mercoledì 4 aprile 2012

La scuola di Posillipo ed il mito dell’armonia perduta


1/2/2011

All’epoca del Grand Tour  Napoli era una delle mete predilette dai viaggiatori europei e tra questi vi erano anche molti pittori alla ricerca di panorami da riprendere, ma soprattutto del sole, del mare e di una luce particolarissima che mutava, ora dopo ora, la prospettiva e la stessa natura delle cose da fissare sulla tela.
Nei primi decenni dell’Ottoceto la capitale borbonica esercitava una duplice attrazione sugli intellettuali e sugli artisti grazie al fascino dell’incomparabile bellezza del suo golfo ed al fascino di un’antica civiltà riportata alla luce di recente con eccezionale abbondanza di reperti. Ed a riempire di umanità quello spettacolare scenario naturale e quel vetusto emporio di arte, che continuava sorprendentemente a svelarsi giorno dopo giorno, vi era la solare esuberanza dello spirito partenopeo.
Da sempre inserita come tappa fondamentale nell’itinerario neoclassico, la città magnetizzò anche l’interesse dei paesisti di ispirazione romantica da Turner a Corot e, aldilà di questi nomi famosi, tutta una pletora di francesi, tedeschi, inglesi, svizzeri ed in generale di nordici, abbacinati dalla potenza della luce. Tra questi, tolto qualche artista inclinato ad un vedutismo documentario da cartolina, tutti si attennero ad una colorata topografia di vaga ascendenza vanvitelliana ovvero ad un paesismo condito di motivi pittoreschi, che riproponevano in termini piuttosto esteriori gli attributi romantici del paesaggismo napoletano settecentesco, derivato dalla lezione di Salvator Rosa e di Micco Spadaro.
Da questa folla poliglotta, intenta a rispondere ad una richiesta turistica sempre più pressante, si stacca la figura di Antonio Sminck van Pitloo, un olandese, divenuto napoletano a tutti gli effetti, che insegnò ai locali a dipingere il paesaggio dal vero. Egli fu un abile eclettico e seppe ricondurre verso le categorie del piacevole, dello scenografico e del pittoresco il paesaggio del Turner, del Constable e di Corot, quasi intendesse accordarlo ai paesaggi ellenistici delle case di Ercolano e Pompei. Una riuscita formula di alleggerimento che ebbe molta fortuna e che introdusse a Napoli, con singolare precedenza rispetto agli altri centri italiani, la nozione di importanti fatti europei, contribuendo così a liquidare i ritardatari neoclassici e ad orientare verso una più fresca scioltezza i nuovi intenti romantici. Il Pitloo riuscì a suscitare a Napoli quella particolare atmosfera stilistica, tutt’altro che priva di fascino, che i contemporanei vollero contrassegnare ironicamente con la definizione di Scuola di Posillipo e che influì profondamente sulla formazione del maggior paesista napoletano delle prima metà del secolo: Giacinto Gigante.
Anche Degas, prima di dedicarsi anima e corpo ai tutù vaporosi delle ballerine, era stato in città dal 1858 al 1860, mentre nel 1874 giunse all’ombra del Vesuvio Mariano Fortuny, dallo stile leggero e brillante.
Napoli dopo l’Unità d’Italia non fu più una protagonista tra le capitali europee, ma rimase all’avanguardia con le novità artistiche che venivano dall’estero e riuscì ad imporre i suoi pittori anche a Parigi.
Si configurò una vera e propria scuola basata su una pittura accattivante e disimpegnata, alla quale si convertirono anche molti artisti, in precedenza famosi per quadri impregnati di crudo verismo o dedicati ad esaltare episodi storici.
Con la caduta dei Borbone e l’annessione al nuovo regno monopolizzato dai Savoia, la città si trovò a dovere interpretare un ruolo di provincia e la sua borghesia  non si trovò più rappresentata in quei grossi dipinti storico patriottici che adornavano i salotti più eleganti. 
Il ruolo di ex capitale di un regno con nove milioni di abitanti, in gran parte analfabeti, contrastava con una città dove si stampavano ottanta periodici, vi erano più teatri che a Parigi, l’università annoverava docenti prestigiosi e la nobiltà e la borghesia, colte e cosmopolite, erano la punta di un iceberg che poggiava su una massa di povertà ed ignoranza.

I principali pittori: Morelli, Michetti, Migliaro, Dalbono con decine di imitatori e seguaci, spesso anonimi ed imitatori fino al falso dello stile dei maestri, creano una formula di successo, assemblando un verismo superficiale con un’esaltazione del folclore e della tradizione, grondante di pescatori e popolane, immersi in un’atmosfera allegra e spensierata, resa con pennellate vivaci ed una tavolozza smaltata ed iridescente. Non mancano scugnizzi impertinenti ed animali da cortile, a scimmiottare un’Arcadia idilliaca, agognata ma irraggiungibile.
Questa pittura sgargiante dai colori luccicanti unì i gusti della nobiltà e del popolino, piaceva agli uni e agli altri, nella stessa misura e negli stessi anni durante i quali la canzone napoletana, prorompente e retorica, raccoglieva applausi da tutte le classi sociali, in Italia ed all’estero.
Sono gli anni in cui si sviluppa il mito dell’armonia perduta, l’antica illusione, fallace quanto tenace, che imprigiona da sempre Napoli, propagandata da scrittori ed intellettuali, che attraverso libri e convegni vorrebbero farci credere ad un’Arcadia resa infelice da lazzari ignoranti asserviti alle mire del potere. 
Questo sogno dai contorni di fiaba è raffigurato con tinte idilliache nei dipinti della Scuola di Posillipo e dell’annacquato verismo di fine Ottocento e questi sono non a caso i quadri ancora presenti a rappresentare una sorta di status symbol nelle case che contano all’ombra del Vesuvio. Ma in verita si tratta di un incubo, che annichilisce ogni speranza di palingenesi della città e la rende incapace di pensare seriamente al suo futuro, in sorprendente coincidenza con un dialetto, assurto a piena dignità di lingua, che esclude questo tempo dalla sua sintassi.
L’Eden vagheggiato da artisti e narratori non è mai esistito al di fuori della rappresentazione oleografica ai limiti con l’agiografia, né mai è esistito un popolo in grado stemperare i propri interessi in una visione di bene comune. Vicevera e purtroppo a scandire la storia di Napoli è stato il percorso distaccato di due mondi paralleli: la plebe e l’aristocrazia. Nei secoli entrambi sono cambiati senza cambiare le loro traiettorie divergenti.
Napoli paga lo scotto della latitanza di una borghesia imprenditoriale, che sappia investire nella produzione e sappia ridisegnare la propria cultura conservatrice e nello stesso tempo di una classe operaia e lavoratrice, che sia  in grado di essere parte attiva in un programma di sviluppo dell’economia.
Il risultato nefasto è una civiltà costretta a sopravvivere con l’assistenzialismo statale, con mille truffe e sotterfugi e destinata ad implodere fragorosamente se dovesse realmente realizzarsi un federalismo fiscale.
Napoli è da tempo priva di centri decisionale e vede la sua ricchezza concentrata nelle tasche dei ceti professionali o redditieri, dediti per inveterata abitudine all’accumulo infruttifero e non all’investimento, che preferiscono il tranquillo buono postale, che sopperisce agli sperperi di uno Stato inadempiente e parassitario, ai titoli azionari, che fungono da volano delle industrie. Ma soprattutto negli ultimi decenni una smisurata quantità di ricchezza è stata accumulata dalla criminalità organizzata, il cui potere è così notevolmente aumentato, al punto da dettare regole ed essere parte in causa in tutte le più importanti decisioni.
Eppure Napoli è stata sempre l’unica città che ha visto convivere, fianco a fianco, nello stesso quartiere e nello stesso palazzo, ricco e povero, signore e plebeo e questa vicinanza urbanistica avrebbe potuto costituire un propellente capace di sprigionare quella carica di energia vitale necessaria al cambiamento. Ma ciò è avvenuto unicamente nella musica, nel teatro e nell’arte, mai nell’economia e nel sociale e per questo che Napoli ed i napoletani continuano a vivere costretti in un opprimente presente senza saper ipotizzare un decente futuro.

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