La rappresentazione di mezze figure di santi e filosofi, investigati con crudo realismo, fu una moda nata nella bottega del Ribera a Napoli ed affermatasi poi anche in provincia grazie ai suoi discepoli, tra i quali, con una rilettura originale, si annovera anche il sommo Luca Giordano, che più volte ritornerà sul tema nel corso della sua lunga carriera, dilatando oltre misura la sua fase riberesca, identificata erroneamente dalla critica con un periodo unicamente giovanile.
Tra i più convinti seguaci del valenzano si distingue Francesco Fracanzano, il quale nel 1622, dalla natia Monopoli, si trasferisce con la famiglia nella capitale, entrando giovanissimo nell’ambiente artistico partenopeo, grazie anche al matrimonio, celebrato nel 1632, con la sorella di Salvator Rosa.
Lavorando con il Ribera ne recepì la stessa predilezione per la corposità della materia pittorica e ripropose spesso i soggetti più richiesti dalla committenza: studi di teste e mezze figure di filosofi e profeti su fondo scuro.
Nel convento e nella chiesa di San Pasquale a Taranto si conservano una decina di tele raffiguranti il Redentore, apostoli e santi anacoreti, tutti a mezza figura su sfondo scuro, che rivelano la mano di più artisti (vi è anche un dipinto firmato di Giordano, aggiunto in epoca successiva), tra cui spicca Francesco, col quale probabilmente collabora Cesare. Infatti in un paio di dipinti “la massa pittorica appare più levigata, più morbidamente plasmata e meno vibrante di vita. Qualche indulgenza ad un gusto manieristico più abboccato, un certo compiacimento formalistico, un senso morale più allentato e molte concessioni di indole pietistica e devozionale che suggeriscono il nome di Cesare come collaboratore, qui impressionato dalla prepotente personalità del fratello” (D’Elia).
Si tratta di poderosi personaggi vestiti di rudi panni, con attributi iconografici irrilevanti che solo con l’ausilio della fantasia ne permettono l’identificazione con San Bartolomeo (fig. 1), San Simone o San Matteo. Più facile riconoscere S. Andrea o il Redentore (fig. 2)
Sotto l’apparenza di santi scorre una galleria di ritratti dal vero di rudi contadini e di fieri pastori, personaggi che vivono e lavorano ancor oggi con fatica tra le pietraie delle Murgie e gli oliveti del Salento.
Si tratta di un’iconografia inconsueta per gli altari severi delle chiese, che tradisce la committenza di qualche alto prelato per la sua privata quadreria.
San Pietro assume l’aspetto di un filosofo, mentre San Simone somiglia ad un pensatore greco o ad un filosofo dell’antichità.
Sono dipinti dai quali trasuda una profonda umanità che comunica allo spettatore un messaggio di poderosa forza morale, senza indulgere ad un formalismo decorativo: un fondo scuro dal quale campeggia una figura, severa e bonaria allo stesso tempo, realizzata con una pennellata generosa, grassa e pastosa, quella che sarà definita tremendo impasto, piena di impeto e pregna di una luce rigorosa che penetra nelle pieghe della fronte e nelle mani, forti e nodose.
Sono certamente tra le prime prove di Francesco, come si evince chiaramente nel San Bartolomeo (fig. 1) con la sua intatta monumentalità, la sua dirittura morale, la sua ridondante materia pittorica richiama, e forse precede, le austere figure presenti nelle Storie di San Gregorio Armeno e in egual misura il San Paolo che scrive l’epistola a Filomene, già nel coro del duomo di Pozzuoli, che Zeri credeva di Cesare, ma che, come già affermava l’Ortolani, è uno degli esiti più coerenti di Francesco.
Il De Dominici accenna all’attività del Fracanzano nella bottega del Ribera:”il maestro molto lo adoperava nelle molte richieste di sue pitture… mezze figure di santi e di filosofi”.
Nessuno di questi quadri, attribuibili con un buon margine di certezza alla sua mano, è firmato o datato, probabilmente perché spesso dovevano passare per autografi del maestro e ad avvalorare questa ipotesi ci soccorrono di nuovo le parole del biografo ”il Maestro molto lo adoperava nelle molte richieste di sue pitture e massimamente per quelle che dovevano essere mandate altrove, ed in paesi stranieri… egli è così simile all’opera del Ribera che bisogna sia molto pratico di lor maniera chi vuol conoscerlo… nell’esprimere la languidezza delle membra, nella decrepità dei suoi vecchi.”
Il San Paolo eremita e S. Antonio abate (fig. 3) è collocato impropriamente dentro una lunetta del portale esterno della chiesa di S. Onofrio dei Vecchi ed è frutto di una donazione di una famiglia napoletana. Esso raffigura la visita che S. Antonio abate fece a San Paolo eremita ritiratosi da tempo nel deserto.
L’episodio è ridotto all’essenziale in ossequio alle tradizioni del più schietto naturalismo napoletano, con i due protagonisti raffigurati a mezzo busto su un fondo scuro ad occupare tutta la scena, con gli occhi protesi a guardare il corvo che porta loro una pagnotta per sfamarsi, mentre un piccolo brano di natura morta in basso a sinistra è incentrato su un teschio ammonitore.
Il quadro è firmato per esteso e datato 16…4, ma le due date possibili sono 1634 o 1654. Leone de Castris, che per primo ha pubblicato la tela, giudicandola di modesta qualità, propendeva per la seconda data “per il colore meno ricco, quasi monocromo e la struttura fisica dei santi meno salda e vigorosa”, ma in seguito, tutta la critica, Spinosa in testa, si è giustamente orientata verso la data più antica, facendo del dipinto la prima opera documentata dell’artista.
Vicino cronologicamente alla tela dei SS. Paolo eremita e S. Antonio abate vi è un S. Andrea apostolo (fig. 4) già presso l’antiquario Canesso di Parigi, il quale, assieme ad un San Pietro in meditazione, comparso sul mercato francese, rappresenta probabilmente l’esordio del pittore a Napoli, in chiave di rigorosa resa naturalista, riprendendo prototipi del Ribera, nella cui bottega egli ha lavorato assieme al fratello Cesare.
Il dipinto in esame riprende un originale del maestro non ancora identificato facente parte probabilmente di una serie di apostoli, un’iconografia molto richiesta e più volte replicata dal valenzano.
La qualità del quadro è molto alta “grazie a sapienza di tagli di luci e ombre, di panni ed epidermidi, concretezza di particolari anatomici e tratti somatici, trattazione severa, ma anche intensa e umanissima, di stati d’animo e reazioni espressive” (Spinosa). A parte vi è da considerare il brano di natura morta del pesce posto in basso a sinistra, il quale, per l’accentuata intensità pittorica, fa pensare alla collaborazione di uno specialista, lo sfuggente Giacomo Recco o più probabilmente Giovan Battista.
Questo Filosofo (fig. 5) intento a consultare antiche carte transitò nel 1992 presso la Christie’s di Parigi e riprende con varianti alcune soluzioni proposte dal Maestro dell’annuncio ai pastori. Il personaggio dal volto grinzoso è lo stesso che compare nelle vesti di viandante nella Buona ventura, mentre una giovane zingara gli sta predicendo il futuro.
Relegata da sempre nei depositi di Capodimonte la Testa di Vecchio, di formato ovale, rappresenta un vegliardo dalla folta capigliatura e dall’ancor più cespugliosa barba immerso nei suoi pensieri. Il dipinto da sempre ritenuto autografo venne descritto dall’Ortolani nel catalogo della memorabile mostra su tre secoli di pittura napoletana tenutasi a Napoli nel 1938 in maniera entusiasta: ”tanto diversa da quelle veriste e profondamente intente di Cesare che vi si vedono a una foga pittoresca, a una fervida approssimazione improvvisativi della pittura integrale, che sarà il campo in cui si sfogherà l’estro di Luca Giordano”.
Negli anni successivi la critica ha collocato il dipinto in contiguità con le Storie di San Gregorio Armeno per la notevole somiglianza fisionomica tra il vecchio ed il patriarca e per l’identica matrice culturale che pervade la composizione di chiara matrice riberiana.
Il San Pietro (06) fu pubblicato nel 1958 dal Bologna, che nell’assegnarlo al Fracanzano lo scambiò per un San Giuseppe, perché ampie ridipinture avevano coperto le chiavi dalle mani del santo. Lo studioso lo metteva in relazione con una delle versioni, la più antica, del Ritorno del figliol prodigo conservata a Capodimonte, rilevando affinità nell’impasto corposo delle materie cromatiche. In seguito nel 1972 il Causa, identificandolo ancora con un San Giuseppe lo spostò, assieme ad un numeroso gruppo di opere già riferite al Fracanzano nel corpus del Maestro dell’annuncio ai pastori.
Dopo il restauro, che ne permette l’esatta identificazione iconografica, il San Pietro viene presentato alla mostra su Battistello ed il primo naturalismo a Napoli e poi anche all’estero all’esposizione di arte napoletana di Strasburgo e Bordeaux. In quella occasione, nella scheda del catalogo la Rocco lo sposta ad una fase più avanzata della carriera dell’artista all’inizio del quinto decennio, quando il rude naturalismo dei primi anni viene mitigato dall’adesione alle delicatezze cromatiche del neovenetismo.
Il San Giuseppe è una tela che rappresenta il santo con il suo tradizionale attributo iconografico rappresentato da un bastone dal quale spunta un fiore, a simboleggiare la fecondità che all’improvviso sgorga da un vecchio.
Al momento dell’entrata nel patrimonio del museo fu classificato come ignoto riberesco, ma in seguito ad un più attento studio, viene riscontrata un’affinità con il San Giuseppe col Bambino di Cesare Fracanzano conservato nell’episcopio di Barletta, sia nella tavolozza che nelle fisionomie, per cui sottoposto al parere di Spinosa venne attribuito a Francesco, un’ipotesi che viene confermata da un’attenta lettura dell’opera, “nella quale si ritrova una cultura che innesta sulla formazione riberesca il classicismo di matrice reniana, riscontrabile nella tavolozza schiarita da una luminosità avvolgente che trova risposta nelle opere intorno agli anni Trenta del Maestro dell’annuncio ai pastori” (Piscitello).
Un altro San Giuseppe questa volta col Bambino, inedito, si trova a Greenville presso la Bob Jones University, eseguito in anni successivi.
Il San Giacomo minore identificato da Dario Porcini in una collezione napoletana è molto vicino alle tre mezze figure precedentemente descritte, conservate nei depositi di Capodimonte e ne dimostra la stretta dipendenza dai modelli del Ribera e del Maestro dell’annuncio ai pastori, una influenza che, secondo Spinosa, in parte ha segnato anche l’attività giovanile del cognato Salvator Rosa. Lo studioso ha poi segnalato, eseguito nello stesso momento del San Giacomo minore, una Testa di uomo con turbante nel museo di Belle arti di Quimper.
Il San Bartolomeo (fig. 7 ) di una raccolta bolognese è stato in passato attribuito a Nunzio Rossi per evidenti affinità con i modi stilistici di questo ancora poco noto pittore attivo a lungo a Napoli, ma il pennello di Francesco è evidente ed un accostamento cogente può istaurarsi con il San Paolo ed il San Pietro (fig. 8 - 9) conservati nel museo Bowes a Barnard Castle.
Di altissima qualità il San Pietro penitente (fig. 10) transitato nel 2003 da Sotheby’s a New York, il quale richiama alcune tendenze al gigantismo delle figure alla Tibaldi, soluzioni adottate dal Fracanzano sul finire degli anni Trenta, quando l’artista addolcì il rude naturalismo delle prime prove, prendendo ispirazione dal Lanfranco e dalla svolta neoveneta, che interessò sia il Ribera che lo stesso Maestro dell’annuncio ai pastori.
Un omaggio al Ribera più che una copia da un originale perduto va considerato il poderoso Filosofo (fig. 11) di una collezione privata tedesca, che mostra ancora una volta la funzione del Fracanzano nella bottega del grande spagnolo: creare dipinti talmente perfetti da poter agevolmente essere venduti come autografi del maestro e questa consuetudine può spiegare l’assenza di firme sotto le infinite mezze figure di santi e filosofi prodotti da Francesco nel corso di vari anni, che, dopo aver adornato le austere sale di notabili ed eruditi, invadono da tempo il mercato antiquariale e le aste internazionali, cercando ancora una volta di passare col nome del Ribera.
Il Filosofo in meditazione (fig. 12) della collezione Di Loreto di Roma rappresenta un’importante aggiunta al catalogo del Fracanzano e condivide con i dipinti più noti della serie la tavolozza densa e pastosa, resa con una pennellata ora sfilacciata ora grumosa, che denuncia un chiaro rapporto con la produzione del Ribera degli anni Trenta.
I raffronti più cogenti, che ne confermano la palmare autografia, si possono istituire, oltre che con le numerose figure di filosofi, attribuite al pittore dalla critica più avvertita, anche con i due quadri più celebri di Francesco: le Storie di san Gregorio Armeno realizzate intorno al 1635 per la chiesa eponima, nelle quali, pur tenendo conto delle differenze di dimensioni e di soggetto, si possono ravvisare alcune fisionomie di vecchi con la stessa morbida barba appena accennata, che contraddistingue questo pensoso filosofo, il quale, volgendo gli occhi al cielo, sembra cercare lì una risposta ai pressanti quesiti che inquietano la sua esistenza.
Alcuni dettagli, quali l’epidermica bellezza della materia pittorica sulla fronte corrugata e la raffinata definizione dell’incarnato, che risalta a confronto con l’umile abbigliamento, indirizzano la scansione cronologica della tela a poco dopo il 1640, quando il pittore intraprende la strada di un più osservante riberismo, una sorta di ritorno classicista alle primigenie matrici culturali.
Due straordinarie Teste di carattere, pubblicate dal De Vito, la prima (fig.13 ) in collezione privata milanese, la seconda (fig. 14) esitata da Porro nel 2009, mettono in risalto una propensione tutta riberesca ad indulgere in una fisiognomica esasperata tra il grottesco ed il patetico, con rughe scavate inesorabilmente, sguardi truci ed una mesta rassegnazione nel soccombere allo scorrere inesorabile del tempo. Un degrado del corpo che sembra andare di pari passo ad un degrado morale, mentre uno sfacelo fisico si manifesta prorompente in questa Testa di vecchia gozzuta (fig. 15), una malattia endemica nei bassi napoletani, reperita nell’archivio di Federico Zeri.
Una rarità iconografica nel cammino di Francesco è poi costituita da un interessante Bodegon di pesci con figura (fig. 16) della collezione Bottoni Cerceri a Bergamo, nella quale ricompare la vecchia infiocchettata dallo sguardo truce che abbiamo trattato in precedenza, resa ancor più brutta, mentre, con in mano un coltellaccio, si appresta a pulire del pesce e dei mitili, eseguiti da un generista che potremmo ragionevolmente supporre sia Giovan Battista Recco o uno stretto collaboratore della sua bottega.
Molto vicino a questa spietata indagine naturalistica va collocato anche l’Elia nutrito dai corvi di una raccolta di Teramo, che possiamo ritenere una delle prime prove del pittore.
Anche se a figura intera, vanno inclusi in questo capitoli i due notevoli San Pietro e San Paolo (fig. 8 - 9) conservati a Barnard Castle nel Bowes museum, in precedenza assegnati dal Bologna ad una figura da definire, denominata Anonimo fracanzaniano e spostati poi dalla Novelli Radice nel catalogo di Nunzio Rossi.
Essi sono stati restituiti autorevolmente a Francesco dal De Vito, ipotesi accettata poi da tutta la critica.
Le due composizioni presentano lo stesso gigantismo formale e le stesse alte qualità pittoriche di altre tele eseguite intorno al 1640, dal Sileno ebbro del Fogg Art museum di Cambridge al celebre Bacco di Capodimonte ed è da questi importanti dipinti che prenderà probabilmente ispirazione il Rossi per la sua produzione.
Del San Pietro, il cui volto corrucciato sembra rammentare il Mosè di Michelangelo, esiste una replica, forse di bottega, nel museo Castromediano di Lecce, proveniente dalla locale chiesa di S. Antonio da Padova.
Tra i tanti dipinti transitati negli ultimi anni sul mercato ed attribuibili ragionevolmente a Francesco sulla guida di alcuni particolari quasi sempre presenti: mani nodose e mantelli sfrangiati citiamo, senza dilungarci nel commento: un San Pietro ed il gallo (fig. 17), oggi in una collezione spagnola, un Santo in preghiera ed un Vecchio monaco (fig. 18), che nella scheda dell’antiquario era detto firmato e due versioni di Diogene, la prima già sul mercato milanese, la seconda (fig. 19)esitata in un’asta Sotheby’s a New York nel 2008.
Concludiamo la nostra carrellata con la tela più nota del gruppo, l’Apostolo (fig. 20) del museo di Capodimonte, più volte esposta in rassegne internazionali sulla pittura napoletana.
Il dipinto, proveniente dalla collezione di Paolo Wenner, venne acquistato dallo Stato, dopo essere stato fermato presso l’ufficio esportazione. Venne identificato come San Pietro, anche se manca di qualsiasi attributo iconografico, per cui più correttamente va definito come Apostolo. “Grande al vero, a mezza figura largamente panneggiato in un lanoso manto giallo marrone… il vecchio anacoreta fissa gli occhi in alto e grida con la bocca dischiusa sulla folta ed ispida barba il suo credo” si legge nei documenti dell’epoca stilati dal Quintavalle, il quale, nel catalogo del museo lo attribuisce al Lanfranco, sulla base della larga stesura dei piani cromatici e la soffusa morbidezza delle luci che richiamano la pittura emiliana.
L’Apostolo è però impregnato anche da un potente naturalismo nella descrizione dei tratti somatici, indagati con severità nei solchi delle rughe, in linea con la lezione del Ribera, anche se il volto, intenso e vigoroso, comincia a rivelare i nuovi valori cromatici, sconosciuti nella produzione giovanile del pittore, per cui la collocazione cronologica dell’opera va posta nel corso del V decennio del secolo, quando il rigore naturalistico comincia a cedere alle lusinghe di una tavolozza tenera e raffinata, come testimonia la condotta più accurata delle velature nell’azzurro della camicia, realizzate con una tonalità che vira quasi verso il bianco.
Nel gruppo molto folto di mezze figure di santi e filosofi la mancanza di firme e documenti crea un’alea di incertezza attributiva con altri artisti più o meno coevi, specializzati anche loro nel genere. Pittori più o meno famosi: Pietro Beato, Gaetano Recco, Giuseppe Ricca, Hendrick van Somer, Filippo Vitale, Gian Giacomo Manecchia e chi sa quanti altri riberiani allievi o seguaci dei quali non conosciamo il nome nonostante ci passino davanti agli occhi i dipinti.
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