giovedì 31 luglio 2014

Il calcio è noioso servono nuove regole




I recenti campionati mondiale sono stati giorni e giorni di partite penose, portate stancamente a reti inviolate ai supplementari e poi la spietata roulette dei rigori. La grande preparazione atletica, l’abile sfruttamento dell’assurda regola del fuorigioco e l’esasperato difensivismo hanno fatto prevalere un gioco sterile, continuamente interrotto da falli, spesso eccessivi ed hanno fatto appassire la fertile pianta dei grandi virtuosi del pallone in grado di far sognare milioni di tifosi. Urgono nuove regole per rivitalizzare il gioco ed aumentarne la spettacolarità, che come tutte le discipline sportive è legato alla realizzazione del punto. 
Diminuire il numero dei giocatori ad un massimo di nove per squadra. Dai tempi di Meazza e Piola ogni calciatore corre una distanza quasi tripla ed è presente in ogni fase del gioco, creando inestricabili affollamenti. 
Abolire il fuorigioco ad eccezione dell’area di rigore. La tecnica dei nuovi allenatori compatta i giocatori in aree ristrettissime e super affollate, nelle quali un dribling è pura fantasia. 
Effettuare la rimessa laterale con i piedi. Nessun difensore spedirebbe continuamente la palla fuori campo col rischio di rivedersela in piena area di rigore. 
Ogni cinque falli una punizione pericolosa. Per diminuire l’eccessivo ricorso al fallo prevedere una specie di rigore da tirare, senza barriera, dal limite dell’area di rigore. 
Permettere maggiori cambi, anche temporanei. Questa semplice regola in vigore con successo nella pallacanestro, permetterebbe ritmi veloci e maggiore spettacolarità. 
Ed in occasione della finale dei campionati mondiali prevedere, in caso di parità dopo i tempi supplementari, la ripetizione dopo due giorni della partita ed in caso di nuovo pareggio la non assegnazione del titolo o la vittoria ex equo.

martedì 29 luglio 2014

Lotta all’evasione: uguale recessione



L’economia dell’Italia si è sempre basata sull’evasione fiscale praticata con pervicacia da gran parte della popolazione, ma i proventi sfuggiti all’erario spesso venivano reinvestiti in attività produttive, senza che lo Stato li sprecasse in stipendi a burocrati inutili o i politici se li dividessero equamente in ruberie o li distribuissero in tangenti a clienti e sodali.
Ora si tende a controllare ogni pagamento, addirittura superiore a 30 euro e questa procedura, solo apparentemente virtuosa, mette in fuga le poche persone ancora in grado di far circolare un po’ di contante, più o meno onestamente guadagnato.
Chi volete, se non un pazzo, che comperi una casa, un dipinto, oppure  apra un’attività commerciale, per vedersi in tempo reale la finanza addosso per sapere dove, come e quando ha guadagnato il denaro per l’acquisto.
Meglio investire all’estero e non lamentiamoci se, grazie ad una scelta populista, il mercato immobiliare è crollato, l’economia arranca e l’unica ad aumentare è la disoccupazione.

domenica 27 luglio 2014

Fecondazione eterologa: come, quando, perché



Prima di parlare dell’argomento, divenuto di viva attualità dopo una pronuncia della Corte Costituzionale che ha cancellato un medioevale divieto, vogliamo precisare la fondamentale differenza che intercorre tra fecondazione assistita (o artificiale), la quale include le tecniche messe in atto per favorire la riproduzione in tutte quelle coppie che non riescono ad avere un figlio per vie naturali, dalla fecondazione eterologa che adopera un gamete, sia esso un ovulo o del liquido spermatico, proveniente da un donatore.
L'inizio degli studi sulla fecondazione artificiale iniziò dalle sperimentazioni di Stephan Ludwig Jacobi, un contadino tedesco che aveva studiato scienze naturali. Egli, nel 1762, fu il primo a fecondare artificialmente delle uova di trote e salmoni, prelevando uova deposte dalle femmine e bagnandoli con il liquido spermatico degli esemplari maschili.
Successivamente, gli studi sulla fecondazione artificiale vennero ripresi dall'italiano Lazzaro Spallanzani il quale, nel 1777, riuscì a fecondare le uova di rane e rospi. Le prime notizie accertate sulla fecondazione assistita praticata sugli esseri umani risalgano al 1838. Nel 1978 si ebbe la prima fecondazione artificiale in vitro, messa in atto dai medici anglosassoni Patrick Steptoe e dal premio Nobel  Robert Edwuards.
La fecondazione artificiale è stata oggetto negli anni di un articolato dibattito, in particolare relativo all'uso di alcune tecniche, come la fecondazione eterologa, la commercializzazione di embrioni, la maternità surrogata, la produzione di embrioni a fini di ricerca o di sperimentazione che suscitano controversie di tipo bioetico. In seguito a tale dibattito è stata varata la legge 19 febbraio 2004 n. 40. 
In Italia, in seguito a questo dibattito, si è tenuta nel 2005 una consultazione referendaria  per abrogare alcuni punti della legge sulla fecondazione, giudicata dai referendari (radicali, forze di sinistra e laiche, e alcuni esponenti, come ad esempio Fini dello schieramento di centrodestra) troppo restrittiva nelle tecniche utilizzabili. L'affluenza alle urne del 25,9% non raggiunse però il quorum.
“È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo”. La legge 40/2004, all’articolo 4 comma 3, vietando l’applicazione di tecniche con gameti di terzo donatore (tecniche eterologhe), di fatto negava la possibilità a migliaia di coppie sterili di avere dei figli. Esso ricadeva direttamente sulle coppie che erano costrette a recarsi in centri di procreazione medicalmente assistita all’estero per provare ad avere un figlio, e non avevano, spesso, la possibilità di pagare le migliaia di  euro per accedere a queste tecniche. Il che significava rinunciare ad avere figli. Questo assurdo divieto è stato cancellato con una sentenza della Corte Costituzionale del 9 aprile 2014.
Oggi il panorama è completamente cambiato, non bisognerà più recarsi all’estero per coronare un giusto sogno per ogni coppia: la nascita di un figlio. Si potrà usufruire del servizio sanitario nazionale o di strutture private di fiducia, a differenza dell’ipocrita legge che regola l’interruzione volontaria di gravidanza, la quale obbliga a servirsi degli ospedali, paralizzati da un numero di obiettori di coscienza che sfiora il 90%. Un decisivo passo in avanti che ci permette di rientrare tra il novero dei paesi civili.
Concludo questo breve contributo ricordando che per decenni ho praticato la fecondazione eterologa nel mio studio privato (in un periodo di vuoto legislativo), ottenendo brillanti risultati adoperando seme fresco ricavato da donatori convocati in coincidenza con l’ovulazione delle pazienti monitorata attraverso controlli ecografici.


venerdì 25 luglio 2014

La Napoli che non si vuole conoscere




I mass media italiani e stranieri si interessano di Napoli soltanto quando si parla di monnezza, delinquenza o disorganizzazione. Mai una inchiesta seria, mai un inviato speciale con l’incarico di divulgare i giacimenti di arte e cultura di  cui la città è straricca, al punto che importanti musei stranieri chiedono in prestito tesori come quello di San Gennaro, in grado di attirare in pochi giorni decine di migliaia di visitatori entusiasti.
È utopico immaginare una trasferta a fini promozionali di quadri e reperti archeologici per invogliare il turismo a riscoprire l’oro di Napoli, la cultura, le chiese, i musei, alcuni tra i più importanti del mondo?
Cosa attendono le istituzioni a pensare ad una nuova edizione di Civiltà del Seicento, una mostra che attirò l’interesse universale e della quale all’estero ancora si parla a distanza di trenta anni?
Diamoci tutti una scossa: il turismo è l’unica speranza che può salvare Napoli dando lavoro a migliaia di giovani, non più costretti ad emigrare.

pag.8 "metro" edizione Roma di venerdì 25 luglio 2014

lunedì 14 luglio 2014

Aggiunte al catalogo di Giuseppe Bonito

001 - Bonito (busto marmoreo) Castellammare di Stabia, villa comunale Comunale

In attesa dell’uscita della nostra monografia sul Bonito, prevista per ottobre, vogliamo far conoscere a studiosi e collezionisti una serie di inediti di notevole qualità, che ci sono stati proposti per un giudizio negli ultimi mesi.
Premettiamo alcune notizie biografiche sull’artista necessarie per chi lo conosce solo di fama.
Giuseppe Bonito (001) nato a Castellammare di Stabia nel 1707 e morto a Napoli nel 1789 fu uno dei maggiori pittori di genere napoletani, le sue numerosissime tele di carattere popolaresco ne fanno uno dei migliori rappresentanti del genere, forse il più importante dell'Italia meridionale del Settecento. Ebbe grande successo tanto che alcune tele di altri pittori suoi contemporanei e conterranei gli furono per lungo tempo attribuite. Il caso più eclatante fu quello del napoletano Gaspare Traversi, al quale soltanto nel Novecento, grazie agli studi dello storico dell'arte Roberto Longhi, fu riconosciuta la paternità dell'intera sua opera fino a quel momento attribuita al Nostro.
Allievo di Francesco Solimena, pittore tardo Barocco di grandi pale d'altare, Bonito imparò dal suo maestro l'uso dei chiaroscuri che applicò in maniera personale sia ai grandi quadri di tema religioso sia ai piccoli quadri di genere popolare.
In particolare la sua clientela, come ci riferisce il De Dominici era costituita da ricchi borghesi dal gusto attento alle nuove tendenze ed al tema del lavoro, i quali a volte domandavano al Bonito di fissare alcune scenette singolari, come nel caso della Cagna malata, già nella collezione Achille Lauro, che rammenta un episodio inconsueto, spinto fino al limite della teatralità corsiva e popolaresca.
Egli occupò numerose cariche accademiche da pittore di camera del Re ad accademico di San Luca e direttore dell’Accademia del disegno.
La sua produzione più celebre è legata alla ritrattistica, nella quale rappresenta con un’acuta osservazione dal vero un’infinita gradazione di tipologie fisiognomiche, che comprendano l’intera scala di espressioni umane. 
I suoi quadri raffigurano insigni personaggi della corte e della nobiltà napoletana, sottoposti ad un’introspezione psicologica accurata, prima che i volti trapassino dalla caducità della vita all’immortalità della tela. 
Ci piace ricordare l’Ambasceria turca presso la Corte di Napoli del Prado, della quale esiste una copia autografa di buona qualità nel Palazzo Reale di Napoli: una galleria di volti scandagliati e messi a nudo senza che possano celare all’artista i lati più profondi e reconditi del loro carattere.
Anche nelle tele a carattere devozionale egli dedica attenzione alla definizione dei volti, anche se lo stile è improntato ad uno equilibrio formale e compositivo, derivato non solo dall’insegnamento del Solimena, ma anche dagli esempi dell’ambiente romano, specialmente del Batoni, con una tavolozza preziosa, che richiama il pennello dell’ultimo Giordano. 
Bonito rappresentò la sua città, anche negli aspetti più folcloristici e ovvi, con la presenza di "scugnizzi" e l'immancabile Pulcinella, ma la sua pittura non fu moraleggiante o dai significati oscuri; quanto un ritratto, alle volte edulcorato altre volte spietato, della sua città e del suo tempo. Tra il 1736 e il 1742 lavorò per i Borbone per la decorazione a fresco della Reggia di Portici. Come ritrattista fu molto ricercato dalla nobiltà napoletana, celebre il ritratto di Maria Amalia di Sassonia moglie del re di Napoli Carlo III. Una delle sue ultime opere: L'Immacolata Concezione del 1789 fu dipinta da Bonito per la Cappella Palatina della Reggia di Caserta.
Partiamo la nostra carrellata con un quadro  della collezione Di Loreto a Roma, una Veronica(002) di palmare autografia, nella quale possiamo sottolineare stringenti raffronti con alcune opere certe del Bonito, come La Vergine e san Carlo Borromeo della chiesa della Graziella a Napoli e la celebre Cleopatra del museo di Capodimonte, due composizioni per le quali il pittore ha adoperato la stessa modella, casta e con lo sguardo sorridente nella tela in esame, disinvolta ed irriverente la regina egiziana, alla ricerca di una morte teatrale.
Per la data di esecuzione della Veronica gli anni 1740 – 45 sembrano quelli più plausibili per le affinità non solo con i dipinti citati, ma anche con la Carità conservata nella sacrestia del Monte di Pietà di Napoli e per la stesura del colore con pennellate dense e larghe.
Proseguiamo con due dipinti ad olio su tela, (cm. 38,5 x 52,5), raffiguranti Allegoria delle arti (003 – 004) appartenenti alla prestigiosa raccolta di Fabrizio Lemme a Roma.
Essi erano stati dal proprietario, profondo conoscitore d’arte, riferiti a Giacomo Del Po, prima che Nicola Spinosa, dopo averli personalmente visionati nel 2012, ne ritenne invece autore appunto Giuseppe Bonito, datandoli al 1740 – 1750, quando il maestro dipingeva in forme classicheggianti, non molto dissimili dal  barocco di Giacomo del Po.
Vi sono poi due aristocratiche ritratte nella sontuosità dei loro abiti di rappresentanza.
La prima (005), che sembra offrirci un fiore, appartiene alla raccolta Amata di Roma, la seconda (006), sulla quale ritorneremo approfondendo alcuni dettagli interessanti, alla collezione Graiola di Bologna.
Per entrambe non siamo in grado di identificare la nobildonna immortalata, ma possiamo sottolineare unicamente l’abilità con la quale sono state riprese dal pittore, il quale ha adoperato una pennellata ricca di impasti luminosi.
Una traccia utile per continuare la ricerca è costituita da alcuni particolari del secondo dipinto (007 – 008), nei quali sono raffigurati l’effige di un alto prelato, forse un pontefice, probabilmente un parente della gentildonna e sul collare del cagnolino delle iniziali: ”P.L.”, ragionevolmente del committente.
Infine presentiamo un nobile fanciullo con tanto di spadino, un rampollo della famiglia Carignani di Novoli, come si evince chiaramente dallo stemma in primo piano sulla sinistra. Un dipinto, certamente autografo, che assieme agli altri che abbiamo segnalato, incrementa ulteriormente il catalogo del Bonito.


002 -Bonito - La Veronica - Roma collezione Di Loreto

003 - Bonito - Allegoria delle arti - Roma collezione Fabrizio Lemme

004 - Bonito - Allegoria delle arti - Roma collezione Fabrizio Lemme

005 - Bonito - Ritratto di gentildonna - Roma collezione  Amata

006 - Bonito - Ritratto di gentildonna - Bologna collezione Graiola

007 - Bonito - Ritratto di gentildonna - (particolare) 2 - Bologna collezione Graiola

008 - Bonito - Ritratto di gentildonna (particolare) - Bologna collezione Graiola

009 - Bonito  -  Ritratto di un nobile fanciullo - Napoli collezione Carignani di Novoli


Vogliamo concludere riportando parzialmente il capitolo dedicato alla ritrattistica contenuto nella monografia “Giuseppe Bonito opera completa” in uscita ad ottobre.
Per ammirare le foto bisognerà consultare il libro…


I Ritratti - Bonito occupò numerose cariche accademiche: da pittore di camera del re (1751) ad accademico di San Luca (1752) e direttore dell’Accademia del disegno (1755).
La sua produzione più celebre è legata alla ritrattistica, nella quale rappresenta con un’acuta osservazione dal vero un’infinita gradazione di tipologie fisiognomiche, che comprendano l’intera scala di espressioni umane. I suoi quadri raffigurano insigni personaggi della corte e della nobiltà napoletana, sottoposti ad un’introspezione psicologica accurata, prima che i volti trapassino dalla caducità della vita all’immortalità della tela.
Riuscì ad amalgamare elementi di cospicua eleganza formale e di sicura piacevolezza pittorica con un moderato naturalismo, in linea con la locale tradizione figurativa. 
Le sue tele raffiguranti membri della corte sono conservati nel Palazzo Reale di Madrid, nel Palazzo Reale a El Pardo, ed in Italia nei Palazzi reali di Napoli e Caserta, oltre che in importanti musei e prestigiose raccolte private.
Iconografia borbonica - I primi sovrani della dinastia borbonica ad essere rappresentati dal Bonito sono naturalmente Maria Amalia e Carlo III. Da poco il Bonito si era procurato, grazie all’intercessione del marchese di Montelegre la prima importante commissione dalla Real Casa con l’incarico di effigiare il gruppo di ambasciatori turchi e di quelli inviati dal Bey di Tripoli. Il successo dei quadri fu tale che qualche anno dopo ebbe il privilegio di ritrarre la coppia sovrana, affiancandosi così a quella schiera di pittori parmensi come Carlo delle Piane o Clemente Ruta e divenendo il primo specialista napoletano.
L’esecuzione dei due pendant, raffiguranti Carlo e la consorte Maria Amalia, in vistosi abiti regali risale al 1744, all’indomani della vittoria nella battaglia di Velletri, che sancisce l’inizio della fortuna della dinastia.
Della coppia di dipinti esistono più versioni conservate, la più celebre al Prado, mentre della sovrana ne segnaliamo una (tav. 30) nel museo di San Martino, un’altra (tav. 31) giovanile, transita a Vienna da Dorotheum, una (tav. 32) a Capua nel museo Campano ed infine una (tav. 33) simile, esposta alla mostra Ritorno al Barocco, più brillante nella tavolozza e più accurata nella resa degli incarnati e dei gioielli che adornano la regina.
Per quel che riguarda Carlo III illustriamo l’esemplare (tav. 34) del museo del Prado, quello (tav. 35) del museo di San Martino, quello del museo di Capua (tav. 36), (in pendant con la tav. 32), in sottoconsegna al Quirinale ed infine la versione (tav. 37) transitata a Vienna presso Dorotheum.
Di Ferdinando IV abbiamo minori testimonianze; proponiamo una tela(fig. 21) conservata a Chigaco e per Maria Carolina due dipinti in collezione privata, il primo (tav. 38), ce la raffigura giovane e di accettabili sembianze, il secondo (tav. 39), nella raccolta di Paolo Onofri a Roma, mentre con sguardo sprezzante pone le mani sulla corona, conferma la nomea di una sovrana di aspetto arcigno e poco guardabile, in linea con tutte le altre rappresentazioni degli altri pittori contemporanei dalla Kauffmann (tav. 40) al Liani (tav. 41) ed all’Angelini (tav. 42), oltre ad alcuni ignoti, i cui quadri sono conservati rispettivamente nel museo di San Martino (tav. 43) e nella Reggia di Caserta (tav. 44).
Nel dipinto di collezione romana (tav. 39), inedito e di palmare autografia, si possono riscontrare, accanto ai caratteri aulici e celebrativi del ritratto ufficiale, la capacità del Bonito di introspezione psicologica e di cordiale partecipazione emotiva alla concreta identità del personaggio rappresentato, un chiaro segno della dipendenza dei suoi modi pittorici dalla lunga e consolidata tradizione della ritrattistica napoletana tra Seicento e Settecento.
Seguono poi i ritratti dei principi di casa reale, dei quali esistono due serie.
Tra il 1740 ed il 1757 dal matrimonio di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia nacquero sei maschi e sette femmine, delle quali tre morirono nel primo anno d’età, una quarta a due anni ed una quinta nel 1749 a cinque. La prima serie cominciata nel 1748 è conservata in Spagna ed esposta al Prado.  
Comprende i ritratti di Maria Isabella(nata nel 1743), Maria Giuseppa (1744), Maria Luisa (1745) e Filippo(1747)(fig. 22), del quale esistono varie repliche autografe, tra cui una (tav. 45) di notevole qualità è stata esposta alla mostra Ritorno al Barocco, che raffigura il fanciullo di appena un anno entro una festosa atmosfera floreale, senza che sul volto si possano riscontrare i segni della grave demenza, causa della sua esclusione dalla successione al trono.
In seguito vennero immortalati Carlo (nato nel 1750), Ferdinando (nato nel 1751) (fig. 23), del quale tra le numerose repliche in collezione private ne segnaliamo una (tav. 46), in cui il principe è ritratto con una voliére ed un uccello che svolazza legato ad una corda, Gabriele (nato nel 1752) ed Antonio Pasquale (nato nel 1755).
Il lavoro di Bonito rispondeva ad un preciso programma iconografico ed i dipinti venivano spediti in Spagna a più riprese, per permettere alla corona di Spagna di conoscere volti e stato di salute dei futuri discendenti. Tutti i ritratti sono privi di atteggiamenti forzatamente declamatori e sono ambientati in un’atmosfera domestica resa con colori allegri e brillanti.
La seconda serie fu eseguita dieci anni dopo, prima della partenza del re per la Spagna, nel 1759, quando a Napoli rimase il solo Ferdinando IV, sotto la reggenza del Tanucci ed i principi sono rappresentati in un’età più avanzata.
In tutti i quadri di questo gruppo il Bonito perde le qualità di vivace quanto prezioso fotografo del candore e dell’innocenza dei principi, caratteristica della prima serie ed è evidente  un desiderio di ufficialità, per l’intenzione di mettersi in concorrenza con il Mengs, celebre ed affermato pittore “di Stato”. Dei quattro esemplari, attualmente nel museo di San Martino se ne conservano tre, mentre un quarto dipinto, oggi smarrito, probabilmente rappresentava le due principessine con attributi legati alle arti figurative, per distinguersi dai fratelli Filippo e Pasquale (tav. 47), immortalati con oggetti allusivi all’arte della guerra(la pianta di una fortezza ed un’armatura); Antonio Pasquale e Francesco Saverio(fig. 24) con strumenti e spartiti musicali, mentre Ferdinando e Gabriele (fig. 25) sono in compagnia di strumenti scientifici.
Questo ultimo dipinto venne esposto alla mostra Civiltà del Settecento e rappresenta uno dei più rilevanti risultati del Bonito quale ritrattista di corte ed è utile per marcare la differenza con altri celebri specialisti come il Batoni o il Mengs
Consideriamo infine  a parte questo notevole dipinto (tav. 48) che ritrae a nostro parere l’infanta Maria Giuseppa di Borbone, mentre per i curatori della Dorotheum di Vienna, dove il quadro è stato esitato nel 2006, raffigura Angelica di Bisignano.

Ritratti aristocratici – Gran parte della fama di Bonito, più che per celebri lavori, come la Carità del Monte di Pietà o i perduti affreschi nella chiesa di S. Chiara è legata alla ritrattistica, ufficiale per i membri della corte borbonica, come abbiamo già visto, ma anche per l’aristocrazia napoletana, che amava farsi immortalare in pose affettate e con abiti eleganti.
I primi ritratti eseguiti dal pittore, dagli esordi in chiave purista, fino agli ultimi anni, in cui a soluzioni di ricercata eleganza formale accoppiava costantemente una genuina ricerca del “vero”, cercando di scandagliare nel personaggio raffigurato carattere e stati d’animo.
Ritratti che andavano ad adornare i salotti della nobiltà, soddisfacendo vanagloria ed esigenze di rappresentanza del ceto dominante, desideroso di affermare pubblicamente  ruolo e prerogative.
I suoi quadri si rifacevano alla lunga e consolidata tradizione napoletana del settore e nella ricerca di soluzioni espressive in linea con l’individualità del protagonista della tela creò una valida alternativa alla vacua pomposità della ritrattistica ufficiale che veniva imponendosi in città, per via del Mengs, che rispondeva compiutamente alle nuove istanze ideologiche ed alle esigenze di autocelebrazioni della corte.
Lunga è la serie di ritratti, a partire dal quello che raffigura Il principe di Bisignano (fig. 26), databile al 1734 per la presenza nel dipinto del Toson d’Oro, il quale nell’ultimo anno del vice regno austriaco ricoprì la carica di Gran giustiziere, fino al famoso Autoritratto (fig. 27), conservato agli Uffizi, di grandissima espressività, nonostante sia stato eseguito, per la tarda età mostrata dall’artista, dopo gli anni Settanta, in una fase di indebolimento delle sue preclare qualità di illustratore della corte napoletana. Dal dipinto prese anche ispirazione lo scultore, scelto dalla amministrazione di Castellammare che, dopo un lungo periodo di colpevole dimenticanza, decise di ricordare con un busto marmoreo (tav. 49) l’insigne concittadino.
Degli anni Quaranta, per lampanti similitudini stilistiche con il dipinto del principe Bisignano, segnaliamo due Ritratti di gentiluomo (tav. 50 – fig. 28), mentre della metà degli anni Cinquanta, per consonanza con il celebre Ritratto di donna della Galleria Corsini (tav. ?? - fig. ??) sono le due Gentildonne (tav. 51 – fig. 29 – 30), rese con un delicato impreziosimento della materia cromatica e con sapienti effetti di luce iridescente.
Di poco successive sono i due Ritratti di Signora (tav. 52 – fig. 31), che ho reperito nella fototeca di Federico Zeri, il Ritratto di nobildonna (tav. 53) della pinacoteca di Bari, il Ritratto di dama con fiori e ventaglio (tav. 54) ed il Ritratto di Maddalena Giordano De Tommasi principessa di Forino (tav. 55), entrambi transitati sul mercato antiquariale.
Agli anni Sessanta appartiene il Ritratto del musicista Niccolò Jommelli (tav. 56 – fig. 32) conservato nella pinacoteca del Suor Orsola Benincasa, databile con certezza al 1764, perché sul retro indica che il personaggio (nato nel 1714) ha cinquanta anni e del quale presentiamo anche un inedito dipinto (tav. 57), che lo raffigura più giovane e più magro…
Coevi il Ritratto di gentiluomo (tav. 58) e quello che raffigura il ministro Bernardo Tanucci (fig. 33)
Ci piace ricordare l’Ambasceria turca presso la Corte di Napoli del Prado, del quale esiste una copia autografa di buona qualità nel Palazzo Reale di Napoli: una galleria di volti scandagliati e messi a nudo senza che possano celare all’artista i lati più profondi e reconditi del loro carattere.
Nella sala XII del Palazzo Reale, arredata con mobili e vasi di stile Impero sono conservati cinque grossi dipinti rappresentanti Episodi della vita di don Chisciotte eseguiti dal Guastaferro, dal Bonito, che esegue La regina Micamiconi che invoca don Chisciotte di essere rimessa sul trono (tav. 28 – fig. 19) ) e Don Chisciotte mentre combatte contro un mulino a vento (tav. 27), dal Fischetti e dal della Torre.
Vi sono poi altri due dipinti eseguiti dal Bonito che rappresentano I ritratti in gruppo degli inviati straordinari del Sultano e del Bey di Tripoli, venuti a Napoli nel 1742 a rendere visita a re Carlo, il quale volle che fossero immortalati sulla tela. Dell’episodio il De Dominici racconta un curioso aneddoto:” Bonito dipinse naturale tanto che il Mustafa Bey, non avendo mai veduto simile artificio di ritrarre sì vivamente le persone, andava sovente a vedere dietro la tela, ove osservato non esservi nulla e mirando la sua effige viva per la superficie di essa pieno di meraviglia disse al pittore che egli sarebbe stato tenuto a rendere conto dell’anima di colui che dipingeva, al che il pittore rispose facendogli constatare che quelle tele dipinte non avevano né anima né spirito alcuno, benché sembrassero vive”.

Achille della Ragione



La monografia si può acquistare presso le librerie:
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giovedì 10 luglio 2014

L’ostentazione del nudo nelle scene di martirio di Andrea Vaccaro

001 - S.Sebastiano (Napoli, Museo di Capodimonte)

Un genere che incontrò grande successo a Na­poli, a conferma del carattere bonariamente devo­zionale e mistico della popolazione, fu la pittura di martirii, la cui culla fu rappresentata dalla bottega del Falcone. I suoi rappresentanti più noti furono, oltre allo stesso Falcone, Domenico Gargiulo, Scipio­ne Compagno. Agostino Beltrano, Niccolò De Simone, Carlo Coppola, Heinrich Schonfeld e l'ancora misterioso Maestro dei martirii.
I soggetti più raffigurati sono san Gennaro, il pa­trono della città, che fu decapitato nella Solfatara, san Sebastiano che fu trafitto dalle frecce e san Lorenzo che fu bruciato sulla graticola.
Sotto il profilo cronologico la massima attenzione da parte dei collezionisti verso questo genere di pittura sacra minore si ebbe tra il IV ed il V decennio.
Talune volte è difficile stabilire l'autografia di un martirio, perché i pittori, un po' per la comune origine nella bottega falconiana, un po' per abitudine invetera­ta di prelevare a vicenda dai quadri dei colleghi parti­colari iconografici di successo, non possedevano a vol­te uno stile originale.
L'esempio più significativo di quanto asserito è rappresentato dai quadri di Agostino Beltrano, un pe­dissequo imitatore della maniera altrui, spesso confuso col Gargiulo o con il Coppola.
I quadri di martirio sono basati su di un effetto scenico centrale, movimentato da episodi laterali minori in cui sono sempre presenti guerrieri romani a piedi e a cavallo e gruppetti di popolani, il tutto ralle­grato da vibranti tocchi di colore ed immerso in una caricata teatralità.
Anche grandi artisti come Ribera e Giordano ci hanno lasciato esempi significativi di dipinti basati sul tema del martirio e pure il Vaccaro sfornò decine di quadri durante tutte le fasi della sua lunga e feconda carriera. Egli detiene il primato indiscusso nella rappresentazione di S. Agata e San Sebastiano, oltre ad essere il più ispirato cantore della figura della Maddalena.
La rappresentazione dei supplizi risponde ad una precisa direttiva della chiesa all’epoca della Controriforma ed il martire interpreta l’eroe che esalta i valori della fede, sacrificando se necessario la propria vita, affrontando con serenità i più atroci patimenti. Il martirio funge da esempio di virtù e viene richiesto dalla Chiesa come sacrificio per affermare il suo primato morale di fronte non solo al paganesimo, ma anche e soprattutto nei confronti del protestantesimo luterano e calvinista.
Vaccaro risponde a questo imperativo categorico che anima le richieste della committenza, non solo ecclesiastica, con grande ardore e partecipazione e sa infondere ai suoi personaggi quel distacco dalla sofferenza che sconfina tra estasi e beatitudine, in stridente contrasto con la ottusa bestialità dei carnefici, inconsapevoli strumenti dell’umana malvagità.  
Le figure dei personaggi sono caratterizzate da un incarnato rosso bruno e spesso e volentieri ostentano, sia i maschi che le donne, delle nudità in aperto contrasto con i dettami del rigore iconografico. Non solo le sante, ma anche le stesse rappresentazioni di Cristo o di san Sebastiano sono facilmente riconoscibili, alla pari di quei putti rosati e ben paffuti, che sgambettano allegramente nelle storie sacre.
L’ostentazione del nudo è una scelta costantemente praticata dal pittore, il quale era particolarmente abile nel delineare il corpo umano al punto da pontificare in un’apposita accademia dedicata all’apprendimento di una tecnica adeguata attraverso un lungo tirocinio disegnativo.
I suoi santi sono raffigurati come eroi della Fede, alla pari dei suoi Gesù crocifissi o deposti, belli ed atletici, scolpiti col pennello con la stessa amorosa cura dello scalpello di Fidia o Prassitele. Alcuni più che martiri appaiono come vigorosi gladiatori, dalla monumentale muscolatura, ripresi in pose possenti e cariche di energia da intimorire gli stessi aguzzini.

002 - Martirio di San Sebastiano - Parigi Galerie Canesso

003 - Martirio di San Sebastiano - Napoli sacrestia della chiesa di S. Maria degli angeli alle Croci

004 - San Sebastiano curato dalle pie donne - Budapest museum

Le figure dei protagonisti sono costantemente esuberanti, una caratteristica fondamentale dei suoi dipinti, sia che si tratti di santi, che dei semplici operai intenti a costruire la cattedrale dell’Abbazia di Lincon o degli umili pastori che portano omaggio alla Natività. La grandezza dei corpi simboleggia quella morale di cui sono depositari questi eroi pervasi da una severità arcaica, derivante dal classicismo bolognese e dalla profonda conoscenza del mondo classico. Una sorta di “gravitas”, come giustamente sottolinea il Pacelli, che rappresenta una differenza sostanziale rispetto ai modi pittorici del Cavallino, del Beltrano e dello stesso Stanzione con i quali il Nostro si confronta quotidianamente in questo genere di pittura. Anche nella tavolozza vi è una sostanziale differenza: colori scuri in conformità con il messaggio di severità spirituale, che la sua arte intende comunicare ed assenza completa di ocra, rosso squillante e lapislazzulo.
Anche le figure femminili del Vaccaro, come quelle maschili, tracimano dignità e solennità; non possiedono le taglie delle agili indossatrici del Cavallino, né la moderna sensualità delle modelle pacecchiane, troneggianti nei loro eleganti abiti di seta, velluto e damasco, esaltati da preziosi gioielli. Esse con i loro abiti sobri somigliano ad antiche matrone romane ed in ambito pittorico alle monumentali donne falconiane.
Per la clientela laica sia napoletana che spagnola egli, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, crea scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente e dove raggiunge i suoi toni più elevati nel ritratto di Annella De Rosa, giudicato anche dall’Ortolani, che non aveva di lui una grande opinione, come il suo capolavoro.
Il Vaccaro diviene il pittore della "quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, intonato nei colori, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo maggior indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione" (De Vito).
Tra i suoi dipinti "laici", alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni.

005 - S.Agata (Napoli, Museo Filangieri)

006 - Martirio di S. Agata - Parigi Galleria Sarti

007 - S.Agata (Milano, Collezione De Vito)


Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base.
Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.

008 - Maddalena penitente (Palermo, Galleria Nazionale)


009 - Annella de Rosa