giovedì 5 aprile 2012

I dipinti di soggetto mitologico di Giacomo Farelli


21/4/2011

I soggetti mitologici nella produzione del Farelli sono alquanto rari, anche se tra questi si annoverano alcuni capolavori.
Questa sua abilità si può ben apprezzare nel Ratto di Proserpina (fig. 1), di proprietà del Banco di Napoli e da tempo esposto nella pinacoteca di Bari, in cui Plutone, nudo e ripreso di spalle è, in preda alla libido, in una contrazione spasmodica di tutti i gruppi muscolari, ripresi in rilievo in maniera quasi brutale.
Nel dipinto, che probabilmente proviene dalla collezione del marchese della Valle, Ferdinando Geronimo Alcarcon de Mendoza, la fanciulla, avvenente, cresciuta tra ninfe, fiori e delizie, viene rapita da Plutone che decide di farne la sua sposa e regina degli Inferi e la trascina con forza verso il cocchio che la condurrà via verso un ade di stampo dantesco popolato da Cerbero, Caronte, le furie e le arpie.
La composizione focalizza l’essenziale ed è permeata da un vivo espressionismo con toni cupi, sapientemente dosati, un disegno perfetto che delinea il corpo di Proserpina, mentre si evidenziano i prelievi culturali dell’artista dal Reni, dal Poussin, nella tensione metallica del panno mosso dal vento e dal Di Maria, nelle tipologie dei putti. 
Palpabile è il compiacimento del nudo, sotto l’influsso della meditazione delle splendide anatomie della Cappella Sistina, il che permette di collocare cronologicamente l’opera intorno agli anni Ottanta.
Lo stesso soggetto viene replicato in un dipinto (fig. 2), transitato anni fa sul mercato, nel quale identica è la figura di Plutone, ripreso di spalle, il quale mette in mostra la sua possente muscolatura mentre avvinghia a sé la fanciulla, avvolta in un mantello dello stesso azzurro presente nella tela del Banco di Napoli.

Proserpina, pur nella prosperità delle forme, tra cui un seno accattivante che si offre mansueto alla cupidigia dell’assalitore ed all’occhio compiaciuto dell’osservatore, appare leggiadra ed eterea, disponibile a seguire la sua sorte, che la identificherà nella mitologia greca al succedersi delle stagioni. La fanciulla infatti era la figlia di Giove e di Cerere, dea delle messi, la quale, addolorata per la sua perdita, si ritirò in solitudine, provocando carestia e siccità sulla terra ed inducendo il potente marito a costringere Plutone a restituire la fanciulla per due terzi dell’anno.
Affine a questi due quadri per la minuziosa indagine anatomica delle figure, per l’espressività caricata dei personaggi e per la tavolozza dai colori lividi e cianotici è uno splendido inedito di collezione Pongolini a Cortemaggiore, raffigurante Enea ed Anchise che sfuggono da Troia (fig. 3), erroneamente attribuito in passato ad Andrea Vaccaro.

L’episodio è inserito in un’atmosfera dai toni cupi e corruschi, la corposità delle forme e la brillantezza dei colori appaiono come eleganti prelievi dalla cultura neoveneta, reinterpretata alla luce della lezione dei grandi pittori napoletani, in primis il suo maestro Andrea Vaccaro e Francesco di Maria, attraverso il quale recupera l’esempio dei più quotati artisti del passato, filtrandoli in un suo stile personalissimo, pregno di suggestioni di colore e strettamente obbediente alle regole di un disegno corretto.
I colori cianotici e metallici rievocano la pittura di Nicolas Poussin e rappresentano una sorta di firma criptata che contrassegna gran parte della produzione degli anni Ottanta.
Un unicum nella produzione dell’artista è costituito dal Diana ed Atteone (fig. 4), transitato a Londra nel 1978 in un’asta Christie’s come di autore ignoto ed in seguito pubblicato dallo Schleier attribuito ad un maestro sconosciuto vicino ai modi del De Matteis, operante a Roma intorno al 1700. Accanto a questo dipinto lo studioso poneva un Giudizio di Paride (fig. 5), che riteneva di scuola veneziana della seconda metà del Seicento.


Il quadro è un tripudio di graziosi corpi femminili ignudi, che rammenta il quadro di analogo soggetto di Pacecco De Rosa conservato nel museo di Capodimonte, gli incarnati alabastrini e le rare vesti fruscianti rappresentano una rarità che invano cercheremo nella produzione profana dell’artista, ma le tipologie dei volti sono caratteristiche del Farelli e ne confermano l’attribuzione, che venne avanzata per la prima volta dalla Barbone Pugliese in un fondamentale contributo sul pittore pubblicato sulla rivista Napoli nobilissima. 
La studiosa colse un momento nel percorso del Farelli di convinta adesione al classicismo, marcato da una sorvegliata tenuta stilistica e da una eleganza delle forme nitide ed eburnee. “I personaggi, meditati studi di accademia, dominano la scena ed il paesaggio assume un’importanza non secondaria descritto con minuziosa precisione, con una resa morbida, naturalistica del fogliame e della vegetazione. 
La composizione risulta ben equilibrata, la luce è dosata in funzione della massima esaltazione dei nudi, il risultato è di una grazia raffinata e di misurata eleganza.
La Barbone Pugliese riconosceva viceversa nell’autore del Giudizio di Paride, il quale sembra tradire una stessa mano, un maestro affine al Farelli e proponeva il nome di Nicola Vaccaro. 
Un’altra opera di soggetto mitologico di cui conosciamo l’esistenza, ma che risulta dispersa, è una Diana ed Endimione, citata come autografa nell’inventario dei beni della famiglia napoletana dei Serra di Cassano redatto il 20 maggio del 1738.
I due quadri più noti di argomento profano sono la coppia già in collezione Araneo ed oggi conservati presso il municipio di Melfi. 
Essi raffigurano un Venere ed Adone (fig. 6), siglato GF ed un Bacco ed Arianna (fig. 7), furono pubblicati la prima volta dalla Barbone Pugliese e sono stati esposti alla recente mostra Ritorno al Barocco. 


Le due tele sono datate dalla critica negli anni Sessanta in un momento in cui il Farelli si esprime con soluzioni di studiato equilibrio compositivo e ricercata eleganza formale, in linea con un classicismo di derivazione neoveneta impreziosito dagli esempi di Cesare Fracanzano, in grado di infondere ai suoi quadri una luminosità dorata, grazie ad una pennellata morbida e sensuale.
Nella prima composizione il pittore presenta la dea seduta frontalmente nella sua appetibile nudità che non riescono a celare gli eleganti panni bianco e azzurri, mentre cerca disperatamente di trattenere l’amato Adone, ansioso di partire per la caccia con i suoi fidati segugi; sulla destra Cupido, dopo aver fatto scoccare implacabile il fuoco della passione dorme incurante degli avvenimenti.
Nell’altro dipinto Arianna, dall’animo in preda all’inquietudine, indossa una tunica bianca trasparente, da studiato nude look, che lascia poco all’immaginazione, mentre un sinuoso panno azzurro le ricade lezioso sulle gambe.
Il pittore si ispira come tanti illustri colleghi a due delle più note storie raccontate da Ovidio nel libro X delle Metamorfosi e colloca la narrazione in un’atmosfera rarefatta da idillio campestre grazie all’utilizzo di una tavolozza raffinata, tale da esaltare la bellezza dei nudi.
Le dimensioni del pendant, 4 per 5 palmi, corrispondono a quelle di una coppia dal medesimo soggetto conservata nella collezione del principe d’Ischitella Francesco Emanuele Pinto, mentre abbiamo notizia di un altro Venere ed Adone, di dimensioni leggermente superiori, nell’inventario del duca di Montecorvino Ignazio Provenzale, redatto il 1 agosto 1693.

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