mercoledì 29 aprile 2015

La storia di Pasquale G.



Pasquale G. tra pochi giorni riacquisterà la libertà dopo oltre 10 anni trascorsi nel carcere di Rebibbia. Potrà rivedere la figlioletta  divenuta una signorina e camminare per le strade di Trani, il suo paese natale. Il debito verso lo Stato è stato pagato fino all’ultimo giorno, nonostante la legge preveda che a metà pena, poteva godere della semi libertà, quando mancavano 4 anni dell’affidamento ai servizi sociali, gli ultimi 18 mesi dei domiciliari.
Nonostante la buona condotta, il diploma superiore conseguito tra le sbarre, un libro dato alle stampe (Cronistoria di un amore folle) ed un umile lavoro di scopino, pagato quattro soldi, per comprarsi sigarette e francobolli, non è stato ritenuto meritevole dal magistrato di sorveglianza  di misure alternative.   
Vi è molto sconforto nelle carceri, non solo per le condizioni di vita disumane, e per l’impossibilità di rieducarsi e prepararsi al reinserimento nella società, ma soprattutto perché è veramente convinto lo Stato che far scontare ai detenuti la pena in modo disumano dentro carceri sovraffollate, senza alcuna attività, imbottiti di psicofarmaci, incattiviti ed esasperati, renda la società più sicura? Le carceri così come sono, sono inutili e dannose per i detenuti, per le loro famiglie, e per la società; invece di recuperare escludono ed emarginano, e rischiano di far uscire le persone peggiori di come sono entrate.
I penitenziari si rendono vivibili garantendo ai detenuti, senza inutili barriere, quanto previsto dalla legge: semi libertà a metà pena, affidamento in prova quando mancano 4 anni dal fine pena, gli ultimi 18 mesi di reclusione ai domiciliari; provvedimenti che gradualmente svuoterebbero i penitenziari, tenendo conto che oltre 20.000 detenuti potrebbero beneficiarne, portando il numero dei reclusi in linea con quanto perentoriamente richiestoci dall’Europa.

Speriamo che Pasquale trovi un lavoro onesto e ricominci a vivere senza ricadere nella spirale dell’illegalità.


giovedì 23 aprile 2015

Il maestro dei maestri della scacchiera: Giorgio Porreca



Domenica 17 maggio alle ore 10:00 presso la sede della Associazione scacchistica partenopea, sita in Napoli via Rossini nel Circolo artistico del Vomero verrà presentato il libro Il maestro dei maestri della scacchiera: Giorgio Porreca, scritto da Achille della Ragione e Carlo Castrogiovanni.



Prefazione 
Lo scopo di questo libro è quello di far conoscere alle nuove generazioni un illustre personaggio: Giorgio Porreca, che ha rappresentato per alcuni decenni un maestro ed un esempio nel mondo degli scacchi e che rischia di essere dimenticato, nonostante i tanti libri scritti, in un epoca in cui l’apprendimento e l’aggiornamento utilizzano prevalentemente il computer.
Avevo già parlato di Porreca, dedicandogli un capitolo, che fornisce il nome a questo libro, nel II volume di Quei napoletani da ricordare, un’opera in quattro tomi, che si affianca ai quattro tomi dedicati alla napoletanità e che a breve costituirà una sorta di mio testamento spirituale. 
Avevo poi inviato tale capitolo ad una mailing list di circa 3000 nomi di scacchisti di tutta Italia e molti mi avevano scritto per ringraziarmi e auspicavano una pubblicazione più ampia, che potesse ricordare il maestro di cui avevano sentito parlare. Tra questi, in particolare, Pasquale Colucci, titolare di una diffusa testata scacchistica diffusa per via telematica, mi ha incoraggiato ed alla fine convinto.
Ho quindi invitato una decina di amici a collaborare, in primis Carlo Castrogiovanni, assurto al ruolo di coautore, al quale ho affidato, oltre ad un ricordo personale, un fondamentale capitolo che raccoglie e commenta alcune delle più famose partite di Porreca.
Ho ripreso il ricordo di Alvise Zichichi, pubblicato sulla rivista Scacco all’indomani della scomparsa di Porreca e mi sono giunti poi i contributi di Dario Cecaro, grazie al quale ho ripercorso brevemente la storia della gloriosa Accademia scacchistica napoletana nel dopoguerra, illustrata da numerose foto inedite, Giacomo Vallifuoco, Ernesto Iannaccone, Umberto Sodano, Pietro Pastore, Paolo Soprano, Guglielmo Fumo, Pasquale Colucci, Francesco Maria Sergio, Claudio Gatto, Gian Paolo Porreca, Adolfo Mollichelli.
Oltre al già citato capitolo di Carlo Castrogiovanni dedicato al commento delle principali partite del maestro, abbiamo potuto pubblicare altre foto, classifiche e materiale vario raccolto puntigliosamente da Dante Caporali, il quale ha collaborato anche alla creazione del pdf del testo da dare alla stampa. 
Un incoraggiamento fondamentale ci è stato fornito dalla Lega campana scacchi, nella persona del suo presidente Salvatore Isoldo, la quale si occuperà anche della diffusione gratuita del libro ai circoli ed ai giocatori.
Non mi resta che augurare a tutti buona lettura 



lunedì 20 aprile 2015

Una splendida pala d’altare di Nicola Malinconico nella parrocchiale di Avella

fig.1

Una importante aggiunta al catalogo di Nicola Malinconico è costituita da una splendida quanto misconosciuta pala d’altare, firmata, conservata ad Avella nella Colleggiata di San Giovanni dei fustiganti, raffigurante la Sacra Famiglia in gloria con i santi Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Sebastiano (fig.1).
Prima di descrivere il dipinto accenniamo brevemente all’attività del pittore, attivo sia sul finir del Seicento che nel Settecento, rinviando chi volesse approfondire la sua conoscenza ai nostri scritti(tutti consultabili sul web, digitandone il titolo), partendo da Nicola Malinconico pitture entro il Seicento, proseguendo poi con Nicola Malinconico  un generista da rivalutare, Nicola Malinconico pittore settecentesco ed infine alle pagine a lui dedicate nel Secolo d’oro della pittura napoletana: vol. V, pag. 360, vol. VIII, IX, X, pag. 497 – 498 – 499.
Un allievo di Giordano che raggiunge notevole autonomia e che gli studi recenti del Ravelli e del Pavone hanno messo nella giusta luce è Nicola Malinconico (Napoli 1663-1727), figlio di Andrea, un modesto stanzionesco e fratello di Oronzo, artista di minore talento. 
Nicola fu versato sia nella natura morta che come pittore di Istorie, cui si dedicò maggiormente. Egli seguì il nuovo orientamento giordanesco, tutto giocato sui toni chiari e si avvalse della sua «freschezza di colore, la onde dipinse opere così vive, e belle che da taluno fu stimato il suo colorito più vago di quello dello stesso maestro» (De Dominici).  
La sua biografia viene presentata nelle «Vite» in maniera confusa sia nell’ambito dei discepoli dello Stanzione, tra i quali vi era il padre, sia tra i discepoli del Giordano. Il De Dominici non è tenero con l’artista per via del suo antagonismo con il Solimena ritenuto, giustamente, pittore di prima riga. In seguito altri biografi ne hanno valorizzato l’opera, come il Dalbono, che lo isola, assieme al De Matteis, dal seguito giordanesco per porlo in bella prospettiva. 
Per il suo percorso di generista sono da ricordare il suo apprendistato presso il Belvedere e la sua prima fatica di rilievo, la famosa Natura morta con pavone del museo di Vienna, firmata, che «nella sua esuberanza compositiva, nell’impasto ricco di colore e soprattutto negli sfondi con figure appena accennate e orlate di luce, si rifà direttamente ad una sensibilità per le forme opulente di timbro giordanesco» (Scavizzi).
In seguito la critica, per stringenti affinità stilistiche, gli ha associato altre tele come le due della Walters Art Gallery di Baltimora ed un Giardino con fiori ed un putto pubblicato dal Salerno. 
Lasciati i frutti, il Malinconico si impegnò nelle grandi composizioni dal respiro giordanesco e le sue tele più antiche furono eseguite a Montecassino in collaborazione con il Giordano, il quale ebbe poi una serie di importanti committenze da svolgere nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Bergamo dove, dopo aver spedito da Napoli la grande tela Passaggio del mar Rosso, non potendo raccogliere l’invito ad eseguire un vasto ciclo di decorazioni, lasciò tutti i lavori all’allievo prediletto, il quale continuò a lungo anche sulla base di disegni del maestro.
Dopo la partenza del Giordano per la Spagna, il Malinconico assunse un ruolo fondamentale non solo nella divulgazione del verbo del maestro, ma anche nella diffusione in ambito meridionale delle novità emerse dagli esempi del Solimena, con il quale sorse un certo antagonismo, sia nei lavori nella chiesa di Donnalbina, eseguiti tra il 1699 ed il 1702, sia in quelli eseguiti in San Benedetto a Chiaia, dove nel 1709 subentra al fratello Orazio da poco scomparso e realizza una Crocifissione ed una Visione di San Benedetto.
Passiamo ora all’esame della tela della parrocchiale di Avella, nella quale i riferimenti ad altri lavori dell’artista sono evidenti, per cui l’opera va collocata cronologicamente negli ultimi anni della sua attività.
Puntuali raffronti con altre opere del Malinconico sono stati evidenziati da uno studioso locale Carmine Filomeno Accetta, a partire dalla parte superiore della composizione, dove le figure laterali richiamano a viva voce quelle presenti nella Sacra Famiglia della chiesa di San Giuseppe a Chiaia, mentre il volto della Vergine è improntato al modello adottato nell’Adorazione dei pastori conservata in S. Maria la Nova. La figura del San Giuseppe rimanda a quella del Padre eterno nel Sacrificio di Aronne della chiesa di S. Maria delle Grazie a Sorrento, mentre la S. Anna ripropone il prototipo adoperato nel quadro della chiesa di San Giuseppe a Chiaia.
Passando ad esaminare la parte inferiore, possiamo osservare come il profilo del San Giovanni Battista rinvia a quello del Cristo raffigurato nella Certosa di San Martino, inserito in un percorso tipologico culminato nella Cacciata dei mercanti dal tempio della cattedrale di Gallipoli, della quale tempo fa pubblicammo un inedito bozzetto (fig.2) della collezione napoletana di Mario Speranza. I santi Giovanni Evangelista e Sebastiano vanno viceversa confrontati con le figure degli apostoli in ginocchio presenti nell’affresco con l’Assunzione della Vergine conservato nella sacrestia dei SS. Apostoli, realizzato nel 1726.
Possiamo concludere sottolineando come la figura principale della pala: la Vergine, risulta esemplata partendo dai modelli mariani rappresentati nelle tele della chiesa della Croce di Lucca, successivamente rielaborate in immagini relative all’Immacolata.


fig.2


I 40 anni dell’Istituto degli studi filosofici

Gerardo Marotta


A giorni l’Istituto degli studi filosofici compie 40 anni e, in linea con il degrado inarrestabile della città, è in coma, con i libri della biblioteca chiusi da anni in squallidi depositi e le attività culturali ridotte al lumicino. L’unico a resistere, indomabile, nonostante gli 88 anni, è il fondatore l’avvocato Gerardo Marotta. Per favorire la conoscenza del suo nome prestigioso tra i giovani, proponiamo ai lettori il capitolo a lui dedicato nel I volume di Quei napoletani da ricordare, consultabile sul web seguendo questo link.

Con Mirella Barracco, Gerardo Marotta divide la vetta ideale tra i napoletani degni di essere ricordati.
Il ’99 anno emblematico e fatale per i destini di Napoli, lega con un sottile filo ideale i due famosi personaggi: Napoli ’99 è infatti il nome della Fondazione voluta dalla instancabile baronessa, mentre per il Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto di Studi Filosofici, creato dall’avvocato Marotta il ’99 fu testimone di un dramma e da allora reca ancora i segni del lutto e dello sdegno, ma anche le stimmate di una memoria storica e civile che consentì alla nostra città di porsi all’avanguardia in Italia ed in Europa. In questo storico e severo palazzo che fu la dimora della nobile famiglia dei Serra di Cassano, sito nella popolosa via di Monte di Dio a due passi dal teatro Politeama, l’avvocato Gerardo Marotta, e con lui tutta la Napoli che non si arrende al degrado e non si rassegna al mal governo della città, si è rinchiuso idealmente la mattina del 2 agosto del 1799 mentre, tra le urla della plebe inferocita veniva decapitato a Piazza Mercato Gennaro Serra, rampollo della casata, che assieme a pochi altri eroi rappresentava l’ultimo baluardo per la difesa della rivoluzione napoletana travolta da una monarchia arretrata ed incapace di gestire il corso della storia. La forza d’animo, il coraggio e la fede che ha accompagnato i pochi repubblicani fino all’ultimo respiro, ha fatto si che Benedetto Croce abbia sempre circondato questi martiri nei suoi scritti di religiosa venerazione.
Da quel fatidico giorno, il portone principale della nobile dimora che apriva in direzione del palazzo reale è stato chiuso ed è rimasto sbarrato.
La nobile famiglia, che in seguito subì la repressione dei Borbone e la furia devastatrice della teppaglia sanfedista lo sbarrò in segno di lutto perpetuo e di collera verso re Ferdinando IV per cui ordine quella condanna venne eseguita. Dopo quasi duecento anni quel portone restava ancora ermeticamente chiuso e a detta dell’avvocato Marotta, sarebbe ancora rimasto sbarrato a lungo. Forse, in un domani più felice per la nostra città, verrà riaperto per festeggiare la rottura del divario che affligge da anni Napoli, tra una parte della società civile dotta ed istruita ed ansiosa dei destini della città ed una plebe, arrogante ed ignorante, le cui fila si sono allungate a dismisura negli ultimi anni fino a comprendere gran parte di quella borghesia diventata lazzarona che ha smarrito la sua memoria storica ed ha tradito Napoli, scendendo a patteggiamenti, mediazioni, tangenti ed infiltrazioni camorristiche.
Questo avamposto della cultura, questo fortino dell’intelligenza, rimasto, nello sterminato deserto che lo circonda, a difendere il futuro ed il passato di Napoli è stato creato nel 1975, grazie all’ostinazione vincente di questo caparbio avvocato napoletano che nell’opera ha profuso oltre a tutto il suo impegno e la sua testardaggine, anche tutte le sue notevoli ricchezze, comprese quelle della famiglia. L’Istituto è da decenni un punto di riferimento internazionale, impegnato nello studio di quella tradizione di pensiero che sorto nella Magna Grecia si è diffuso in tutta Europa permeandone la civiltà nei secoli seguenti; esso si interessa inoltre di studi di filosofia e storiografia antica e medioevale fino al pensiero scientifico e filosofico del Seicento e del Settecento.
L’avvocato Marotta ha più volte inviato degli appelli pubblici, ai quali l’Istituto con la sua autorevole fama ha fatto da supporto e ne ha permesso la diffusione come una cassa di risonanza, sull’importanza degli studi filosofici nel mondo moderno.
La più valida proposta degli ultimi anni è stata quella di istituire un organismo internazionale che comprenda i massimi esperti delle varie discipline scientifiche con funzioni consultive verso i governi.
«È urgente che la filosofia e le scienze riscoprano i loro motivi più profondi. Occorre uno spirito aperto, la volontà di definire gli stessi linguaggi entro una circolazione di idee amplissime, che non formi confini se non quelli del sapere umano. Potranno i governanti essere illuminati solo dalla ragione e dalle conoscenze di chi è abituato alla ricerca della verità».
E corriamo ora indietro nel tempo fino al 1927 anno in cui il piccolo Gerardo nasce in una austera casa di vico Campane a Donnalbina nel centro storico di Napoli per trasferirsi dopo pochi anni al Vomero nei pressi del liceo Sannazzaro che frequenterà da ragazzo.
Il padre Egidio è avvocato capo della Provincia di Napoli, il nonno, da cui prende il nome, di origini lucane è un infaticabile studioso, mentre lo zio è un illustre clinico allievo di Cardarelli e direttore della rivista di clinica medica. Gerardo è il primogenito seguito da altri due fratelli e una sorella. La sua infanzia e la sua adolescenza trascorrono nello studio praticato con una grande dedizione. Uniche distrazioni permesse: qualche partita a pallone o qualche puntata al mare.
La letteratura e la filosofia; il diritto e la storia sono le sue materie preferite. Durante l’adolescenza fu attratto, come tanti altri giovani, dalla figura carismatica di Benedetto Croce, che splendeva all’epoca di una luce abbagliante nel panorama culturale napoletano e da ciò crebbe l’ansia di terminare al più presto gli studi liceali e conseguita la maturità potersi iscrivere alla facoltà di Giurisprudenza affascinato dai molti risvolti di questa facoltà.
Negli anni dell’università fece parte di quei giovani studiosi, che stretti intorno alla figura di Benedetto Croce, frequentavano assiduamente l’Istituto Italiano per gli Studi Storici fondato dal filosofo, inoltre fu più volte eletto negli organismi rappresentativi dell’ateneo e per alcuni anni fu presidente del fronte democratico universitario.
Egli pur dividendo le ore della sua giornata tra la frequenza dei corsi, lo studio casalingo e la biblioteca, trovava il tempo per organizzare importanti seminari.
Egli fondò l’associazione «Cultura Nuova» assieme ad alcuni colleghi universitari che divennero in seguito celebri nelle loro branche da Luigi Compagnone a Corrado Alvaro, da Vittorio Viviani a Domenico Rea, da Luigi Incoronato a Roberto Pane, da Vasco Pratolini al geniale Renato Caccioppoli.
Tale associazione ebbe il merito di far conoscere nell’ambito della cultura napoletana poeti del calibro di Pablo Neruda, personalità della letteratura come Natalino Sapegno, artisti come Renato Guttuso, che poté esporre per la prima volta a Napoli e lo scultore Augusto Perez che cominciò a farsi conoscere in mostre collettive che ebbero grosso clamore. L’attività dell’associazione «Cultura Nuova» fu molto feconda e risvegliò su di essa l’attenzione della stampa che dedicava molto spazio alle varie manifestazioni; ma a volte veniva anche osteggiata quando ad alcune conferenze venivano invitati intellettuali notoriamente di sinistra.
Il quel periodo il conformismo era imperante e talune volte fu vietato l’accesso nell’ateneo a noti studiosi come il prof. Crisafulli, la cui conferenza sulla Costituzione italiana, il giovane Marotta fu costretto a dirottare nella meno accademica palestra del CUS. Ad alcuni studiosi fu comminata una censura.
Erano anni difficili per l'ateneo napoletano che fu anche chiuso più di una volta a seguito di gravi incidenti esplosi tra gli studenti e la polizia; erano però anche anni in cui personaggi di spicco della cultura come Luigi Cosenza rappresentavano un punto di riferimento per un folto movimento giovanile, incoraggiato da docenti illuminati come Adolfo Omodeo, Renato Caccioppoli e Giuseppe Montalenti.
Tale fremito di entusiasmo culturale culminò nella fondazione dell’Istituto Italiano di Studi Storici, il quale fermento voluto da Croce permise di riunire in un gruppo omogeneo le figure più rappresentative della «intellighenzia» da Federico Chabod a Giovanni Pugliese Carratelli. In questo Istituto Gerardo Marotta ha trascorso gli anni più entusiasmanti della giovinezza e come lui tutta una generazione di studiosi che correvano ad assistere alle lezioni ed ai seminari attratti dalla luminosa figura del filosofo abruzzese, sempre pronto al consiglio e disponibile al contatto umano.
Completati gli studi e conseguita la laurea in Giurisprudenza discutendo brillantemente una tesi in filosofia del diritto: «Il concetto dello Stato nella sinistra hegeliana», Gerardo Marotta continua per qualche anno ancora a seguire con grande trasporto i dibattiti ideologici che fervono nella nostra città fino alla morte di Benedetto Croce, dopo di che nella cultura giovanile napoletana si apre un periodo di crisi e di sfiducia che spinge molti giovani a chiudersi nelle proprie professioni.
Per circa venti anni a partire dal 1953 il giovane avvocato Marotta tralascia la partecipazione attiva alla vita culturale cittadina e si dedica intensamente alla pratica professionale, esercitando nel campo civilistico ed amministrativistico nello studio di famiglia assieme al fratello Lucio ed al cugino Giorgio Scala.
Si sposa con Emilia Mancuso, professoressa di letteratura francese e vede crescere la sua famiglia con la nascita di Valeria, Barbara e Massimiliano.
Nel frattempo ha modo di dedicarsi al suo amore più grande: la catalogazione ed il potenziamento della sua biblioteca, che cresce ogni giorno di più fino ad occupare ogni angolo libero della pur grandissima casa di Viale Calascione. A casa sua vi sono le bellissime librerie che furono di Gioacchino Murat, stracolme di volumi amorevolmente selezionati e schedati; una pila di libri, opuscoli e riviste accatastati per ogni angolo della casa, anche in camera da letto, crescono ogni giorno come funghi, creando una barriera sempre più alta alla luce del sole ed impedendo, quasi completamente, la vista dello splendido panorama.
Un totale di circa 120.000 libri che fanno di quella di Gerardo Marotta la più ricca e completa biblioteca privata d’Italia; donata negli anni successivi all’Istituto degli Studi Filosofici per renderla accessibile a tutti gli studiosi.
Nel rapporto di amore tra Gerardo e la sua biblioteca credo di intravedere l’aspirazione di onniscienza che si impossessa di ogni studioso che mira ad una conoscenza globale ed universale (la qual cosa è possibile?).
La brevità della vita umana e le limitate risorse di tempo e di apprendimento, costituiscono come una intollerabile catena che ostacola la volontà di conoscenza dell’uomo, il quale se può, tenta di sublimare attraverso il possesso fisico di tanti libri la sua insaziabile ansia di conoscenza.
Novello Ulisse, Gerardo, io ritengo, ha in tanti anni accumulato tanti libri e riviste con la folle speranza di poterli tutti leggere e studiare.
Un’altra lodevole iniziativa dell’avvocato fu quella di creare assieme all’amico Francesco del Franco una casa editrice specializzata, Bibliopolis, la quale si interessa in modo esclusivo della pubblicazione di libri di alto valore scientifico e letterario ed in particolare cura le riedizioni dei grandi pensatori medioevali e stampa gli atti dei numerosi convegni che si svolgono presso l’Istituto di Monte di Dio.
Nel 1975, dopo tanti anni trascorsi unicamente nell’esercizio della professione e nella cura della biblioteca, il sacro fuoco dell’organizzazione delle attività culturali si impossessò di nuovo di Marotta, il quale, assieme agli amici più cari e più prestigiosi volle creare un punto di riferimento per gli studiosi, che potesse custodire, come nel passato il cenacolo intorno a Benedetto Croce, un approdo sicuro per le giovani generazioni desiderose di arricchirsi spiritualmente, in un periodo di sfrenato consumismo in cui tutti sembrano interessati unicamente alla carriera, al successo personale ed al possesso di beni materiali.
Personaggi come Elena Croce, figliola del filosofo, Enrico Cerulli presidente dell’Accademia dei Lincei, Giovanni Pugliese Carratelli, direttore dell’Istituto crociano e Pietro Piovani, notissimo intellettuale, gli furono vicini nell’attuazione della sua idea, decisi quanto lui a «resistere» ed a non voler restare indifferenti di fronte al degrado e allo sfascio di Napoli, una grande capitale del passato, che da tempo ha smarrito il suo ruolo e la sua memoria storica.
Le difficoltà incontrate all’inizio furono notevoli in una città come Napoli ormai usurpata e conquistata dalle forze neofeudali. Una città nella quale da tempo gli intellettuali hanno abbassato la guardia ed in cui il mal costume politico, la camorra e la droga devono essere combattute con tutti i mezzi a disposizione.
L’Istituto fondato con una solenne cerimonia svoltasi a Roma presso l’Accademia dei Lincei ha svolto la sua attività inizialmente presso la casa di Marotta, per poi trovare nel 1983 una sede prestigiosa nel monumentale palazzo Serra di Cassano nella storica via del Monte di Dio. Da allora svolge instancabilmente, sotto l’amorevole attenzione e direzione dell’avvocato e con la collaborazione del fedele professor Gargano, la sua opera di esaltazione dei valori della cultura e della sollecitudine morale per il bene pubblico, cercando di forgiare le nuove generazioni di studiosi affinché essi portino in tutto il mondo l’immagine di una Italia, grande paese europeo, con alle spalle grandi tradizioni artistiche, culturali e morali. Si cerca disperatamente di far conoscere alle nuove generazioni lo spirito pubblico che animò la borghesia napoletana schiacciata dalla reazione borbonica e sanfedista del 1799 e non più risorta.
Il grande portone del palazzo Serra di Cassano, sbarrato da circa due secoli, doveva essere riaperto soltanto il giorno in cui grazie ai quotidiani insegnamenti dell’Istituto del benemerito avvocato Marotta, ci si avvicinerà al grande sogno del saggio Platone, quando cioè gli uomini di governo saranno divenuti filosofi ed i filosofi saranno divenuti uomini di governo.
Incautamente al periodo del fantomatico Rinascimento napoletano l’avvocato acconsentì alla riapertura del mitico portone, credendo che un nuovo luminoso futuro si presentasse per Napoli ed i napoletani. Mai errore fu più clamoroso. Da allora la nostra sventurata città è precipitata sempre più in basso, battendo tutti i record negativi. Ma non bisogna demordere, fino a quando uomini come Gerardo Marotta continueranno a combattere in trincea la speranza di un domani migliore ha motivo di essere coltivata.
Una civiltà muore inesorabilmente quando tutti si arrendono e perdono il gusto di lottare contro la barbarie della violenza e dell’ignoranza, trovando vano conforto nell’inutile gioco delle carte, unico passatempo della decadente borghesia napoletana.

lunedì 13 aprile 2015

Un nuovo, vecchio…, libro su Achille Lauro

Una riedizione criptata del celebre Achille Lauro superstar 



Continuano ad uscire volumi sul famigerato Comandante: mentre per giugno è atteso, edito da Mondadori,  il romanzo scritto dal nipote Achille Lauro junior, Corrado Ferlaino e Toni Iavarone hanno presentato il loro racconto delle gesta e degli amori del sindaco plebiscitario, nonché più grande armatore di tutti i tempi, favoriti da un battage pubblicitario imponente, con il Mattino che ha dedicato in tre occasioni una intera pagina ed il Tg3 che ha annunciato in pompa magna più volte l’avvenimento. 
Naturalmente per chi come il sottoscritto da anni si batte per una rivisitazione critica del personaggio, la cui storia per decenni  è stata falsificata dai mass media, è felice per l’attenzione dell’opinione pubblica sull’argomento, che potrebbe più degnamente essere divulgato attraverso un film o meglio ancora una fiction.
Si rimane però turbati, non tanto per l’assenza di una bibliografia, quanto per la circostanza che il libro di cui parliamo: Achille Lauro il Comandante tradito (edizioni Minerva), diffuso in tutte le edicole, sia per un 20 – 30 % integralmente copiato dal celebre Achille Lauro SUPERSTAR, come può accertarsi il lettore, essendo questo testo da 15 anni presente in rete, dove può essere consultato digitandone il titolo.
Vogliamo sottolineare infine come nel libro sia trascurata la discussione sulla vexata questio del “sacco edilizio”, mentre ampio spazio viene dedicato al calcio ed alla squadra del Napoli, della quale Lauro fu per decenni presidente, seguito poi da uno degli autori: Corrado Ferlaino, che finalmente portò in città lo scudetto, doveroso omaggio ad una tifoseria calorosa ed appassionata.
Vi è poi descritta una storia segreta d’amore del Comandante, sconosciuta agli stessi addetti ai lavori, un nuovo tassello alla serie sterminata di conquiste femminili di Achille Lauro, famoso perché, ottantenne, libava a Venere tre volte al giorno.
L’ultimo capitolo è dedicato ad un paragone tra Lauro e Berlusconi, definito nella prefazione di Achille Lauro superstar, un clone del Comandante, motivo per cui all’epoca la Mondadori si rifiutò di pubblicare il libro, che venne edito da Guida.

300.000 Fujentes festeggiano la Madonna dell'Arco



Per fare una sortita nel medioevo o ancora più indietro all’epoca della colonizzazione della Magna Grecia non è necessaria alcuna mirabolante macchina del tempo, basta recarsi il lunedì in Albis a Sant’Anastasia al santuario della Madonna dell’Arco ed assistere al rito dei Fujentes, una tradizione che sfida i secoli, un rito collettivo tra furore e superstizione, che sopravvive imperterrito alle sirene della modernizzazione.
A due passi dalle fabbriche di auto e di componenti aerospaziali per la Nasa, una moltitudine di pellegrini di tutte le età provenienti da ogni angolo della Campania accorre vestita di bianco, a piedi scalzi e sventolando variopinti stendardi tappezzati di banconote. 
Una imprevedibile umanità che vive fuori dalla logica e dalla storia celebra ogni anno imperterrita un rito pasquale contaminato dalle antiche festività pagane, una resurrezione di Cristo, che si coniuga con il rifiorire della natura e delle messi. Quasi duecentomila persone si mettono in moto all’alba e corrono per ore fino a raggiungere l’immagine della Madonna conservata nel celebre santuario, costruito sulle fondamenta di un antico tempio pagano, per sfruttarne imperscrutabili linee di forza, un segreto tenuto gelosamente celato dagli antichi costruttori.
Al canto di nenie mielose e ritmiche litanie, che ricordano la melopea fenice ed araba, ingagliardite da uno squassante rullio di tamburi, i pellegrini arrivano alla meta esausti, moltissimi in trance, alcuni strisciando con la lingua a terra, quindi, dopo l’adorazione, cominciano con rinnovato vigore la via del ritorno, intervallando il percorso con soste dedicate a vorticanti tarantelle ed estenuanti tammurriate.
Il rito è uno stupefacente fossile vivente di antichi culti praticati su lontane sponde di quello che fu il Mare nostrum, dalla Grecia al nord Africa, fino alla lontana Andalusia. 
Dall’alba al tramonto è una marea incontenibile di arcaiche energie sopite che esplodono all’improvviso tra pianti, preghiere, implorazioni disperate e voci assordanti, che rimembrano il richiamo del muezzin e le tradizionali grida dei venditori ambulanti.
A questa folla dolente ed esaltata negli ultimi anni si sono affiancati migliaia di nuovi arrivati: filippini, polacchi, latino americani e tantissimi rom, a tangibile dimostrazione della capacità delle antiche tradizioni di calamitare sorprendentemente sempre nuovi devoti.
Questi originali pellegrini chiedono spesso una grazia alla Madonna e sono prodighi di ex voto, un fiume in piena conservato nella chiesa dal Cinquecento ad oggi. Spesso si richiede la fertilità, come reclamavano le fanciulle sterili che si affollavano ai piedi della dea Cibele o nei secoli successivi baciavano ardentemente il pesce di Nicolò, ma negli ultimi anni, segno dei tempi mutati, si implora sempre più spesso di liberarsi dal flagello della droga, una nuova esigenza testimoniata dalle numerose siringhe d’argento appese in bacheca tra gli ex voto, come se un sottile filo volesse collegare nell’immaginario popolare le austere Matres matutae, oggi visibili nel museo di Capua alle coraggiose madri dolorose presenti nelle squallide periferie dove la vita è lotta e molti vengono travolti.

mercoledì 8 aprile 2015

CULTURA NAPOLETANA


 A lezione di vernacolo




A che munno è munno: Letteralmente da che mondo è mondo. E' una locuzione temporale che si ritrova sempre quando, di fronte a certe situazioni, ci porgiamo con una certa rassegnazione, le cose sono sempre state così e così devono andare.
Quando la cattiva sorte si accanisce contro una persona, si usa dire tene "a ciorta e cazzette" cazzette dovrebbe, la cosa non è sicura, riferita ad un pene piccolo , che serve solo per urinare e nient'altro. La tesi da me proposto è avvalorata dal fatto, che in molti casi il detto viene proposto in un 'altra versione:a ciorta e cazzette jette a fa pipi' e se ne carette.
Aggio truvato 'o vangelo avutato: Ad litteram: arrivare a vangelo voltato cioè gia' letto, quindi la messa non è valida. Un tempo quando ancora la S. Messa era celebrata in latino, il messale per la celebrazione della liturgia era collocato a destra del celebrante; dopo la lettura dell'epistola il chierichetto provvedeva a spostarlo sulla sinistra , posizionandolo per la lectio del vangelo; questo spostamento popolarescamente era detto: s'è avutato 'o vangelo (si è girato il vangelo) volendo dire che chi si fosse recato ad assistere alla celebrazione della Messa quando il messale si fosse trovato sulla sn. del celebrante, vi giungeva troppo tardi, quasi fuori tempo massimo e non assolveva al precetto domenicale; per traslato ed estensivamente la locuzione è usata proprio per indicare che qualsiasi cosa la si stia facendo o la si sia fatta fuori tempo massimo è stata fatta inutilmente e va quindi rifatta. L'espressione si usa anche quando ci troviamo di fronte a delle situazioni diverse a quanto concordato in precedenza.
FÀ ‘O RRE CUMMANNA A SCOPPOLE la si usa in famiglia quando ci si trova al cospetto di qualcuno, quasi sempre il fratello maggiore , che usa cpmportarsi come un re che comanda(assestando) scappellotti. La scoppola è uno schiaffo dato a mano aperta sulla nuca , che fa saltare la coppola che si ha in testa.
Farse 'a croce a mana smerza.Ad litteram: farsi la croce con la mano sinistra .E' una espressione che si usa per sottolineare e/o commentare situazioni che sbalordiscono o stupiscono talmente da indurci a farci la croce con la mano sbagliata.
Arrasso sia: Lontano sia, non sia mai. Il Bracale e noi concordiamo, etimologicamente fa derivare quell'arrasso dall’arabo arah/arasa = lontano, aggettivo cui è aggiunto il congiuntivo ottativo sia.
A via e vascio è un'altra locuzione che usiamo spesso , che sta per indicare una persona che non è in casa
sta a via e vascio, o che si invita ad andare via , vattenne a via e vascio (di solito è la madre che si rivolge al figlio che sta per casa 'int 'e piere e non le fa compiere i mestieri di casa)
Caccià ‘e ccarte.No, non è come pensate, qui non si tratta di carte da gioco, ma di documenti.Si tratta, iinfatti, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.
C' allucca a ffa?:Espressione usata per redimere il tono di una persona che, senza vere motivazioni, alza la voce anche il proposito di far sentire. Il verbo alluccare deriva dal latino ad loquor e vuol dire parlare in pubblico.
Fatte accattà 'a chi nun te sape! Ad litteram: lasciati comprare da chi non ti conosce. E' l'espressione che la madre o il padre rivolge al figlio che in qualche modo vuole circuirli o ingannarli, usando toni convincenti. L'invito vuol significare: rivolgi altrove le tue mire; io so bene con chi sto contrattando.
Chi c 'ha cecate?ad litteram "chi ci ha accecati".Si usa quale imprecazione contro se stessi per aver fatto qualcosa che ha arrecato a se stesso danno.
Coppa coppa: è una locuzione usata spesso anche dall'amico Lucio Musto , e si usa quando si compie un'azione molto superficiale. Di solito le massaie quando fanno le pulizie di casa in tutta fretta usano dire:"aggio fatta 'na cosa coppa coppa". L'espressione viene anche usata per indicare un atto sessuale non completo, un petting , insomma.
Dio 'o ssape e 'a Maronna 'o vvede locuzione che si usa per dire di una cosa di difficile risoluzione, per cui sarebbe necessario che non ci fossero altri impedimenti.
E si si cazzo:si usa per dire questa cosa non la faro' mai , o ancora vediamo un po se sei capace di fare .
'A capa nun s'à dda fà maje male paté! (La testa non va fatta mai patire ) bisogna sempre assecondare le proprie inclinazioni, dando libero corso alle proprie idee.
Fà 'o paro e 'o sparo...(fare a pari e dispari) indica i continui tentennamenti, le continue indecisioni di chi non sa assumersi mai una responsabilita'.
Jamme bbelle ja' è un imperativo e sta per indicare " diamoci una smossa, non poltriamo".
Maie pe cumanno"Mai per comando"Si usa questo modo di dire quando si chiede
un favore e/o di espletare un azione da realizzarsi nell immediato. In effetti sempre di un comando si tratta, ma con l'espressione lo si addolcisce....
Fà carne 'e puorco.Ad litteram: far carne di porco.Trarre il massimo del profitto, lucrare oltre il lecito o consentito, come chi si servisse della carne di maiale del quale, è noto, non si butta via nulla.
L'espressione si usa anche per indicare le azioni di una donna di facili costumi :" se se chella na fatte carne e puorco"
Tené ‘o pere a ll’everatenere o avere il piede all’erba nel significato di avere l’occasione adatta.Qualcuno asserisce che ’esatta espressione napoletana che la illustra sarebbe : tené o avé ‘o piere ‘a llepera" tenere o avere il piede da lepre"cioè un piede veloce , noi invece siamo del parere che l'espressione tene' o pede all'evera sia piu'esatta , poichè sta a significare che il piede scalzo si trovi molto piu' a suo agio nell'erba che su di un ciottolato.
Se se belli cazzi:è un'espressione molto colorita e sta a significare :"quello che va bene per te non va bene per me"pircio' 'o frate tuoio nun se ne fa niente!
Ditto 'nfatto:ad litteram "detto fatto"sta ad indicare come come l' azione addirittura preceda il pensiero.
piglia' ncoppo o fatto:essere colti in flagrante. Era la tipica espressione di mia madre quando mi acchiappava a prendere le monete dal suo borsellino.
Stammo all'evera:siamo al verde, siamo in miseria.Il verde non era solo quello dell'erba , era anche il colore delle delle basi delle candele che si usavano per le aste pubbliche. Quando la candela si era consumata ed era arrivata al verde l'asta era finita.Secondo un’altra teoria, l’espressione deriverebbe da un’usanza medievale che prevedeva l’accensione di una lanterna verde quando era pronto il cibo per una speciale categoria di poveri, i “vergognosi”, coloro cioè che non erano nati poveri ma che lo erano diventati e che per questo motivo non si adattavano alla questua “normale”. Questa usanza permetteva loro di entrare nell’ente caritatevole in silenzio, senza bussare, con minori probabilità di essere visti.
Solamente i poveri non avevano i soldi per comperare una candela nuova quando essa era finita, cosicché la utilizzavano fino alla base, che, un tempo, era sempre di color verde.
Altri studi hanno ipotizzato che il modo di dire derivi da un’antica usanza medievale, che consisteva nel far portare un berretto verde ai falliti in segno di pubblico scherno.
A Padova si dà per certa l’origine della frase dalla sala verde dell’antico Caffè Pedrocchi, dove per antica tradizione chiunque può accomodarsi senza consumare.
Altri sostengono che l’espressione sia nata nelle case da gioco. Il giocatore che ha perso tutte le sue fiches quando guarda il punto dove teneva il proprio gruzzoletto vede solo il tavolo da gioco, tradizionalmente verde.
Altra teoria, emiliano romagnola, l’arrivare al verde nella buccia di una cocomero, dopo aver consumato il rosso, raschiare il fondo arrivare alla fine.
A craje a craje comme a' curnacchia si usa per indicare colui che tenta sempre di rimandare il proprio lavoro. Craie nel napoletano come nel pugliese significa domani e viene dal latino cras appunto domani.Biscraje è dopodomani.La cornacchia c'entra solo come verso.
Jì mettenno 'a fune 'e notte: è un'espressione che si usa quando il figlio cerca solo soldi ai genitori , "ma che te cride che vache mettenne a fune ' e notte?" In effetti la locuzione deriva dalla usanza di alcuni malavitosi che nottetempo erano soliti tendere lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente così oggetto di rapina .
ma fatte 'a dinto all'uocchie!:esclamazione con la quale si sottolinea il verificarsi di una azione non vista, nonostante l'attenzione prestata
Se so' rutte 'e tiempe: questa è la classica espressione della madre che vuole che il proprio figlio indossi qualcosa di pesante. La locuzione la si usa anche quando si intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio.
fa 'e riebbete cu 'a vocca: si dice a colui che per abitudine non mantiene le promesse. Un'altra espressione che usava mia madre quando le dicevo "doppo me faccio e scritte".
fa 'o scemo pe' nun jire 'a guerra:ecco un'altra espressione molto usata nelle famiglie napoletane cje si usa quando si finge di non capire per evitare, se fa l'indiano insomma.
franco 'e cerimonie:detto di chi non perde tempo con inutili preamboli e va direttamente al sodo.
Quando cercavo di abbindolare mia nonna adducendo i piu' svariati motivi per spillarle quattrini, mi sentivo sempre rispondere guaglio' io nun so PESCE ‘E CANNUCCIA. Con questa metafora voleva farmi capire che lei non era propensa a credere a tutto quello che io gli propinavo , cioè lei non era come i pescetti che abboccano con facilita' a qualsiasi esca .
levà' 'o sale 'a fronte:questa era la classica espressione che usava mia nonna quando io insistevo per avere qualcosa. Uanema me staie levanne o sale a fronte . Il sale era il sudore e la locuzione vuole appunto significare di non aver più una goccia di sudore da spendere.

venerdì 3 aprile 2015

Tradizioni culinarie pasquali: pastiera e casatiello

articolo di Marina della Ragione


BUONA PASQUA A TUTTI


“Quanto è splendido il digiuno 
Che si adorna dell’amore
Spezza generoso il tuo pane con chi ha fame
Altrimenti il tuo non è digiuno, ma risparmio”

La pastiera è una torta di pasta frolla farcita con un impasto a base di ricotta, zucchero, uova, grano bollito nel latte e aromi che, stando alla ricetta classica, sono: cannella, canditi e scorze d'arancia.
Le massaie napoletane la preparano solitamente il giovedì santo (quando per cena si mangia la zuppa di cozze) o il giorno seguente, anche se è possibile acquistarla in tutte le pasticcerie della città.

La Pastiera e Partenope - C'è una leggenda che lega la pastiera alla sirena più famosa di Napoli. Il dolce proviene infatti dalle usanze pagane e dalle offerte votive della primavera. Probabilmente la leggenda è legata al culto di Cerere, divinità materna della terra e della fertilità, le cui sacerdotesse usavano portare un uovo in processione. L'uovo è infatti, nell'allegoria classica, simbolo di rinascita, poi ereditato dalla tradizione cristiana. E proprio nei conventi dei vari ordini cristiani, come avvenne per la "Santa Rosa" nel convento di Furore, la ricetta fu perfezionata giungendo a noi così come la conosciamo oggi. Particolarmente famosa divenne la pastiera delle suore del convento di San Gregorio Armeno. Tornando al legame tra la pastiera e la sirena, la leggenda vuole che gli abitanti della città decisero un bel giorno di ringraziare la sirena dopo aver ascoltato uno dei suoi dolci e melodiosi canti. Per ringraziarla, sette belle fanciulle furono incaricate di consegnarle doni della natura: farina, ricotta, uova, grano, acqua di fiori d'arancio, spezie e zucchero. La sirena consegnò le offerte agli dei che, rimescolando "divinamente" gli ingredienti, li restituirono sotto forma di pastiera. E come per il Casatiello anche la pastiera trova menzione ne La Gatta Cenerentola di Giambattista Basile, una delle fiabe del Pentamerone.

La ricetta del casatiello è leggermente differente da quella del suo gemello eterozigote, l’altrettanto noto tortano, in quanto quest’ultimoviene consumato regolarmente durante tutto l’anno. Simbolo della Pasqua, invece, il casatiello si ripresenta esclusivamente nella festa dedicata alla resurrezione. Com’è evidente, la data di questa celebrazione cambia ogni anno, ma la sua tradizione culinaria, ben radicata nella nostra società, resta sempre la stessa!
Vi è anche una terza ricetta, quella del casatiello vesuviano, leggermente diversa dal casatiello napoletano di cui sopra parlavamo.
In realtà, casatiello e tortano si distinguono per un’ulteriore caratteristica: l’uso delle uova. Nel casatiello le uova vengono inserite con l’intero guscio a metà tra l’impasto e l’esterno; nel tortano esse, invece, dopo essere state rassodate e sgusciate, sono disposte totalmente all’interno dell’impasto.
Ma perché queste diverse disposizioni? In particolare la forma del casatiello (e dunque anche le modalità d’inserimento delle uova), in questo modo, ne spiega bene il consumo prettamente pasquale: esso è simbolo della corona di spine alla quale fu costretto Gesù; in più le uova sono ricoperte da una croce di pasta, proprio a ricordare il martirio da Lui subito. Per essere più precisi, l’uovo in sé simboleggia proprio la resurrezione di Cristo, che rinasce così come il pulcino allo schiudersi del guscio.
E non solo, ma anche altri componenti hanno un legame particolare con il sacro cristiano ed il profano pagano: ad esempio, il pecorino si ottiene con il latte di pecora, di cui si nutre il piccolo di pecora, ovvero l’ agnello, e l’agnello, prima di essere simbolo della carne del Salvatore, era sacrificato agli dei per i loro rituali pagani.
Questa torta salata prende il nome in prestito dal termine dialettale “formaggio”; tra gli altri, uno degli ingredienti principali di tale prelibatezza. Un rustico antichissimo che si nasconde anche tra le righe di celebri racconti quale “La Gatta Cenerentola” di Giambattista Basile del XVII secolo.
Del casatiello esistono numerose altre varianti non salate, bensì dolci, una particolarmente degna di nota è quella tipica dell’isola di Procida, attorno alla quale ruota un mistero: il mistero degli ingredienti. Ogni famiglia, infatti, possiede una ricetta antica e tradizionale che si tramanda di padre in figlio e non viene rivelata né a parenti né ad amici.

Marina della Ragione

Un museo etrusco presso l’istituto Denza a Posillipo


Aumenta il numero dei musei a Napoli

01 - ingresso istituto Denza

Napoli è città ricca di musei prestigiosi con punte di diamante quali Capodimonte, San Martino ed il museo nazionale archeologico. A questo già vistoso patrimonio si aggiunge ora un piccolo museo etrusco grazie al Padre provinciale dei Barnabiti di Napoli, Pasquale Riillo, circa 800 reperti antichi sono infatti visibili da marzo presso la sede dell’Istituto Denza a Posillipo. Allestito a cura dell’archeologa dottoressa Fiorenza Grasso, il museo ospita reperti che appartengono al periodo collocabile tra l’età del bronzo e l’epoca imperiale e provengono dalla collezione di Leopoldo De Feis, databile verso la seconda metà dell’800, quando il padre barnabita li raccolse con la volontà di dotare il collegio fiorentino barnabita “Alle Querce” di un museo didattico dedicato a questa antica popolazione. Purtroppo per mancanza di fondi il collegio fu chiuso nel 2003 e la collezione fu conservata nei depositi della sede barnabita di Firenze. Dopo un lungo periodo, con il trasferimento a Napoli del padre provinciale dei Barnabiti, oggi i reperti sono esposti al pubblico e fruibili dall’intera città. 
Una straordinaria occasione per conoscere le tracce di un ampio dominio, arrivato fino in Campania. 
L'insediamento etrusco Caudium rappresenta, infatti, una delle più importanti testimonianze degli Etruschi in Campania. Una realtà che coinvolge una vasta area, a partire dalle zone di Montesarchio fino alle terre dell'Agro Picentino dove sorgono Nola, Nocera, Ercolano, Pompei e tante altre importanti città tra le quali Capua, che risulta essere una dei principali capoluoghi etruschi del territorio.
Un prezioso patrimonio storico e culturale che racconta dei Napoletani, della loro storia e delle radici da cui provengono. Una realtà che varrà la pena conoscere. 
Gli Etruschi erano un popolo stanziatosi tra l’alto Lazio e l’attuale Toscana agli albori del VIII secolo a.C. L’Etruria, secondo Strabone, si estendeva sino al salernitano Agro Picentino, dove nacquero le città di Nola, Nocera, Ercolano, Pompei, Marcina, Velcha, Velsu, Irnthi, Uri Hyria, Capua, tra cui quest’ultima era quella egemone.
Vivevano di un’arte propria, senza alcun influsso esterno, e prima dell’arrivo dell’imperialismo romano – la presa di Veio avviene nel 396 a.C. – ci hanno lasciato ceramiche, urne funerarie, pitture, tombe e altre testimonianze della loro cultura.
Ottocentoventicinque reperti, per gli amanti della precisione, che vanno dal 7° al 3° secolo avanti Cristo. Di questi, 250 sono stati ritrovati nella zona di Orvieto e sono proprio d’epoca etrusca. Altri 47, invece, sono reperti di origine sannitica provenienti dalla zona di  Montesarchio. Questi ultimi sono passati per mani di proprietari illustri come la reale famiglia D’Avalos d’Aragona. Coppe e brocche con pregiati mascheroni decorativi con cinghiali e cavalli alati nei tipici colori nero lucente.
Tra i pezzi di maggior pregio l’archeologa Fiorenza Grasso, che si occupa della struttura, cita dei calici con decorazioni a cilindretto e delle brocche con decorazioni a rilievo di stile orientalizzante e ribadisce l’importanza del fatto che gran parte degli oggetti esposti siano in ceramica di bucchero, elemento tipico dell’epoca trattata. La caratteristica di questo materiale, è quella di essere di un nero lucente all’esterno, in superficie, così come mantiene lo stesso colore anche al suo stesso interno, al suo spessore, o in frattura così tecnicamente si indica. Altro pezzo da non perdere è un sarcofago in terracotta databile tra la fine del 3° e l’inizio del 2 secolo avanti Cristo, con una splendida raffigurazione di una figura femminile riccamente ingioiellata.
Il museo è suddiviso in quattro sale che sono state anche attrezzate con appositi pannelli esplicativi e le visite gratuite avvengono tramite prenotazione.
Il primo e più consistente nucleo della collezione comprende reperti delle necropoli etrusche orvietane di Crocifisso del Tufo e della Cannicella, che in quel periodo erano in fase di scavo. Tra i materiali di provenienza orvietana si segnala un gruppo di ceramiche di bucchero decorate a rilievo con soggetti orientalizzanti, ceramica proto corinzia e un’ampia selezione di graffiti etruschi su oggetti di bronzo e ceramica. Di eccezionale livello artistico è il sarcofago in terracotta con immagine muliebre distesa su letto funebre, di cui abbiamo prima accennato.
Il secondo più consistente nucleo della raccolta è esito della donazione della famiglia D’Avalos, feudataria di Montesarchio, città sorta sull’antica Caudium, indagata da sporadiche esplorazione già nel corso del Settecento. I materiali provengono dalle necropoli cittadine del periodo arcaico; sono esemplificative le ceramiche di produzione campana “a figure rosse” e fibule di bronzo di varie tipologie.
Il terzo nucleo più consistente è rappresentato dalle iscrizioni di epoca imperiale donate dal barnabita Luigi Bruzza e provenienti dal territorio romano. Tra gli altri materiali notevoli si indicano: una statuina raffigurante la dea Minerva, dono della famiglia Strozzi, un gruppo di ex voto provenienti dal territorio di Tivoli, un’urna cineraria di vetro e strigili di bronzo.


02 - sarcofago con 2 figure

03 - sarcofago con figura muliebre

04 - una sala con tabelle esplicative

05 - serie di ceramiche a figure rosse

06 - reperti antichi

07 - ceramica a figure rosse

08 - ceramica a figure rosse




Poderosa monografia su Salvator Rosa


Paesaggi, battaglie e stregonerie create da una fertile fantasia

01 - Autoritratto


articolo di Marina della Ragione

La crisi economica e la disaffezione verso i libri rendono sempre più rara l’uscita di monografie sui grandi artisti, per cui dobbiamo salutare con gioia il volume di 685 pagine che Caterina Volpe, docente alla Sapienza e massima esperta di Salvator Rosa, ha dedicato al pittore napoletano.
Particolarmente affascinante è la parte dedicata ad uno dei periodi più neri della storia europea, gli anni in cui divampò la caccia alle streghe, che Rosa dipinge vecchie e seminude, mentre ballano con le loro tette pendule, tenendo in mano torce e scope, clessidre ed ossa che bruciano come fiaccole e sullo sfondo si agitano bestie da incubo.
Centinaia sono le pagine dedicate a due delle specialità del pittore: paesaggio e battaglie ed alla fine il lettore avrà percorso una galleria del barocco maturo tra Napoli, Roma e Firenze ed avrà conosciuto un artista in grado di interpretare i miti, i simboli e gli incubi del suo tempo.
Tra gli allievi di Ribera è Salvator Rosa, il quale entra nella sua bottega grazie all’interessamento del cognato Francesco Fracanzano, passerà poi in quella di un altro ex allievo Aniello Falcone, quando questi diventa autonomo e vi rimarrà per tre anni.
Dal Ribera egli eredita il vezzo per i tipi volgari, l’amore per le espressioni tragiche e la gioia nel rappresentare le sofferenze umane, mentre dal Falcone recepisce la simpatia per la macchietta e la grande abilità nel dipingere le battaglie.
Presto lascerà Napoli, che rimarrà sempre nel suo cuore e conserverà il suo spirito partenopeo e la sua vena naturalistica, anche quando divenne una delle maggiori personalità del Seicento italiano e l’eco della sua fama percorse fino al Settecento tutta l’Europa.
Nel 1635 si trasferisce a Roma dove ha contatti con l’ambiente dei  Bamboccianti, con Claude Lorrain e Nicolas Poussin e comincia a cogliere del paesaggio il suo aspetto pittoresco. Di questo periodo sono l’Erminia e Tancredi e la Veduta di una baia conservati nella Galleria estense di Modena e l’Incredulità di San Tommaso del museo civico di Viterbo.
Costretto a fuggire da Roma per le sue pungenti recite satiriche sotto la maschera napoletana di Pascariello Formica, nel 1640 il Rosa si rifugiò a Firenze sotto la protezione del cardinale De Medici, in un ambiente culturale di scienziati e letterati nel quale si rinfocolarono le sue ambizioni di umanista e filosofo stoico. Scrive le sue Satire  e viene influenzato da artisti come Jacques Callot e Filippo Napoletano. Il paesaggio naturale, spoglio,  selvaggio e carico di mistero, diventa scenario per la rappresentazione idealizzata di episodi della vita di grandi filosofi e di grandi personaggi storici, come nel Cincinnato chiamato alla fattoria e nell’Alessandro e Diogene, entrambi nella prestigiosa collezione Spencer ad Althorp o nella Selva dei filosofi conservata a Firenze a Palazzo Pitti.
Contemporaneamente dipinge grandiose scene di battaglie che nella loro  monumentalità si risolvono anche esse in solenni rappresentazioni ideali. Uno spirito epico anima le sue tele come una fiamma, una torrida febbre percorre le sue composizioni di grandi dimensioni, dotate di un ricco paesaggio con città sullo sfondo, ruderi di templi ed edifici lontani che smorzano in parte la tragicità delle scene. Nelle mischie furibonde si riesce a cogliere il senso di un dramma cosmico come quello della guerra.
Negli ultimi anni del suo soggiorno fiorentino i suoi interessi artistici si allargano ai temi esoterici della magia e della stregoneria, infatuato dalla cultura magico filosofica di Giovan Battista Della Porta, ricordiamo Streghe ed incantesimi, eseguito nel 1646, alla National Gallery, mentre la sua pittura sempre più scura nei toni si concentra sulla rappresentazione allegorica di temi morali ed idee filosofiche come nella Fortuna conservata al Paul Getty museum di Malibu.
Animo estroso e bizzoso il Rosa fu pittore e disegnatore, incisore e poeta, letterato e polemista, teatrante ed erudito, un personaggio veramente complesso, dal temperamento vivace ed animoso, insofferente della società del suo tempo, sdegnoso del volere dei committenti, ma nello stesso tempo ansioso di essere ammirato.
Tornato a Roma nel 1649 è ambito da facoltosi committenti ed è richiesto dalle maggiori corti europee principalmente per i suoi paesaggi, spesso animati da vivaci figurine ed imitati fino alla fine del Settecento. Lo scenario è spesso quello del sud con le sue rocce ed i suoi panorami aspri e severi, resi con una certa dose di libertà espressiva e di fantasia, che non permette mai di identificare con precisione i luoghi rappresentati. Il fogliame è reso con grande accuratezza e spesso sono presenti le caratteristiche torri di avvistamento presenti in tutte le nostre coste flagellate dalle incursioni dei saraceni. Le figure dei contadini sono riprese nell’atto di animare la conversazione con una gestualità tipica delle popolazioni meridionali. La scelta dei colori cupi ed ombrosi è una costante della paesaggistica rosiana che tende a rappresentare le sue scene al tramonto, per rendere l’atmosfera più raccolta e più intimo il discorrere dei personaggi.
Oltre al paesaggio si dedicò a dipinti di soggetto filosofico e mitologico come l’Humana fragilitas del Fitzwilliam museum di Cambridge e lo Spirito di Samuele evocato davanti a Saul acquistato da Luigi XIV ed oggi al Louvre. Negli ultimi anni della sua attività ritornò al paesaggio, dipingendo una natura spoglia e solitaria come gli eremiti ed i filosofi che l’abitavano.
La maggior parte dei dipinti di Salvator Rosa è conservata dal Settecento in Inghilterra, dove  la sua fama giunse all’apice grazie ad una biografia romanzata scritta nel 1824 da una fervente ammiratrice dell’artista Lady Morgan. Oltre manica egli fu apprezzato più che in Italia e molti videro in lui un precursore di Byron e del romantico ultra pittoresco. L’influsso del pittore italiano sugli artisti inglesi e sulla pittura olandese di paesaggio fu molto grande ed il paesaggio alla Salvator Rosa fu diffuso per molti anni dopo la sua morte grazie ad una serie di epigoni ed imitatori ed acquistò il carattere distintivo di un genere.
L’artista come è noto non ebbe allievi diretti, ma si servì soltanto di aiuti che sbozzavano le sue tele. Il De Dominici indica alcuni nomi come seguaci, mentre il grande successo dell’artista giunse fino al secolo successivo con un corteo di imitatori a volte anche molto modesti.
Notevole fu anche la sua attività di incisore attraverso la quale diffondeva le sue opere e di disegnatore, la cui abilità si apprezza anche per la precisione dei suoi schemi compositivi.
Oggi la critica, pur se ha in parte ridimensionato la figura artistica di Salvator Rosa, comunque gli riserva una posizione significativa nel panorama figurativo non solo italiano ma europeo.

Marina della Ragione

02 - Ritratto della moglie Lucrezia

03 - Il golfo di Salerno

04 - Baia con rovine

05 - Paesaggio con fiume ed Apollo

06 - Battaglia eroica

07 - Battaglia col ponte

08 - La Strega

09 - Le tentazioni di S. Antonio

010 - L'ombra di Samuele appare a Saul

011 - Streghe ed incantesimi