e di degrado morale del ceto dirigente.
Durante la presentazione al Mercadante, dal palco dove sedeva donna Matilde giunse sulla scena, al posto del fatidico pomodoro, un'arancia che Marinetti, impassibile, prese al volo, sbucciò e mentre continuava a parlare cominciò a mangiarla.
Il pubblico da un lato applaudì per il gesto coraggioso, ma continuò a far piovere di tutto su quei personaggi originali che apparivano come degli alieni e nello stesso tempo a manifestazioni di approvazione si alternavano fischi e pernacchie.
Un posto particolare se lo ritagliò Vincenzo Gemito con la sua barba lunga, i capelli scompigliati, il volto spiritato, si affacciava dal suo palco inneggiando ai futuristi, al punto che Marinetti interruppe la sua lettura per andargli a baciare la mano. Lo scultore rimase talmente colpito dal nuovo verbo, che volle invitare Boccioni e Marinetti a casa sua e volle apporre una corposa dedica al loro Manifesto tecnico della pittura futurista: "Ai cari amici un augurio per la loro nobile  missione di promozione di un nuovo ideale di arte in Italia, da parte di un amico che ha avuto la fortuna di applaudirli".
Da quella sera memorabile per settimane nei circoli intellettuali e nei cenacoli letterari si parlò solo di Futurismo, alternandosi adesioni incondizionate e critiche feroci, sguardi perplessi a sorrisi ammiccanti "I terribili provocatori futuristi, gli strambi apostoli di nuove dottrine, gli avanguardisti irriverenti che volevano uccidere il chiaro di luna, potevano anche trascorrere l'intera giornata a dettare i loro programmi d'intenti belligeranti: poi però la sera non rinunciavano alla passeggiata sul lungomare di Posillipo, continuando a discutere, gustando del buon pesce nei migliori ristoranti.
La prima adesione napoletana al gruppo futurista fu quella di Francesco Cangiullo, fino ad allora autore di canzonette e musiche, tra cui "Mastrottore", una cantilena composta nel 1904 molto apprezzata da Igor Straviskiy, che la inserì nel suo Pulcinella e da Tzara Ball che la introdussero nel cabaret Voltaire del 1916, con cui lanciarono il  movimento Dadaista.
Nel 1912 Cangiullo dedicò a Marinetti "La cocotta Futurista", un divertisment da leggere nei cafè chantant, che ricevette un premio durante la Piedigrotta. Compose anche una canzone pirotecnica si sole lettere e note ed a Roma fu autore di un gesto eclatante quanto irriverente, portando in processione la testa di Croce scolpita a colpi schiaffi. Il sommo filosofo godeva viceversa dell’ammirazione di Carrà, il quale, si recò più volte a casa di Don Benedetto, discorrendo amabilmente di estetica e di impressionismo, timorosi che i quadri alle pareti, rigorosamente figurativi, stessero ad ascoltare.
Nel 1914, sempre Cangiullo, nel nobile Palazzo Spinelli in via dei Mille interpretò con Marinetti, Balla e Depero un poema che parodiava la Piedigrotta, al frastuono assordante di putipù, scetavajasse e triccaballacche e davanti ad un pubblico partecipe che non si fermò un attimo dallo scompisciarsi dalle risate.
Non contento Cangiullo condusse Marinetti in trasferta a conoscere Capri, l’impareggiabile isola delle sirene ed a ripercorrere gli ectoplasmi di Diefenbach, Cerio, Gorkij, Lenin, Cocteau e tanti altri spiriti eletti che lì avevano soggiornato. Il padre del futurismo rimase talmente colpito dalla bellezza di albe e tramonti da comporre un dimenticato romanzo: “L’isola dei baci”.
I futuristi, impegnati nella loro missione dirompente verso il solenne, il sacro, il sublime e tutto ciò che fino ad allora era stato l’obiettivo dell’arte si accorsero che sabotaggio, presa in giro e parodia irriverente costituivano da tempo la miscela esplosiva del teatro di varietà che da anni furoreggiava a Napoli e sbalorditi approfondirono le più antiche tradizioni popolari, soprattutto la Piedigrotta, che in quegli anni assunse aspetti scoppiettanti con l’utilizzo di artifici pirotecnici.
Al carattere trasgressivo le edizioni della festa affiancarono ascensioni aerostatiche e sorprendenti giochi di luce, culminati nell’edizione del 1895 con un corteo di due chilometri che mise assieme orologi e fiori, telefoni ed animali, telescopi e macchine fotografiche, In un turbinio di effetti di luce, che rappresentò uno dei momenti più alti del futurismo.


Quadro futurista
Manifesto futurismo sul Figarò¦
  

Russolo, Carrá, Marinetti, Boccioni, Severini
Vincenzo Gemito,autoritratto

Futurismo napoletano
 Francesco Cangiullo
Fuochi di Piedigrotta