venerdì 22 maggio 2015

Paolo De Matteis opera completa






Finalmente una monografia, illustrata da oltre 300 foto, la maggioranza a colori, dedicata ad uno dei protagonisti della pittura napoletana.
L’allievo più importante partorito dalla costola del Giordano è Paolo De Matteis, che seppe evolvere il Barocco del suo maestro in una lieta e diafana visione, arcadica e classicistica; a lui il De Dominici, riconoscendone la statura, dedicò una trattazione a parte nelle sue celebri “Vite”.
La critica negli ultimi decenni ne ha scandagliato più a fondo lo stile e la personalità e l’artista oramai è emerso come il più esemplare precorritore dei tempi moderni e come il più significativo battistrada della nuova pittura napoletana prima dello scadere del secolo.
Oggi il De Matteis occupa un posto di primo piano nel panorama delle arti figurative partenopee di fine secolo ed ha superato in bellezza il giudizio poco lusinghiero che ebbe nei suoi riguardi la Lorenzetti, la quale, nello stilare il catalogo della mostra su tre secoli di pittura napoletana nel 1938, lo definì stanco ripetitore dei modi del Giordano ed emulo impari del Solimena.
Gli studi più recenti collocano la sua figura in maniera originale ed indipendente a confronto dei due «campioni» della cultura figurativa napoletana tra Seicento e Settecento; anzi, riguardo ai suoi rapporti col Solimena, gli studiosi riconoscono unanimemente che il De Matteis con grande anticipo avviò un discorso di classicizzazione dell’esperienza barocca. Il Solimena infatti accrebbe, con lo studio dei modi pittorici del De Matteis, l’interesse verso quei canoni proposti dal Maratta, cui aveva spiritualmente già aderito, attraverso la frequentazione di circoli letterari napoletani fautori di un neopetrarchismo.


Citiamo i capitoli in cui è diviso il nuovo libro di Achille della Ragione, ricordando che lo si può ordinare presso

  • La vita, le opere, la fortuna critica
  • I dipinti per le chiese napoletane
  • L’ostentazione del nudo nei dipinti mitologici
  • Committenza ecclesiastica fuori Napoli
  • Capolavori, inediti ed opere minori
  • La grafica
  • Documenti
  • Bibliografia
  • Indice delle figure
  • Indice delle tavole



Alfeo ed Aretusa  - Castellammare di Stabia collezione Varone

  Aurora e trionfo di Apollo sul carro del sole  - Pommersfelden collezione Conte von Schonborn

Allegoria per la pace di Rastatt e Utrecht- Houston, Sarah Campbell Blaffer Foundation

Trionfo di Ercole - Lancaster (California) collezione K.R. Mc Donald

Annunciazione - documentato 1712 -   Saint Louise Art museum 1712

Allegoria della prosperitá e delle arti nella cittá di Napoli - Napoli, Museo di San Martino, giá collezione Gian Carlo Alisio

giovedì 14 maggio 2015

Arte lombarda dai Visconti agli Sforza

Milano al centro dell’Europa

12- La pala sforzesca


articolo di Elvira Brunetti

Nella splendida cornice dell’Expo 2015 non poteva mancare il valido sostegno alla storia di Milano e alla sua centralità nella cultura europea, offerto dalla mostra in itinere fino al 28 giugno: “Arte lombarda dai Visconti agli Sforza”.
Già nel 1958, sempre nella stessa sede di Palazzo Reale, Roberto Longhi aveva fortemente incoraggiato la prima esposizione, di cui l’attuale è un ritorno, sull’arte lombarda del tardo Medioevo e del Rinascimento.
Quello fu il momento della nascita di una riflessione, che continua ancora oggi grazie al ritorno del tema sull’importanza e sul contributo specifico del Ducato di Milano alla fioritura della cultura artistica moderna.
Basti pensare alla magnificenza della fabbrica del Duomo che non ha pari nelle altre corti dell’epoca per avere un’idea del livello artistico raggiunto dal potere di Gian Galeazzo Visconti.
Le singole sezioni della mostra si aprono con brevi ma sufficienti introduzioni storico artistiche che permettono di seguire i vari sviluppi e le varie influenze.
Dopo le difficoltà iniziali incontrate dal primo Signore di Milano, l’arcivescovo Ottone, proclamato tale nel 1277, il casato Visconteo si consolidò con Azzone, Luchino e Giovanni. Per tutto il Trecento nonostante i veri intrighi familiari per la successione e grazie a matrimoni importanti, l’espansione territoriale avvenne in direzione del Veneto, dell’Emilia, della Toscana e del Piemonte. Gian Galeazzo riceve nel 1385 l’investitura imperiale con titolo ducale su Milano e territori soggetti. Sposa Isabelle di Valois, sancendo un’alleanza di prestigio con i reali di Francia e creando l’imbarazzante precedente che determinerà la fine del Ducato.
L’ultimo duca Visconti muore  nel 1447 senza eredi maschi legittimi. In tal modo il passaggio del potere agli Sforza avviene senza il riconoscimento imperiale in quanto Francesco I sposa Bianca Maria Visconti figlia illegittima di Filippo Maria. Nella successione si distinguerà soprattutto Ludovico Maria Sforza Visconti detto il Moro, che con metodi non tanto ortodossi sgominò i rivali e impose il suo potere che culminò con l’agognata investitura imperiale del ducato. Necessari furono giochi diplomatici come le nozze di Bianca Maria Sforza con l’imperatore Massimiliano insieme ad un congruo svuotamento delle finanze ducali. Il quadro che evidenzia un simile desiderio di legalità è La Pala Sforzesca della pinacoteca di Brera (fig.12), nella quale Ludovico si fa ritrarre con la moglie e i due figli. 
Quando però Luigi d’Orleans nipote ed erede di Valentina Visconti diventò re di Francia nel 1498 col nome di Luigi XII, il ducato fu invaso dalle sue truppe col diritto di rivendicazione sul territorio. Ludovico fu costretto a trovare rifugio presso la corte imperiale di Innsbruck. Quelle stesse trattative che servirono a dare lustro alla corte lombarda si rivelarono poi dannose per la sua fine.
La mostra offre ai visitatori un ricco percorso attraverso l’età dell’oro di Milano dall’inizio del Trecento fino alla caduta di una corte brillantissima aperta ai contatti con l’Europa della quale era parte centrale anche geograficamente. Più di 250 oggetti riuniti nelle sale, dai libri delle Ore (fig. 01), le cui pergamene miniate con dovizia di particolari provenienti dalla Bibliothéque Nationale  de France di Parigi sono solo un esempio loquace, testimoniano la presenza di artisti di notevole calibro. Sebbene l’opera di Giotto in primis a Palazzo Reale, proprio dove si tiene la mostra, sia andata perduta, segni inequivocabili del suo linguaggio pittorico si riscontrano in varie forme di espressione: dagli affreschi con personaggi a grandezza umana (fig. 02), distaccati e fissati su telai di legno, impressionanti per l’impronta del maestro di riferimento, al marmo del Metropolian museum di N.Y. di Giovanni di Balduccio (fig. 03)“San Pietro con donatori ”fino al bellissimo tondo in vetro colorato (fig. 04). Dal Bode Museum di Berlino due statuine alte non più di 50cm realizzate da Bonino da Campione che vivono di una dinamicità leggibile nella contorsione dei corpi dalla testa alle mani. Sono “Maria dolente” e “Giovanni dolente”(fig. 05).

01-Libro delle ore
03-Giovanni di Balduccio. San Pietro e donatori

02-Affresco giottesco


04-Tondo in vetro

05- Statuine dal Bode di Berlino

Con Gian Galeazzo si raggiunge l’apice dell’espansione artistica di Milano dalla Francia alla Boemia. Le sezioni espositive di tale periodo vedono protagonisti del gotico internazionale due importanti miniatori e pittori: Giovannino de Grassi e Michelino da Besozzo. Il primo attivo anche nel Duomo contribuì in modo esemplare all’opera di raffinatezza della corte ducale. Il secondo diventato famoso per “La Madonna del roseto” (fig. 06) proveniente da Verona e logo della mostra è artista che incanta per il tono poetico avvolgente le figure religiose dolcissime, fluttuanti in un mare di ori e rose. Le sue due tempere su tavola presenti in mostra rappresentano entrambe la Madonna e Santa Caterina in due momenti diversi. Nel suo capolavoro già menzionato esse sono immerse in un eden delizioso, una immagine insolita, nuova, direi moderna delle due donne. In quella proveniente da Siena (fig. 07) si glorifica invece il matrimonio mistico della Santa con la singolarità della firma incisa a grossi caratteri sullo sfondo interamente dorato. Michelino da Besozzo è per un lungo periodo l’artista di riferimento e la sua immensa produzione, attenta sì al naturalismo ma più fedele al passato che incline all’innovazione, spazia dalle pale d’altare alle oreficerie fino alle carte da gioco, enormi non come quelle comuni, per il divertimento della corte.
Con Francesco Sforza si ha l’apertura verso la cultura toscana e l’avvio del primo vero Rinascimento pittorico lombardo, di cui il massimo esponente è Vincenzo Foppa, il quale produrrà per tutto il Quattrocento. Le influenze in questo periodo sono varie da Gentile da Fabriano incantato anche lui dall’ars pictorica di Michelino all’ars nova fiamminga con Zanetto Bugatto, per esempio, nel polittico della Madonna Cagnola (fig. 08). Tra le opere esposte c’è un marmo del 1470, proveniente dal Duomo di Napoli, che rappresenta la Madonna col bambino dello scultore Cristoforo Mantegazza (fig. 09).

06- La Madonna del roseto

07- Il matrimonio mistico di S.Caterina

08- Dal Polittico della Madonna di Cagnola

09- C. Mantegazza

Gli ultimi decenni del Quattrocento con Ludovico il Moro i cantieri ducali sono rilanciati, ampliati e definiti. Dal Castello Sforzesco alla Certosa di Pavia fino a Santa Maria delle Grazie, mausolei dei Visconti e degli Sforza. Gli artisti lombardi si confrontano con Andrea Mantegna e soprattutto col Bramante presente a Bergamo e subito dopo a Milano. Bernardino Butinone, autore della “Madonna con il bambino in trono e angeli” evidenzia tale influenza, che ha ugualmente tuttavia delle forme personali elaborate attraverso le novità artistiche delle corti di Mantova e Ferrara. Altro esempio di derivazione bramantesca è Ambrogio Bergognone palpabile nella “Madonna allattante”(fig. 10). La tempera appena menzionata proviene dalla celebre collezione Borromeo, sita a Isola Bella sul Lago Maggiore, così come  i due oli su tavola più straordinari dell’intera mostra: “l’Arcangelo Gabriele” e “La Vergine annunciata” di Vincenzo Foppa (fig. 11) in cui è evidente l’impronta leonardesca. Sono diverse le opere che risentono della vicinanza del maestro Da Vinci. C’è un dipinto notevole per la suggestione di grazia e dolcezza: “Il ritratto di un giovane come un San Sebastiano” di Giovanni Antonio Boltraffio, allievo insieme a Bernardino Luini e ad altri di Leonardo. E dire che invitato alla corte di Ludovico il Moro il pittore più noto del mondo si presentò come architetto militare…
Non è un caso, né un particolare di poca importanza la circostanza che vede l’apertura della mostra con la lezione di Giotto e la chiusura della stessa con l’insegnamento di Leonardo da Vinci, del quale tra l’altro come a tutti è noto resta in Santa Maria delle Grazie il famoso Cenacolo.
L’ultima opera esposta è un marmo del Louvre che ritrae Beatrice d’Este (fig. 13), la giovane sposa di Ludovico. Il pregevole busto scolpito da Gian Cristoforo Romano giace in una vetrina proprio al centro della sala permettendo in tal modo la visibilità del profilo dolcissimo e della laboriosa lunga treccia dei capelli.

Elvira Brunetti 

10- A. Bergognone

11-Vincenzo Foppa

13 - Beatrice D'Este


lunedì 11 maggio 2015

50 anni dalla morte di Ernesto de Martino



Pochi ricordano oggi, soprattutto tra i giovani, il nome ed i meriti di Ernesto de Martino, scomparso 50 anni orsono, il quale seppe raccontare nei suoi libri il mondo magico del sud Italia ed un patrimonio di miti e riti che rischia di scomparire, non solo nella realtà, ma anche dal ricordo.
Miseria e nobiltà di un Mezzogiorno, da tempo più che una regione geografica un luogo dell’anima.
Erano gli anni del boom economico e mentre al nord si pensava unicamente ad aumentare la produzione, il sommo antropologo indagava gli antichi riti di guarigione della civiltà agricola e pastorale e nel suo celebre libro La terra del rimorso ci fece conoscere la terapia del tarantismo con le donne del Salento che, invasate come baccanti, ballavano al ritmo di antiche melodie antenate della Tarantella.
Una scheggia impazzita che faceva comprendere al grande pubblico come il Medioevo in alcune zone del nostro Paese non fosse ancora tramontato. Ed ancora oggi la memoria del pizzico fatale del ragno non è scomparsa, al contrario la tarantola da antico stigma del sottosviluppo è divenuto il simbolo di una speranza nel futuro, basata su uno sviluppo sostenibile e rispettoso dell’ambiente.
Sono nate così grandiose manifestazioni che attirano turismo e denaro come la Notte della Taranta, durante la quale migliaia di giovani ballano con passione. E si può ora affermare senza ombra di dubbio che il ragno pizzica ancora, ma ora il suo morso provoca salti di gioia e fa ballare per ore, ma senza rimorso.


La collina dei poeti



Tra i luoghi più dimenticati di Napoli, che viceversa potrebbero costituire un potente richiamo per i turisti, va annoverato al primo posto il parco Vergiliano, da non confondere con quello Virgiliano, fino a poco fa paradiso per le coppiette in vena di effusioni erotiche.
Esso, posto alle spalle della chiesa di Piedigrotta e nei pressi della maestosa stazione di Mergellina, oggi umiliata a semplice fermata della metropolitana, ospita le tombe di Virgilio e di Leopardi. Pochi sanno della sua esistenza, le automobili prima di affrontare il buio della galleria laziale che le porterà a Fuorigrotta, lo costeggiano distratte.
Dovrebbe cambiare il suo nome ed assumere più degnamente quello di collina dei poeti; ne ospita infatti due tra i più grandi di tutti i tempi, vissuti in tempi diversi, entrambi nati altrove, ma che hanno desiderato riposare per sempre a Napoli, una città dove hanno vissuto a lungo.
Il luogo non è grande, ma la poesia ha bisogno di poco spazio, in un sonetto può essere racchiuso l’intero universo, come loro ci hanno insegnato.
Si sale lentamente lungo un viale alberato ed i rumori scompaiono, anche i treni diventano una lontana presenza. Dopo la seconda curva compare un grande mausoleo su cui è inciso: Giacomo Leopardi. Ancora pochi passi e giungiamo ad una nicchia che prende luce da due aperture; al centro un braciere ed una corona di alloro; qui riposa Virgilio, morto a Brindisi, ma che espresse il desiderio di essere sepolto all’ombra del Vesuvio.
Se ci inerpichiamo ancora arriviamo all’ingresso della Cripta napoletana, la famigerata grotta dove per secoli si sono celebrati riti dionisiaci, per non dire orgiastici, dove è nata la sfogliatella e la festa di Piedigrotta. Una galleria che, secondo la leggenda di Virgilio non solo poeta, ma anche mago, fu da lui costruita in una sola notte, con l’auto di duemila diavoli.
Una grotta da dove nasce una parte cospicua della nostra storia e delle nostre tradizioni e che noi napoletani continuiamo ad ignorarne la stessa esistenza.

Ma chi vuole può rimediare partecipando alla visita guidata dal sottoscritto sabato 23 maggio alle ore 10 con appuntamento davanti alla chiesa di Piedigrotta.

sabato 9 maggio 2015

video del 22 marzo




Domenica 22 marzo 2015 nei locali dell’Istituto Denza di Posillipo-Napoli, sono stati presentati i libri:

  • “La Bibbia dell’amore”  di Achille e Marina della Ragione; 
  • "Napoletanità arte miti e riti a Napoli" di  di Achille della Ragione.
Alla presenza di un folto pubblico, si sono alternati al tavolo dei relatori oltre ad i due autori, anche l’Ing. Dante Caporali, valente fotografo e cultore di cose napoletane.








intervento di Dante Caporali




intervento di Achille della Ragione





intervento di Marina della Ragione


mercoledì 6 maggio 2015

Un nuovo libro di Egidio Valcaccia


 I tesori sacri di Castellammare di Stabia




Egidio Valcaccia è una di quelle sempre più rare figure di studiosi “locali” appassionati delle loro ricerche ed innamorati dei luoghi nativi.  
Fino ad ora ha sfornato una ventina di libri e siamo certi non ha alcuna intenzione di fermarsi.
Il raggio d’azione dei suoi studi ”matti e disperatissimi”, partendo da Castellammare di Stabia copre entrambe le costiere: sorrentina ed amalfitana.
L’ultima sua fatica letteraria è dedicata ai Tesori sacri di Castellammare di Stabia ed esamina minuziosamente la pittura del Settecento e del primo Ottocento presente nelle chiese.
La ridente cittadina costiera è stata a lungo un centro dove la cultura era di casa, sia per l’interessamento dei sovrani borbonici, ma soprattutto perché costituiva una delle mete più ambite del Grand Tour, frequentata per decenni da numerosi e scelti visitatori stranieri.
Valcaccia offre al lettore una disamina dettagliata dei dipinti sacri presenti in città, frutto di una committenza ecclesiastica illuminata, come nel caso della basilica di S. Maria di Pozzano dove lavorano, prima il celebre architetto Luigi Vanvitelli, a cui si deve la monumentale sacrestia e poi Sebastiano Conca e Giacinto Diano per la parte figurativa.
Castellammare di Stabia, grazie alla presenza delle acque termali ed al clima salubre, diventa nel tempo meta privilegiata di tutti coloro che cercano la salute del corpo e dello spirito; in seguito, con la nascita dei cantieri navali, portò sviluppo e benessere per gli abitanti. Fu a lungo attiva anche una fabbrica di cristalli, molti dei quali ancora adornano gli ambienti della Reggia di Caserta.
L’autore con la sua opera ci regala una puntuale analisi dei dipinti presenti nelle chiese, dando luogo ad un testo che ci permette di conoscere un notevole patrimonio d’arte troppo a lungo dimenticato

Achille della Ragione               

lunedì 4 maggio 2015

La pittura di battaglia a Napoli nel Seicento

Un genere che incontrò larga affermazione nella pittura napoletana del Seicento e lusinghiero successo tra i collezionisti fu la battaglia. 
La nobiltà amava adornare le pareti dei propri saloni con delle battaglie raffiguranti singoli atti di eroismo o complessi combattimenti che esaltavano il patriottismo e l’abilità bellica, virtù nelle quali i nobili amavano identificarsi. 
Anche la Chiesa fu in prima fila nelle committenze, incaricando gli artisti di raffigurare gli spettacolari trionfi della cristianità sugli infedeli, come la memorabile battaglia navale di Lepanto del 1571, che segnò una svolta storica con la grande vittoria sui Turchi, divenendo ripetuto motivo iconografico pregno di valenza devozionale, replicato più volte per interessamento dell’ordine domenicano, devotissimo alla Madonna del Rosario, la quale seguiva benevolmente le vicende terrene dall’alto dei cieli. 
Altri temi cari alla Chiesa nell’ambito del genere furono ricavati dall’Antico e dal Nuovo Testamento, quali la Vittoria di Costantino a ponte Milvio o il San Giacomo alla battaglia di Clodio, argomenti trattati magistralmente da Aniello Falcone, che fu il più preclaro interprete della specialità, “Oracolo” riconosciuto ed apprezzato, sul quale ha scritto pagine insuperate il Saxl nella sua opera Battle scene without a hero, una acuta ricerca che non ha trovato l’eguale nell’analisi di altri grandi battaglisti del Seicento, quali Salvator Rosa o Jacques Courtois, detto il Borgognone. 
A Napoli fu molto diffuso il sottile piacere della contemplazione delle battaglie presso masochistici voyeurs, che prediligevano circondarsi, non di procaci nudi femminili dalle forme aggraziate ed accattivanti o di tranquilli paesaggi, né di severi ritratti o di languide nature morte, bensì di gente che si azzuffava a piedi o a cavallo, usando spade sguainate ed appuntiti pugnali, dando a destra e a manca terribili fendenti “in ariosi e fumosi, sereni o temporaleschi, pianeggianti o collinari scenari, ideali comunque per tali bisogne” (Bertolucci). 

fig. 1 - Ciccio Graziani - Battaglia - 61 47 - Napoli antiquario Febbraio

fig. 2 - Ciccio Graziani  - Battaglia - 61 47 - Napoli antiquario Febbraio

Francesco Graziani, detto Ciccio Napoletano, è un battaglista minore attivo tra Napoli e Roma nella seconda metà del XVII secolo.
Egli probabilmente è originario di Capua perché in alcune fonti è ricordato come Ciccio da Capua. E poco noto al De Dominici, il quale non è certo se egli fosse il padre o un parente di Pietro Graziani, battaglista attivo nei primi decenni del XVIII secolo. Filippo Titi in una sua guida delle chiese romane cita due suoi quadri, ma oggi è visibile solo quello conservato nella cappella Cimini di Sant'Antonio dei Portoghesi, databile al 1683.
Gli inventari della quadreria Barberini, redatti nel 1686, accennano a suoi quadri di battaglia e di marine, ma oggi non sono più identificabili.
Il Salerno, studioso dell'artista ed estensore della scheda nel catalogo della mostra sulla Civiltà del Seicento a Napoli, gli assegna poche opere certe: due battaglie nel museo civico di Pistoia e quattro nel museo civico di Deruta, una delle quali porta sul retro della tela l'attribuzione del Pascoli «del Graziani eccellente pittore».
Alla mostra furono presentati come autografi due paesaggi della Galleria Doria Pamphily, in precedenza assegnati ad un ignoto seguace del Dughet.
Tra gli antiquari napoletani è facile trovare delle tele, spesso di piccolo formato, ed a volte dipinti su rame, che possono ragionevolmente essere assegnati al Graziani, ma purtroppo la critica fa ancora molta confusione rispetto all'opera di Pietro Graziani e di un altro pittore, stilisticamente vicino ed ancora da identificare.
Lo stile di Francesco Graziani è tagliente, con le figure dei soldati e dei cavalieri appena abbozzate; il cielo sovrasta le battaglie, incombendo pesantemente con un cromatismo plumbeo di un rosso caliginoso, che sembra partecipe dello svolgersi tumultuoso degli avvenimenti.
Pietro Graziani, probabilmente figlio di Francesco, è attivo tra la fine del XVII secolo e gli inizi del XVIII. La sua pittura mostra un brio ed una scioltezza di tocco che è caratteristica già del Settecento. Gli si possono assegnare un gruppetto di opere che si differenziano in senso più moderno dalla produzione di Francesco.
Il Chiarini si è impegnato nel 1989 nella ricostruzione del suo catalogo; in particolare gli ha attribuito quattro battaglie di cavalieri, oggi nel museo civico di Prato, provenienti dalla galleria Martini dell'ospedale della Misericordia e Dolce, che in precedenza il Papini aveva ritenuto opera di Ercole Graziani (1688 - 1765), un altro congiunto della dinastia del quale al momento sappiamo molto poco.
Dopo questo breve preambolo presentiamo due dipinti inediti di proprietà dell’antiquario Febbraio di Napoli, (fig. 1 – 2) eseguiti da Ciccio Graziani, nei quali si possono apprezzare i caratteri stilistici del pittore, dalle figure dei protagonisti appena accennate con pennellate nervose senza particolare cura dei particolari, ai colori terrei della tavolozza, in grado di produrre nell’osservatore una partecipazione emotiva alla cruenta battaglia rappresentata.

fig. 3 - Carlo Coppola -  Cavalieri  in armatura a cavallo - Venezia Semenzato 2003

fig. 4 - Carlo Coppola - Battaglia - 97 - 67 - Napoli antiquario Febbraio

Fig. 5 - Carlo Coppola - Battaglia di ponte  Milvio - 80 - 100 - Roma collezione privata


Pittore ancora poco conosciuto nell’ampio panorama figurativo napoletano attivo intorno alla metà del secolo XVII, Carlo Coppola fa parte della variegata bottega di Aniello Falcone, nella quale occupava certamente una posizione di rilievo ed era benvoluto da tutti, come si evince dalle parole del De Dominici, che dell’artista ci tramanda poche notizie a margine delle pagine dedicate al celebre maestro.
Oltre che notevole battaglista, egli fu abile anche nelle scene di martirio ed in quadri storici e di vedute. Impregnato della cultura tardo manierista di Belisario Corenzio, ebbe due sfere di attrazione: il Falcone ed il Gargiulo.
Dal primo prende ispirazione per i quadri di battaglia e gli esempi del suo maestro sono utilizzati come repertorio di immagini stereotipate, rese con toni caldi e colori scuri, mentre nei martiri e nei quadri storici le soluzioni di maggiore libertà pittorica e chiaroscurale, prelevate da Micco, sono molto marcate.
Altri debiti culturali sono contratti con Callot, con il Tempesta, con Scipione Compagno e con Andrea Di Lione.
Egli fu attivo per oltre venti anni, dal 1640 al 1665 ed il suo catalogo, interessante perché testimonianza di un particolare momento storico e dei gusti della committenza privata, è ancora da definire, anche se molti suoi lavori sono siglati.
Ritorniamo alle parole del De Dominici: “Fece assai bene di battaglie, e tanto che molte volte le opere sue si cambiano con quelle dello stesso Maestro, ma tanto i soldati, quanto i cavalli del Coppola hanno una certa pienezza più di quelli del Falcone, e massimamente le groppe de’ cavalli sono assai rotonde, il che a cavalli da guerra non molto conviene”.
Come sempre il celebre biografo riesce acutamente a definire lo stile di un autore ed a mettere in risalto un aspetto importante della sua attività, che ha contribuito a confondere parte della sua produzione migliore con l’opera del maestro.
Infatti, nonostante l’abitudine di siglare le sue opere, la disonestà dei mercanti, abili col raschietto, ha spesso, non solo ai tempi del De Dominici, fatto passare per Falcone battaglie del Nostro, mentre più di una scena di paese, viene assegnata dalla critica al Gargiulo, compagno di bottega, che negli ultimi anni ha incontrato, grazie ad un’esaustiva monografia e ad una mostra molto curata, un cospicuo successo commerciale.
Un modo per riconoscere il pennello del Coppola nei dipinti non firmati è quello di osservare attentamente le terga e la coda dei suoi cavalli, presenti non solo nelle battaglie, ma anche nelle scene di martirio.
Le prime sono sempre imponenti, poderose e di evidenza scultorea, mentre la coda è costantemente vaporosa e ricchissima di crini, che arrivano fino a terra. Un dettaglio che, per la sua originalità, costituisce una sorta di sigla nascosta e che possiamo osservare nel Martirio di Sant’Andrea, di collezione romana, nella Lapidazione di Santo Stefano, passata nel 1994 sul mercato antiquariale, nella Crocefissione di San Pietro, in asta presso Semenzato, Milano 1991, nei Cavalieri con armatura a cavallo (fig. 3), passato come De Lione in un’asta Semenzato del 2003 ed in opere forse di bottega, come la Scena di Battaglia, della raccolta de Bellis di Roma.
I suoi cavalieri indossano elmi piumati ed i destrieri si stagliano imponenti in primo piano, mentre sullo sfondo la scena del combattimento è dominata da castelli turriti e paesaggi collinari.
Pienamente rispettati i caratteri distintivi patognomonici nei due inediti che segnaliamo.
Il primo (fig. 4), una Battaglia dell’antiquario Febbraio di Napoli, presenta in primo piano un cavallo dalla groppa poderosa e dalla coda vaporosa che tocca quasi terra oltre al castello turrito sulla sinistra.
Il secondo (fig. 5), di una privata raccolta romana, raffigurante la Battaglia di ponte Milvio, deve la certezza dell’autografia, più che al cavallo rampante, ripreso di lato, al torrione sulla sinistra, identico a quello che compare in numerosi quadri siglati dell’artista.

fig. 6 - Aniello Falcone - Battaglia (particolare) - Inghilterra collezione privata

fig. 7 - Aniello Falcone - Battaglia (particolare) - Inghilterra collezione privata

fig. 8 - Aniello Falcone - Battaglia (particolare) - Inghilterra collezione privata
Concludiamo presentando tre particolari (fig. 6 – 7 - 8) di un dipinto inedito del Falcone, conservato in Inghilterra, nel quale si ripetono alcuni dettagli costantemente presenti nei più celebri dipinti dell’Oracolo delle battaglie.
Dalla montagna sullo sfondo, che possiamo vedere chiaramente nel Sansone sconfigge i Filistei (fig. 9), siglato, di una privata raccolta inglese, al caduto in primo piano, che si può osservare nella celebre Battaglia (fig. 10) conservata nel museo di Capodimonte, al cavallo rampante in evidenza, mentre sullo sfondo si svolge cruento il combattimento, come nella Battaglia davanti ad un castello (fig. 11) di una raccolta fiorentina.

fig. 9  - Sansone sconfigge i Filistei - siglato - Inghilterra collezione privata

fig. 10 - Battaglia - Napoli museo di Capodimonte

fig.  11 - Battaglia dinanzi ad un castello - Firenze collezione privata


La danza del ventre tra tradizione ed attualità

La più grande passione per gli Egiziani   

01 - Danzatori egiziani

di Marina della Ragione

Il termine arabo per definire la danza orientale è raqs sharki. La dizione "danza del ventre" non e' quella originale in arabo, bensì è la denominazione data dai viaggiatori occidentali che si recavano per la prima volta nei paesi mediorientali, e che rimasero affascinati dai movimenti ondulatori tipici delle danze tradizionali arabe. I nomi che vengono usati per designare questo tipo di danza sono svariati. I francesi, che secondo alcune fonti, furono i primi a "scoprire" questa danza, coniarono il termine "danse du ventre"; i greci chiamano la danza del ventre "cifte telli", anche nome dell'omonimo ritmo turco.
La tradizione ha radici antichissime, precedenti alla Bibbia, da cui nasce il mito di Salomè e della danza dei sette veli. Alcune fonti fanno risalire la danza del ventre ai riti propiziatori della fertilità, legati al culto della madre Terra, eseguiti migliaia di anni fa.  Infatti nonostante la danza orientale sia stata scoperta solo tra il '700 e l' '800, essa ha origini antichissime, che risalgono fin dalla costituzione delle prime civiltà del mondo mediorientale. Infatti i movimenti rotatori e sinuosi della danza orientale riprendono gli antichi significati della fertilità, legati al culto dell'antica dea madre. Gli uomini erano consapevoli che tutto ciò che muoveva la vita dell'universo e quindi dell'essere umano, era un soffio energetico legato alla riproduzione, alla nascita, al ciclo delle stagioni, alla natura. Il tutto era collegato alla funzione riproduttiva della donna, e il culto relativo che ne nacque fu proprio quello della "Dea madre", che venne rappresentata da ogni civiltà diversamente e con diversi nomi: Mylitta, Isis, Ashtoreth, Astarte, Ishtar, Aphrodite, Venus, Bhagvati, Parvati e Ceres.
Nell'antica Babilonia era diffuso il culto della dea ISHTAR, la grande dea Madre, la dea della luna, le cui sacerdotesse praticavano il loro rito religioso attraverso delle danze sacre ondulatorie e sinuose, molto simili all'attuale danza orientale. La dea madre corrispondente per gli antichi egizi fu Iaset. Iaset, come Ishtar, è la dea della luna e si esprimeva in tutta la sua bellezza. La donna egiziana era il riflesso di questa dea misteriosa e affascinante e danzava in suo onore, durante i riti sacri, perchè Iaset esprimesse tutto il suo potere, per concederle la fecondità, la femminilità e la bellezza.
Numerosi documenti figurativi riportano a noi la testimonianza di una costante presenza della danza nell'Antico Egitto. Le danzatrici sono raffigurate aggraziate e scattanti, vestite con indumenti succinti, coperte di gioielli e accompagnate da musicisti, ma anche raffigurate con movimenti acrobatici. Le danze sacre erano centrali al culto di Iside nell’antico Egitto: le sacerdotesse raggiungevano uno stato di estasi attraverso il ballo.
Nella corte di Cheope si sviluppò la presenza di musicisti e danzatrici e nel Nuovo Regno anche i privati benestanti ospitarono nelle loro dimore musici e danzatrici.
Ma la danza nell'Antico Egitto non perse mai il suo valore religioso spirituale.
E infatti nei "Testi delle Piramidi" (raccolta di testi religioso-funerari incisi sulle pareti sotterranee di alcune piramidi di Saqqara (V-VI Dinastia), si riferiscono alla danza come una forma di omaggio a dei e morti divinizzati.

02 - La Salome dipinta da Moreau

03 - Danza orientale

04 - Danza con musica

05 - Un harem di danzatrici


Col tempo la danza ha perso la sua principale connotazione sacrale, diventando parte dell'ambiente culturale dei popoli che hanno avuto modo di esserle a contatto. La danza orientale, legata oggigiorno principalmente al mondo arabo, dal nord Africa al Medio Oriente, è praticata come un elemento soprattutto ricreativo, legato a momenti di feste e di giubilo. L'elemento più affascinante è che nella cultura araba, a differenza dell'Occidente, la danza tradizionale non ha mai smesso di esistere ed è simbolo di grande orgoglio per le genti rallegrarsi con la musica e la danza del proprio paese.
Il termine danza del ventre fu introdotto nell’Ottocento dai viaggiatori europei, tra cui Flaubert che fece di una ballerina la protagonista dei suoi racconti ambientati in Oriente. 
Nei primi del '900, con la massiccia colonizzazione europea si ha un cambiamento radicale nella vita sociale degli Egiziani e il Cairo comincia ad assumere l'aspetto di una grande metropoli. Prima del 1930 esistevano danzatrici professioniste che si esibivano in case private o nei caffè', ma l'apertura del primo nightclub al Cairo, fondato da Badia Mansabny una ballerina libanese che viveva in Egitto, segnò la svolta radicale per il raqs sharki. Il nightclub di Badia ospitò le due più grandi danzatrici della storia dell'Egitto, Tahia Carioca e Samia Gamal. Nacquero i primi cabaret, realizzati con stampo tipicamente occidentale, e all'interno dello spettacolo prende piede lo spettacolo della danzatrice orientale professionista, solista. La danza orientale, per la prima volta viene lanciata con un carattere europeo, solca i gradini dello show hollywoodiano, e muta totalmente significato e modo di esprimersi. La rakkasa comincia a studiare coreografie, nuove tecniche di spettacolo, unisce canto, danza e recitazione e diventa una star. Artisti e e istruttori europei accorrono per formare le nuove artiste e gettano le basi della danza orientale moderna. La danzatrice orientale diventa così una tradizione in Egitto, divulgatasi poi in tutto il mondo arabo, attraverso la folta produzione musicale e di film che vedevano attrici protagoniste proprio quelle danzatrici che fino a poco tempo prima si potevano vedere ballare sui palchi dei cabaret egiziani. La danzatrici quindi recitavano e insieme ballavano in musical, in commedie, film drammatici distribuiti nelle sale cinematografiche di tutti i paesi arabi. Ancora oggi gli egiziani sono soliti chiamare delle danzatrici del ventre per esibirsi nei matrimoni, per augurare felicità e prosperità agli sposi. E' usanza che gli sposi si facciano una fotografia con le loro mani poste sul grembo della ballerina in simbolo di fecondità, per una numerosa prole! 
La Danza orientale e' oggi oggetto di studi approfonditi da parte di maestri e professionisti, è una delle discipline più diffuse tra le donne di tutto il mondo e soprattutto in occidente lo spettacolo di danza orientale è giunto a livelli molto alti. Tuttavia, questioni politico-religiose hanno fatto si che essa venga messa in secondo piano dai regimi dei paesi arabi e a volte che venga perseguitata.
Una crisi economica devastante, l’inflazione alle stelle, attentati terroristici a ripetizione: questo è l’attuale situazione dell’Egitto, eppure gli Egizianisu you tube guardano videoclip di danza del ventre. Un video della danzatrice armeno egiziana Safinaz è stato cliccato 4 milioni di volte in un mese, mentre quello della libanese Haifa Webbe da oltre 10 milioni. Si direbbe che la visione della danza offra sollievo nei momenti difficili.
Benefici psichici accertati anche per il gentil sesso, infatti le donne che praticano la danza orientale riescono a concentrarsi su se stesse e sui propri movimenti, tanto da dimenticare tutto ciò che le circonda. Benché sotto sforzo, si trovano in uno stato di perfetta felicità.
Le donne che danzano hanno maggiore consapevolezza del proprio corpo e acquisiscono quindi una maggiore fiducia in se stesse, poiché imparano ad accettarsi e riescono a ritrovarsi sempre belle: la danza conferisce loro femminilità e portamento al corpo della donna.
La danza dona un maggiore senso di tranquillità, scrollando tutte le negatività accumulate durante la vita di tutti i giorni E' importante dire inoltre che non necessariamente chi si addentra nel fascino della danza orientale debba diventare per forza una grande ballerina, nè solamente una grande ballerina può permettersi di ballare questa danza in piena libertà.

06 - Mata Hari

07 - Mata Hari

08 - Una celebre danzatrice

09 - L'importanza delle mani


La danza del ventre ha origini storiche che si perdono nel tempo ed è altrettanto vero che la forma attuale di quest'arte misteriosa e sensuale fa parte a pieno titolo delle tradizioni popolari dell'Islàm. Oggi molti tendono a esemplificare l'idea di un Islam nella visione di un mondo cupo e bigotto, moralista fino all'estremo e nemico non solo della libertà delle donne, ma anche di tutte le forme di espressione "profane" – come le arti figurative, la poesia, il canto e la danza – e della gioia di vivere generale.
Nulla è in realtà più falso e antistorico di questa visione fanatica e deprimente della civiltà islamica. Nell'Arabia preislamica il canto, la danza e la poesia ebbero enorme diffusione e profonda importanza culturale. Il profeta Maometto nacque, si formò e visse l'intera sua vita in un ambiente cittadino vivamente influenzato da queste arti, e nello stesso ritmo dei versetti coranici è facile cogliere la musicalità "incantatoria" dell'antica poesia araba preislamica.
Le tradizioni lo descrivono come un uomo di temperamento appassionato ma allegro, gioviale, incline al riso e allo scherzo e nemico di ogni forma di eccesso e di estremismo. Una volta affermò: «Tre sono le cose che amo al di sopra di tutto: le donne, i profumi e la preghiera». Un versetto del Corano dice: «Che cos'è questa vita mortale se non scherzo e gioco?». E un altro: «Combattete sul sentiero di Allah coloro che vi combattono, ma non eccedete, perché Allah non ama gli eccessivi». Nell'epoca d'oro della grande civiltà islamica – cioè tra il VII e l'XI secolo dell'era cristiana – i popoli musulmani proposero al mondo un modello di società aperta e tollerante, in cui i fedeli delle tre religioni monoteiste convivevano pacificamente e cooperavano allo sviluppo della cultura e del progresso civile.
Dalla Spagna islamica (Andalusia) si diffusero in Europa gli elementi di base della civiltà moderna, e con essi anche la musica e la danza. La letteratura araba medievale, del resto, trasmette l'immagine di un mondo progredito, raffinato e perfino gaudente: il mondo delle "Mille e una notte", della Baghdad del califfo Harùn ar Rashìd, dove la vita era addolcita dai piaceri del hammàm (il bagno pubblico), della poesia, del canto, della danza e di una cucina ricca e golosa.
Sempre nel rispetto del Corano che dice infatti: «Noi apparteniamo ad Allah, e a Lui ritorneremo». C'è dunque un profondo senso spirituale nelle gioie della vita che il buon musulmano dovrebbe accettare sempre come un dono di Dio. Lo stesso senso spirituale che in realtà aleggia e si nasconde tra i veli che le danzatrici del ventre fanno così sensualmente ondeggiare.
Marina della Ragione

10 - Danza col velo

11- Un velo svolazzante

12 - Il ventre in evidenza

13 - Un ventre da favola

14 - Uno spettacolo in piazza

15 - La danza dei candelabri