mercoledì 26 novembre 2014

Una monografia su Cesare Fracanzano




A ritmo incessante Achille della Ragione sforna libri sulla pittura del Seicento napoletano.
Dopo Andrea Vaccaro e Giuseppe Bonito, usciti a settembre, ora è la volta di Cesare Fracanzano, indagato in profondità, in un corposo volume corredato da oltre 150 foto, la gran parte a colori.
Numerosi sono gli inediti commentati per la prima volta, alcuni di eccellente qualità, i quali, oltre ad allargare il catalogo dell’artista, pongono Cesare almeno sullo stesso livello del fratello Francesco, fino ad oggi considerato dalla critica più avvertita su un gradino superiore.
La trattazione prende spunto dal racconto del De Dominici e si avvale di un corposo repertorio bibliografico di circa 200 titoli, oltre alla consultazione dei documenti di pagamento, puntigliosamente riportati per esteso.
Il capitolo sulla produzione pugliese è stato redatto da un giovane quanto valente studioso, Ruggiero Doronzo, già autore tempo fa di un libro sull’argomento: La bellezza del divino. Le opere pugliesi di Cesare Fracanzano.
Un libro che non potrà mancare nella biblioteca dello studioso o anche del semplice appassionato e che si  può ricevere a domicilio ordinandolo
alla Libreria Neapolis – tel. -  081 5514337 – info@librerianeapolis.it
alla Libro Co – tel. 0558229414 – 0558228461 – libroco@libroco.it
oppure contattando direttamente l’autore tel. 0817692364 -  a.dellaragione@tin.it

lunedì 24 novembre 2014

Al Madre una mostra su Lucio Amelio

Lucio Amelio


Napoli commemora Lucio Amelio, principe indiscusso della transavanguardia, con una grande mostra al Madre, aperta fino al 9 marzo 2015.
Una occasione unica per ripercorrere quanto è avvenuto in città dal 1965 sul palcoscenico dell’arte contemporanea, avendo come protagonista un personaggio al quale tutti riconoscono il merito di aver dato a Napoli una dimensione internazionale.
Il titolo della mostra: Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus, rappresenta il filo conduttore dell’esposizione, che occupa 19 sale del terzo piano, dove sono collocate le opere degli artisti da lui lanciati sullo scenario internazionale, dai napoletani: Barisani, Clemente, Longobardi, Paladino, Tatafiore ai grandi maestri quali Burri, Fontana, Warhol, Beuys, Twombly, Rauschenberg, Gilbert&George e tanti altri ospitati nella celebre galleria di Amelio, prima al Parco Margherita e poi a Palazzo Partanna.
E speriamo che ritorni attuale l’ipotesi di trovare a Napoli una sede degna per ospitare stabilmente la collezione Terrae Motus, da quasi 30 anni collocata a Caserta.
Ed ora per meglio conoscere il personaggio riproponiamo il capitolo dedicato a Lucio Amelio, sotto lo pseudonimo di L’artefice di Terrae Motus, nel nostro volume “Quei napoletani da ricordare”, I tomo, consultabile in rete.
Nel 1932 nasce a Napoli un poliedrico e vulcanico personaggio: Lucio Amelio, gallerista di successo con spazi espositivi in Piazza dei Martiri ed a Parigi; a Berlino ed a New York; cantante dalla bellissima voce ed attore per divertimento, ma principalmente uomo dinamico e trasgressivo dal carattere bizzarro e dalle solenni incazzature, che con le sue molteplici iniziative ha permesso a Napoli di diventare una delle capitali dell’arte contemporanea ove puoi incontrare più facilmente che a Milano o a New York un «grande» dell’arte moderna.
Questo ieri, oggi vi è il deserto e Lucio Amelio è ingiustamente dimenticato.
Molti napoletani hanno senz’altro incontrato più di una volta Lucio Amelio per strada, pur senza riconoscerlo. Era facile, infatti, vederlo ogni giorno percorrere a passi piccoli e veloci il tratto di strada tra piazza Vittoria e piazza dei Martiri, mentre si recava al suo quartier generale in palazzo Partanna, con il cappotto sempre abbondante, il doppiopetto sempre impeccabile, la camicia e la cravatta ricamata. Lucio Amelio è stato uno tra i maggiori galleristi internazionali di arte contemporanea, ma come tutti i napoletani rimane un gran sognatore per cui si è divertito a fare l’attore cinematografico lavorando con registi di successo, come la Wertmuller o il cantante, incidendo un 33 giri «Ma l’amore no», rivisitando vecchi brani degli anni Quaranta e Cinquanta.
Egli da ragazzo era stato indirizzato agli studi di ingegneria dal padre, costruttore di macchine industriali, ma dopo qualche anno aveva avuto il coraggio di cambiare strada scegliendo un nuovo indirizzo di studi a lui più congeniale: la facoltà di architettura. Nel 1951 lo troviamo nel direttivo della «Corda Frates» un’associazione culturale universitaria che organizza incontri con studenti stranieri tra i quali conosce il pittore berlinese Gunter Wirth. Nel 1953 prende la tessera del partito comunista e comincia a frequentare assiduamente la «Associazione culturale nuova» fondata da Gerardo Marotta.
Comincia poi il periodo dei viaggi ed a Berlino rincontra Wirth, dal quale viene introdotto negli ambienti culturali sia ad Est che ad Ovest della allora divisa città tedesca.
Abbandonati gli studi si stabilisce per un periodo di tempo a Berlino Est ove lavora in uno studio di architettura e frequenta il circolo letterario della scrittrice Anna Segers e l’ambiente che ruota intorno a Berlinere Ensemble. Alcune volte per arrotondare deve fare anche il manovale ed il giardiniere.
Nel 1959 l’improvvisa morte del padre lo spinge a ristabilirsi a Napoli ove lavora nei cantieri metallurgici di Bagnoli come interprete di tedesco. Ma la Germania lo ha ormai stregato e nel 1960 è di nuovo a Stoccarda come rappresentante di una ditta di prodotti chimici. Si rincontra col pittore Gunter With che nel frattempo ha aperto una galleria d’arte d’avanguardia. Nel 1963 organizza a Berlino una mostra di artisti napoletani e quindi l’anno successivo a Napoli un vernissage di artisti tedeschi. Nel cartoncino di invito di questa esposizione compare per la prima volta il «marchio Lucio Amelio».
Durante un’escursione sul monte Tibidabo egli è vittima di un gravissimo incidente, precipitando in una voragine. L’incidente lo costringe a letto per oltre un anno. Ristabilitosi riprende il lavoro all’Italsider, ma siamo giunti ormai vicino ad una data fatidica il 18 ottobre 1965, quando Amelio inaugurava una sua galleria di arte contemporanea con una mostra del pittore berlinese Heiner Dilly. La Modern Art Agency è uno spazio espositivo collocato due piani sotto il livello stradale al n. 85 del Parco Margherita, in un palazzo della buona borghesia, Giuseppe Berto è per i primi anni l’unico collaboratore di Amelio. Il critico d’arte Filiberto Menna stila la sua prima recensione ed effettua il primo acquisto.
Il giovane intellettuale salernitano Marcello Rumma, innamoratosi della galleria dalla prima mostra, sarà negli anni il maggior collezionista ed acquirente di opere.
La galleria che dal 1969 si trasferisce nella famosa sede di piazza dei Martiri 58, presenta nel corso degli anni le più significative tendenze dell’arte contemporanea italiana ed internazionale dal concettuale alla power art fino alla transavanguardia. È Lucio Amelio ad introdurre nei primi anni Settanta in Italia maestri del calibro di Kounellis, Twomblj e Bewys, con il quale vivrà negli anni un vero e proprio sodalizio ideale e culturale, che i maldicenti interpretarono in modo ambiguo.
Tra gli autori italiani è sempre Amelio ad imporre sul mercato e all’attenzione generale artisti come Paladino, Tatafiore e Longobardi presentati assieme in una rassegna dal titolo «Nuova creatività nel mezzogiorno» organizzata in galleria nel 1978 con la presentazione di Michele Buonomo.
Piazza dei Martiri diventa il punto di riferimento dei giganti dell’arte americana da Warhol a Rauschenberg; ma la vera fama culturale della galleria sta nel fatto che essa non si limita a presentare pedissequamente proposte già confezioniate e studiate per un pubblico straniero, bensì tende ad elaborare coerentemente a Napoli una strategia artistica in grado di valicare tutti i confini con la propria forma espressiva, senza tenere in gran conto il risultato squisitamente economico. Nel 1977 con la collaborazione di Raffaello Causa, unico incontro con le istituzioni, organizza una mostra su Carlo Alfano che si terrà a Villa Pignatelli.
Amelio organizza a Napoli l’incontro tra Warhol, l’artista che più vive nel mercato con Beuys l’artista che più vive nell’utopia e con questo connubio si getta il seme ideale che farà spiccare l’ultimo salto di qualità al lavoro della galleria.
E siamo al 23 novembre del 1980 quando un rovinoso terremoto scuote dalle viscere più profonde la Campania provocando lutti ed enormi danni economici.
Lucio Amelio ha un’idea folgorante che su questa catastrofe bisogna ricostruire una nuova idea dell’arte; sorge così Terrae Motus, una rassegna di opere di artisti contemporanei dedicata al cataclisma. All’iniziativa il cui nome è preso da un suggerimento di Giuseppe Galasso, aderiscono subito entusiasti Warhol e Beuys che fanno da traino a tutti gli altri artisti che nel corso degli anni aderiscono al progetto, regalando la propria opera ispirata al terreno alla Fondazione costituitasi nel frattempo nel 1982.
Complessivamente nel corso di dieci anni Terrae Motus si arricchisce di oltre cento opere dovute a 65 artisti appartenenti a 13 paesi. 
La collezione si avvale di opere di Warhol, Bauys, Kounellis, Longobardi, Vedova, Mapplettrorpe, Twombly e tanti altri per un valore commerciale stratosferico.
La mostra non ha mai avuto sedi stabili; le opere restano a Villa Campolieto dal 1982 al 1986, quindi una grande esposizione, sponsorizzata dal Banco di Napoli, al Gran Palais di Parigi, visitata da oltre ventimila persone. Molte città hanno offerto ad Amelio una sede stabile per esporre le sue opere, ma Terrae Motus nata a Napoli può vivere solo in questa città che è l’immagine della catastrofe più che del sole. La nostra patria è una caverna che da tremila anni è in subbuglio, fino a quando il terremoto è stato il catalizzatore di una scelta obbligata, assolutamente naturale.
Alcuni anni fa una sede prestigiosa sembrava pronta ad accogliere Santa Lucia al monte che la fondazione Amelio aveva acquistato per destinarla a sede definitiva di Terrae Motus, affiancando una serie di attività tali da creare un vero e proprio centro di produzione culturale con mostre, dibattiti, videoteche, archivi, biblioteche di settore, editoria specializzata, borse di studio, ateliers per artisti, ecc. 
La Fondazione una volta proprietaria di una sede così prestigiosa deve essere posta in condizione di poter compiere il suo ambizioso lavoro attraverso una feconda collaborazione con le istituzioni: Comune, Regione, Soprintendenze, Accademia di Belle Arti e altre organizzazioni cittadine nazionali ed internazionali.
C’è stato un momento in cui lo Stato, invece di favorire un progetto culturale così ambizioso, ha creato degli ulteriori problemi, riscoprendo un antico diritto di prelazione sull’immobile mai attivato negli anni precedenti e perciò scaduto. Dopo un faticoso tira e molla col Ministero dei Beni Culturali si è riuscito a superare anche quest’ultimo ostacolo ed il 7 gennaio 1991 cominciano i lavori di riattivazione e di restauro del vecchio convento sotto la direzione dell’architetto Pezzullo, una specialista nel restauro dei monumenti, la quale tende sempre in primo luogo al recupero del complesso nel rispetto della sua forma originale.
Purtroppo i lavori che si sperava potessero concludersi in tempi brevi, durarono un’eternità e mai come in questo caso andrebbe bene l’implorazione «Fate presto» che Warhol pose emblematicamente nella sua opera sul terremoto, riprendendola dalle pagine dei quotidiani, che chiedevano a viva voce il soccorso per le zone interessate dal sisma. Nell’ambito della realizzazione di una sede espositiva definitiva per le opere di Terrae Motus, Amelio ha pensato di affiancare anche un progetto europeo che possa rinsaldare un legame di sangue tra la cultura napoletana ed il resto del Sud. Un progetto che tenda a rivivificare tutte le capitali del bacino del Mediterraneo da Barcellona al Cairo, da Atene a Napoli. Città dove è nata la cultura che significa anche terra che bolle e cervelli caldi.
L’importante è che si riesca a creare a Napoli un istituto di cultura contemporanea che non sia in mano ai burocratici ed ai faccendieri politici, seguendo l’esempio di Gerardo Marotta che con il suo Istituto di Studi Filosofici ha creato una struttura privata da far impallidire l’università.
Per meglio conoscere il personaggio riportiamo una breve intervista che Amelio mi concesse tempo fa per un libro che stavo allestendo sui personaggi napoletani da ricordare. L’incontro con il signore dell’arte avvenne nella sua galleria di piazza dei Martiri e davanti a noi vi era un personaggio solare e tagliente che sapeva essere arcigno e conciliante. 
Signor Amelio, come lei sa Napoli riesce a mantenere il suo fascino in Italia e all’estero grazie all’attività di poche persone che si battono tra mille difficoltà, per l’avanzamento civile e morale della città. Ci indichi 15 nomi di concittadini che si sono maggiormente distinti.
«Galasso, Marotta, Villani, De Simone, Buonuomo, Paladino, Compagnone, Tatafiore, Pisani, Alfano, Longobardi, Donatone, Marra e Trisorio».
Non le nascondo signor Amelio che per me, collezionista di dipinti antichi ed amante del ’600 napoletano, scrivere su di lei e sull’arte contemporanea è molto difficile. Mi sa dire cos’è che la spinge ad essere un gallerista di arte moderna.
«La galleria è il punto di aggregazione di idee e di energie creative, che sono nell’aria e che trovano la loro espressione nelle mostre, ove possono raggiungere un pubblico a volte anche molto vasto, chiudendo così il circuito tra gallerista, artista, visitatore e collezionista.
Inoltre è il luogo dove oltre a promuovere e divulgare l’arte vengono eseguite delle ricerche estetiche esaminate in una prospettiva storica».
Dopo il successo di Terrae Motus so che Lei sta dedicando le sue energie ad un nuovo ciclo di lavoro e di ricerca che ha chiamato la Commedia dell’Arte e di cui simbolo è Pulcinella; può dirci qualcosa in merito?
«Dopo l’esperienza di Terrae Motus mi propongo oggi di indagare sulle inquietudini del nostro futuro. Oggi la gente si sente tradita dai mercati d’arte moderna perché l’arte stessa si è degradata ad oggetto di decorazione, così che un vento gelido ha coperto con un sottile strato di ghiaccio tutte le gallerie del mondo.
Così artisti contemporanei dopo aver indicato e denunciato la crisi del mondo moderno ne sono rimasti vittime.
L’arte però non può crollare assieme al mondo e perciò bisogna organizzare una sorta di resistenza estrema come quella degli eroi delle Termopili cantata da Kavafis.
Pulcinella diventa il simbolo di questa resistenza, perché è il personaggio a cui hanno tolto tutto tranne il desiderio, come una specie di Don Chisciotte, che con il suo volto malinconico indica la direzione per uscire dall’ombra.
Noi dobbiamo come gli antichi romani aspettare nel Senato che arrivino i barbari, forse non verranno mai, forse sono già arrivati con la faccia degli stessi artisti. Noi abbiamo il compito di scuotere le coscienze, di far rinascere la consapevolezza della decadenza e delle barbarie. Dobbiamo suonare il nostro tamburo di guerra. Dobbiamo accendere mille fuochi di creatività, nella città e altrove perché solo così l’arte può trasformare e migliorare tutto il mondo.
Parole che rimbalzano dal passato e sono estremamente attuali, soprattutto a Napoli dove il tempo scorre meno velocemente che altrove.
Nel frattempo la città attende ancora la raccolta Terrae Motus, parcheggiata nella provvisoria sede della Reggia di Caserta ed ha dimenticato l’opera e l’insegnamento di Lucio Amelio.

giovedì 13 novembre 2014

Un degrado intollerabile



Piazza Mercato ha rappresentato per secoli il cuore pulsante di Napoli, dove si svolgevano freneticamente le attività commerciali e  la vita civile e religiosa della città. Nel 1647 vi scoppiò la rivolta di Masaniello, l’anno successivo vi è la resa di Napoli a Don Giovanni d'Austria.
Prima di raggiungere piazza Mercato si osservano ad ogni angolo torme di scugnizzi che giocano a pallone, utilizzando come porte degli scalcinati cassonetti della spazzatura, le mura afflitte sono costellate di graffiti sconclusionati, opera di quel moderno flagello ubiquitario costituito dai writers, alternati a manifesti cadenti, alcuni vecchi di anni. Le lancette dell’orologio, uno dei pochi funzionanti in città, ci ammoniscono dello scorrere inesorabile del tempo, ben manifesto nelle minacciose crepe presenti nella maggior parte degli edifici della zona.
Nella piazza, a dovuta distanza, si fronteggiano due fontane, eseguite nel Settecento, formate da un obelisco piramidale poggiante su un robusto basamento con quattro leoni e sfingi agli angoli. Le fontane non avevano solo funzione decorativa, bensì fungevano principalmente da abbeveratoio per le bestie da tiro che trasportavano le merci. Oggi queste superbe fontane, come tutti i monumenti della città, versano in un pietoso stato di abbandono, oltre ad essere a secco, appaiono deturpate da sanguinose scritte in vernice rossa, mentre le teste di donna delle sfingi hanno subito la stessa misera sorte di Corradino e di Fra Diavolo:decapitate.
La folla di oggi, equamente composta da indigeni ed extra comunitari, ci rammenta il furore dei moti scatenati da Masaniello e quasi rimpiangiamo l’assenza del boia e le centinaia di teste mozzate, non solo di incauti rivoluzionari, ma soprattutto di tanti criminali.
Questi flash back che ci compaiono continuamente agli occhi della mente vengono puntualmente e fragorosamente interrotti dalle urla sguaiate dei venditori ambulanti, dagli appiccichi tra vajasse affacciate ai balconi, dagli stereo a pieno volume delle bancarelle, dalla musica neomelodica che straripa dagli appartamenti, ma su tutto domina il rombo dei motori delle infinite auto alla spasmodica ricerca di un parcheggio.
Il colmo del degrado è costituito dalla trasformazione della piazza in stabile campo di calcio con l’istallazione di due porte regolamentari in pianta stabile(foto)
La sera la piazza diventa terra di nessuno, con bande di teppisti che si impadroniscono dei luoghi sotto i fumi dell’alcol e della droga, mentre i radi lampioni proiettano una sinistra ombra a forma di falce. Sembrano impauriti gli stessi obelischi alla vista di tanti ceffi, nonostante ne hanno visti nella loro lunga storia di volti patibolari.
Di notte poi, andati finalmente a dormire balordi e rompiballe, gli unici a girovagare per la piazza sono i fantasmi degli impiccati, molti dei quali morti con l’illusione di migliorare la città, per cui dannati a vederla andare irrimediabilmente verso il baratro.

sabato 8 novembre 2014

La tenacia dell’amore senile


Dedicato ad Elvira


L’amore può resistere in eterno ed in questo si differenzia dall’attrazione fisica, destinata a finire con lo scorrere inesorabile degli anni e con le ingiurie che essi, impietosi,  arrecano al corpo, quando la lunga ed allegra cavalcata della gioventù cede il passo agli acciacchi ed al perfido filo tessuto dalle Parche.
Proprio allora una lunga storia d’amore può vivere i suoi momenti più esaltanti anche se la passione iniziale è svanita, sostituita però da complicità, comprensione, rispetto, amicizia, affetto, autoironia, attributi caratteristici di ogni autentica, libera, fortunata avventura amorosa.
La donna che sa di essere amata incede sicura di sé tra la gente con il passo felpato di chi si muove leggero tra le nuvole, come una superba ragazza senza età, incurante delle rughe, che pure hanno solcato il suo volto come capricciose onde marine o come campi di grano dopo l’aratura.
La bellezza l’aveva resa affascinante e potente, è stata, a secondo dei giorni e delle notti Sherazade e Mata Hari, Sophia Loren e la fata Morgana, ha prodotto sogni, estasi ed affabulazioni, ma anche dannazione e tormento; ora vuole semplicemente perdersi nell’amore del suo innamorato.
Bisogna vivere senza drammi l’incedere delle lancette dell’orologio dell’universo, perché chi ama ed è amato vive al di fuori di quelle fugaci convenzioni rappresentate  dallo spazio e dal tempo.

domenica 2 novembre 2014

Santi, sante e satiri

tav. 7 - San Giovanni Battista  - Napoli museo di Capodimonte


Il San Giovanni Battista (fig. 8 – tav. 7) viene donato nel 1972 al museo di Capodimonte dalla principessa Scanderberg e rappresenta il santo, figlio di San Zaccaria e Santa Elisabetta, con i suoi abituali attributi: la lunga croce e l’agnello.
L’opera è da collocare cronologicamente a metà strada nel cammino artistico del Fracanzano, dopo il superamento dell’iniziale fase manieristica legata allo stile del Borghese e del Santafede e l’entrata nella bottega del Ribera.
Alle spalle Cesare si lascia opere come la Sacra Famiglia della chiesa di San Gaetano a Barletta o gli affreschi del coro della Sapienza a Napoli e dedica particolare attenzione agli esiti del Ribera e del Maestro degli annunci ai pastori. I colori grumosi, spessi, di cui è fatto questo San Giovanni o la materialità del vello dell’agnolone che bruca, mostrano come il pittore ben conoscesse i quadri del suo ancora anonimo collega.
Tali accostamenti ben si esprimono nei colori spessi e grumosi e nella palpabile materialità del vello dell’agnello, mentre il fondale scuro sul quale lampeggia il panno che ricopre il santo è un chiaro richiamo alle tematiche riberiane.
L’impasto cromatico del corpo possiede una calda luminosità ed un tenero colorismo, che fa presagire l’adesione alla lezione di Van Dyck intorno al 1635.
Nel San Giovanni possiamo cogliere le tre anime di Cesare: un repertorio accademico basato su figure devozionali rese con rigore formale, un aggiornamento dello stile giovanile sulla lezione del naturalismo ed un’adesione ai dettami di piena luminosità dei seguaci vandichiani.
Proseguiamo esaminando un San Giovanni Battista (tav. 18), conservata a Prato nella collezione di Daniele Storai, il quale appartiene senza dubbio alla fase classicistica per la cromia dolce e per la definizione delicata della parte anatomica. Tali accostamenti ben si esprimono nei colori spessi e grumosi e nella palpabile materialità del vello dell’agnello, mentre il fondale scuro sul quale lampeggia il panno che ricopre il santo è un chiaro richiamo alle tematiche riberiane.
L’impasto cromatico del corpo possiede una calda luminosità ed un tenero colorismo, che fa presagire l’adesione alla lezione di Van Dyck intorno al 1635.
Il San Michele Arcangelo (fig. 9 - tav. 8), conservato nella Certosa di San Martino, è stato per un periodo attribuito ad Andrea Vaccaro, prima che Bologna lo assegnasse definitivamente a Cesare, mettendolo in correlazione con una serie di tele dell’artista fortemente influenzate dal Van Dyck, databili intorno al 1635.
Poiché l’altare su cui è attualmente collocata la tela si trovava prima degli anni Quaranta in un luogo non ben definito del presbiterio e solo in seguito venne trasferito dal Fanzago nel Coro dei Conversi, l’opera dovrebbe essere stata eseguita prima del 1631.

tav. 8 - San Michele arcangelo che schiaccia il demonio - Napoli chiesa della Certosa di San Martino
tav. 11 - La Maddalena al sepolcro - Trani, Episcopio
tav. 12 -S. Ignazio di Antiochia e S. Bibiana - Gravina di Puglia, chiesa del Gesù
tav. 18 - San Giovanni Battista - Prato collezione Storai
tav. 19  - Maddalena in meditazione - Italia collezione privata

L'estendersi dei contatti con gli ordini religiosi lo portò ad assumere commissioni da parte dei Gesuiti, com'è testimoniato dal San Francesco Saverio che battezza gli indigeni (tav. 2) per la chiesa napoletana del Gesù Vecchio (documentato al 1641). Il modello ebbe fortuna in ambito pugliese e gli procurò una commissione dalla famiglia Carducci Artemisio: realizzò una serie di tondi (tav. 3) di soggetto religioso che fungevano da sovrapporte all'interno del palazzo avito a Taranto, oggi fortemente alterati da impropri restauri alla fine del Settecento come sottolinea lo Speziale; si tratta di dodici dipinti ovali che rappresentano i santi a cui era devota la famiglia Carducci: Sant'Andrea, Santo Stefano, San Giovanni Battista, San Girolamo, San Pietro, San Sebastiano, San Michele Arcangelo ed altri santi non meglio identificati. 
Rinviamo al capitolo sui dipinti chiesastici la trattazione del S. Andrea (fig. ) della chiesa di S. Pasquale di Taranto e del San Giovanni Battista (fig. ??) sito a Barletta nella chiesa del S. Sepolcro. La Maddalena in preghiera (fig. 2) conservata nella chiesa di San Domenico Maggiore è raffigurata “in linea con la lirica religiosa seicentesca, a metà fra oratoria sacra e poesia, accentuandone tuttavia l’aspetto devozionale. Il volto estatico e contrito, l’atteggiamento da penitente della figura, il panneggio rigonfio e impreziosito, alludono appunto a quel carattere fra il mistico e il mondano che anche la letteratura attribuisce alla Maddalena”(D’Alessandro).  Un cogente paragone può essere instaurato tra la figura della Maddalena, che si distende morbidamente nello spazio esiguo della composizione e  l’Immacolata(tav. 5) della chiesa dei Gerolamini, collocata dalla critica agli anni 1640 – 45, un periodo in cui Cesare, suggestionato dai modi del Lanfranco, propone le sue figure in atmosfere delicate, alla pari del Novelli, anche lui fedele alla sua formazione vandichiana, memore di reminescenze naturalistiche. La Maddalena è resa con una tavolozza in cui prevalgono il bianco, il rosso e l’oro, a richiamare esplicitamente l’armonia cromatica rubensiana. L’opera va collocata nel percorso dell’artista in un momento successivo al Cristo flagellato dei Gerolamini ed al San Michele Arcangelo della Certosa di San Martino, lavori che manifestano una spiccata predilezione per un uso della luce e del colore.  
Cesare sposò una donna molto bella: Beatrice Covelli il 16 luglio 1626 a Barletta e la utilizzò più volte come modella, prendendo ispirazione dalle sue forme, ma soprattutto dal “dolce girar degli occhi”, ad imitazione della maniera del divino Guido Reni. Le protagoniste di molti suoi dipinti ricalcano costantemente lo stesso modello femminile: capelli biondi, sguardo dolcissimo rivolto verso l’alto, mani dalle dita lunghe ed affusolate, dalla S. Elena (fig. 1) della chiesa di S. Maria di Nazareth di Barletta, alla Maddalena orante (fig. 2) della chiesa di San Domenico Maggiore, dalla Maddalena al sepolcro (fig. 13 - tav. 11) della curia di Andria alla Madonna della Speranza(fig. 4) della chiesa di S. Rita alla Speranzella ed all’Immacolata (fig. 7) dei Gerolamini, senza contare le tante sante in estasi dipinte per collezionisti privati da S. Apollonia (fig. 18) a S. Eufemia (tav. 20), S. Bibiana (tav. 12) a S. Agata (tav. 26), a confermare il racconto del De Dominici di una modella preferita.

tav- 20 - S. Eufemia - Napoli collezione privata
tav. 21 - Santa in estasi  -Napoli, collezione privata
tav. 22 - S. Caterina da Siena - Napoli museo di San Martino
tav. 23 - S. Maria Egiziaca- Napoli, museo di San Martino
Una Maddalena in meditazione (fig. 17 – tav. 19) presente nel 2009 sul mercato francese presso l’antiquario Turquin, utilizza la stessa modella dal profilo aquilino e dai capelli biondo dorato che fa da protagonista a tanti altri dipinti del Fracanzano. Il quadro mostra l’influenza della pittura neoveneta che dopo il 1635 irrompe sul panorama artistico napoletano, influenzando una generazione di pittori e segnando il tramonto del luminismo caravaggesco. Cesare non rifiuta le sue reminiscenze naturaliste, come dimostra il notevole inserto del teschio su cui medita la Maddalena, che fa da contrasto al tenero incarnato ed allo sguardo languido della splendida modella, che impersona anche S. Apollonia (fig. 18) in una composizione che richiama a viva voce la grazia espressiva di un Bernardo Cavallino al culmine della sua attività intorno al 1645 e S. Eufemia (fig.19 – tav. 20)  nel dipinto esposto nella mostra Ritorno al Barocco, un’opera del periodo vandichiano eseguita negli stessi anni in cui realizza la S. Elena (fig. 1) conservata a Barletta e la Maddalena (fig. 2) della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, nella quale si possono riscontrare “suggestioni per modelli reniani nella resa espressiva e per il fare rischiarato e luminoso del Monrealese, ma anche i segni di una oramai lontana e comunque breve esperienza, condotta agli inizi degli anni Trenta, a contatto con gli ultimi naturalisti napoletani – da Falcone a Guarino – per la resa densa e corposa del camicione bianco, del corpetto celeste e dell’ampio manto arancione, che coprono sontuosamente la bellissima modella con i biondi capelli al vento”(Spinosa).
La S. Eufemia non si riconosce per i consueti attributi iconografici, quali la ruota della tortura ed il leone che le mangia la mano, ma soltanto dalla palma del martirio e dalla ferita sul collo e come ha sottolineato la Piscitello ripropone la stessa figura posta in basso nella tela, firmata e documentata al 1641, raffigurante San Francesco mentre battezza gli indigeni (tav. 2), conservata a Napoli nella chiesa del Gesù Vecchio, per cui la datazione è da porre in quegli anni, quando Fracanzano esegue anche l’Assunta ed i due santi nella chiesa della Sapienza e l’Immacolata (tav. 5) dei Girolamini.
Il confronto serrato con la S. Elena (fig. 1) conservata a Barletta costituisce un ulteriore conferma della datazione nel corso degli anni Quaranta, mentre si può ravvisare, ammirando questo notevole dipinto, una sintesi delle più significative esperienze maturate a Napoli, da Van Dyck a Vouet, rispettivamente nel pittoricismo accentuato e nella impostazione delle mani della santa.
Dopo aver prestato il volto ad una Santa in estasi (tav. 21) di collezione privata la nostra modella diviene la protagonista di uno dei capolavori di Cesare: la Carità (fig. ??), del Kunsthistoriches museum di Vienna, inviata in dono dal Fracanzano a papa Urbano VIII Barberini assieme ad una poesia scritta da un suo amico sotto lo pseudonimo di un inesistente poeta antico: Timandro di Persia.
La Maddalena (fig. 13 – tav. 11), già nella chiesa del SS. Sacramento ed oggi conservata presso l’Episcopio di Andria è ben diversa dalla consueta rappresentazione della penitente tanto cara all’iconografia del XVII secolo. Il dipinto acquista notevole qualità grazie alle forme piene ottenute da colori densi e corposi, ai quali si accostano velature di straordinaria trasparenza e saggi di abilità dell’artista nel trattare la chioma  sgranando la superficie dei particolari riprodotti con minuziosa evidenza e con esplicite intenzioni di resa luministica. L’opera presenta la padronanza da parte dell’artista, di un suo linguaggio personale, di misura e controllo della capacità espressiva attraverso linee sciolte e fluide, pennellate morbide e pastose. Il dipinto è intriso di luce, sostenuto da un grande senso della forma e promana una dolcissima sensualità, raggiungendo per qualità e finezza di esecuzione uno dei vertici della sua produzione pugliese.
Nel museo di San Martino sono conservati due quadri assegnati a Cesare: una S. Caterina da Siena (tav.22), border line ed una S. Maria Egiziaca (tav. 23) di attribuzione certa.  Dubbia anche l’autografia dell’Ultima comunione di S. Maria Maddalena (fig.20 ) conservata a New York nella collezione Weitzner, la cui foto abbiamo reperito nell’archivio di Federico Zeri. Come pure problematica, anche se interessante, stabilire l’esatta paternità della S. Margherita (tav. 24) di collezione Volpicella a Napoli.
Il Martirio di S. Barbara (tav. 25), conservato nel museo nazionale d’Abruzzo a L’Aquila è contraddistinto da una cromia brillante, da una notevole abilità nella conduzione degli scorci e da indiscutibile sicurezza compositiva. In particolare risalta la luce ritmicamente modulata ad evidenziare la scena, che si focalizza sulle due figure riprese a mezzo busto, entrambe collocate ai lati della tela, lasciando intravedere uno scorcio di paesaggio dai colori plumbei. Il dipinto fissa una tragedia già consumata con la santa, vissuta nel terzo secolo, che è stata appena pugnalata dal padre per essersi rifiutata di adorare gli idoli, mentre una folgore divina colpisce l’artefice di un così atroce delitto. Il modello adoperato dal pittore per definire la santa è ancora quello delle tante Immacolate realizzate a Napoli con la bionda chioma discinta che accompagna il reclinare del capo dal volto ovale e dai grandi occhi chiari, mentre le mani della fanciulla dalle dita affusolate costituiscono una sorta di firma criptata dell’autore.
Particolarmente interessante è una S. Agata (tav. 26) conservata in Calabria nella chiesa di S. Maria Maggiore a Corigliano in provincia di Cosenza, a lungo ritenuta di ignoto ed assegnata poi a Cesare dalla Bugli. L’opera, la prima rinvenuta fuori da Napoli e dalla Puglia, riprende la santa con modalità stanzionesca, con una finestra sullo sfondo che mostra un paesaggio solcato da un pendio rischiarato da bagliori abbaglianti, a dimostrazione di una predilezione mostrata in quegli anni dal Fracanzano verso soluzioni pittoriche di matrice veneta.
Una pala d’altare di grandi dimensioni, raffigurante Sant’Ignazio di Antiochia e santa Bibiana (tav. 12), già nella chiesa del Gesù a Gravina ed oggi conservata nella sala dei Paramenti della cittadina pugliese fu presentata e commentata ampiamente dalla Pasculli Ferrara alla mostra su Angelo e Francesco Solimena due culture a confronto, che si tenne tra Pagani e Nocera Inferiore nel 1990.   In precedenza Lucatuorto aveva identificato i documenti riguardanti la committenza dell’opera voluta da Magnifica Balsama Ioanna Lupi, che, nel suo testamento del 10 luglio 1645, istituiva erede dei suoi beni la erigenda chiesa del Gesù, la quale venne rapidamente costruita ed inaugurata il 9 settembre 1646, con il dipinto specificamente richiesto:”un quadro di S. Bibiana e S. Ignazio martire, ma sopra detto quadro ci haverà da essere il predetto nome di Gesù”. La Pasculli Ferrara evidenzia strette analogie con la Vergine dell’Apocalisse di Barletta (databile agli anni 1633 – 1639) sia nella figura dell’imponente S. Ignazio che richiama il San Nicola per lo stesso volto estatico, colto dal basso verso l’alto con gli occhi trasognati al cielo e il fitto panneggio bianco della dalmatica, sia nei putti che reggono il monogramma di Cristo, uguali a quelli intorno alla Vergine , con gli analoghi svolazzanti panneggi. Inoltre grappoli di luce delicatissimi nel merletto ai piedi di S. Ignazio ricordano quelli della tovaglia nel Miracolo della Porziucola sempre a Barletta, mentre la santa Bibiana rimanda alla Santa Caterina d’Alessandria (tav. 27) del fratello Francesco, conservata a Roma presso la sede dell’Inps, nello scialle increspato di pieghe annodato al petto, nella foggia del calzare, nell’imponenza della figura, nel più solido pittoricismo. Tipico invece di Cesare, sigla costante che ritroviamo nei suoi quadri, è il giganteggiare delle mani in una sacra gestualità, mani intrecciate sul petto di Bibiana che indicano l’accettazione del martirio, ma le ritroviamo con lunghissime dita che premono sul petto in molti altri dipinti, dal San Giovanni Battista di Capodimonte alla S. Elena ed al San Francesco del Miracolo della Porziucola di Barletta, fino all’Immacolata della chiesa napoletana di San Ferdinando.
Noi concordiamo pienamente nell’attribuire a Cesare la paternità del dipinto, ma per completezza riportiamo il parere del De Vito, il quale ragiona diversamente: “ Il S. Ignazio e la S. Bibiana non supportano il nome di Cesare bensì quello di Francesco. Le figure dei due Santi sono monumentali è stato scritto; se però di monumentalità si vuol parlare occorre ricordare che Cesare rare volte ricorre a questo metro e comunque in maniera meno accentuata. L’espansione orizzontale del S. Ignazio  è sintomatica così i suoi caratteri fisiognomici, le rughe del volto sono profonde e incise, le mani grosse con dita noccolute e nervose, i panneggi pur ampi sono raccolti in pieghe sottili, il che è solo di Francesco . Il viso della santa è rotondo come quello della S. Caterina già Sciarra, i capelli sono raccolti con un ciuffo alla Domenichino, il manto della santa Bibiana è partito a metà alla stessa maniera. I putti che reggono il logo della Compagnia di Gesù sono diversi da quelli costantemente eguali di Cesare, biondi e ricciuti. Nei colori si ritrova, nel mantello del Santo, il giallo brunito già utilizzato nella figura centrale del Tiridate e nella Dalmatica un bianco abbagliante, quello stesso che aveva colpito De Dominici nel Transito ai Pellegrini”.
Grazie a Sebastian Schutze siamo venuti a conoscenza di un particolare inedito della personalità di Cesare: la sua partecipazione all’attività culturale napoletana dell’epoca attraverso la frequentazione assidua dell’Accademia fondata dal Marino e l’amicizia con Basile. Questi dati ci permettono di collocare cronologicamente nella quinta decade un originale dipinto raffigurante una Famiglia di satiri (fig. 21), firmato e conservato in una raccolta modenese, opera di alta qualità che sembra sgorgare spontanea dalla linfa vigorosa del Ribera degli anni Quaranta.Il dipinto è stato pubblicato per primo dal De Vito e poi Spinosa lo ha commentato, sottolineando la somiglianza tra la bionda ninfa ed altre figure femminili costantemente nelle vesti di sante, ma soprattutto la presenza a Napoli negli anni Quaranta di quadri di soggetto affine realizzati dal Castiglione, dal De Lione e dal De Simone, attratti anche loro da temi dionisiaci.
Strettamente collegato alla precedente tela Due satiri ed un genio alato (fig. 22), un soggetto bizzarro dal significato oscuro, nel quale forse la fonte ispirativa è un rilievo antico “con la vecchia che, la testa cinta di tralci di vite, suona un tamburello su cui è dipinto un ritratto di bambina, mentre si volge sorridendo verso il giovane e muscoloso satiro col capo cinto di pampini, che le sta di fronte spavaldo, mentre il putto, genietto, biondo e alato, con la destra poggiata sulla schiena ricurva della rugosa e ispida megera ci guarda con un’estressione maliziosa e allusiva” (Spinosa).
Il Baccanale (tav. 27) di collezione privata è una graziosa composizione, la quale dispiega, su un delicato paesaggio dai toni alquanto chiari, posto sul margine destro, una rappresentazione dai marcati connotati erotici, avente come figure principali due Satiri nell’atto di sedurre una giovane donna distesa; a corollario troviamo alcuni leggiadri e giocosi Amorini, alcuni dei quali intenti ad asportare da un tino dei grappoli d’uva.
L’opera è rappresentativa del gusto barocco che si diffonde nella pittura napoletana tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento: l’atteggiarsi delle figure è alquanto teatrale, la sensualità del soggetto è acuita, oltreché dalle nudità femminili e dalla morbidezza carnosa dei putti, dalla stesura cromatica degli incarnati e dagli effetti quasi evanescenti dello sfondo, particolarmente per i brani di verzura.
Cesare Fracanzano, attivo tra le native Puglie e la capitale Napoli, denota netti richiami con le opere mature di Massimo Stanzione e con la “fase barocca” dello spagnolo Ribera; una particolare modalità, assolutamente peculiare del nostro, è la definizione dei visi femminili, dagli occhi quasi taglienti e dal profilo greco, come è riscontrabile anche nella Carità del Kunsthistoriches Museum di Vienna.
E per completare l’omaggio al dio del vino segnaliamo, prima con una foto precedente al restauro, una impressionante esercitazione su Ribera: un Bacco ebbro (fig. 23) pubblicato da Stefano Causa, il quale sottolinea sul lato sinistro gli splendidi inserti del capro e dell’asino col basto nella porzione superiore e poi con un’immagine più recente (fig. 24 – tav. 28) dopo la decurtazione di un’ampia porzione sul lato sinistro, dove si potevano scorgere un caprone ed un tino stracolmo di grappoli d’uva. Il quadro si trova oggi nelle raccolte del Prado a Madrid. La figura del Sileno giganteggia con il suo addome batraciano, straripante, che deborda senza limite, in una posa di estatico abbandono, mentre gli fanno corona due innocenti puttini ed un satiro dallo sguardo animalesco, che sembra voler far sgorgare il vino direttamente da un grappolo d’uva. La materia cromatica si espande generosamente ed il colore paonazzo del volto del Bacco, tendente al rossiccio, induce a pensare a Francesco come possibile autore, ipotesi attributiva da me accettata nella mia monografia sull’artista, mentre Spinosa propende per Nunzio Rossi e Stefano Causa, come abbiamo riferito, per Cesare.
Un capitolo sulla grafica di Cesare Fracanzano al momento non è proponibile, perché abbiamo un solo disegno(firmato e datato 1657) potenzialmente attribuibile alla sua mano e che segnaliamo in questa sede, trattandosi dell’immagine di una santa: Maria Maddalena con angeli(fig. 25), conservata a  New York nella Morgan Library; sul recto del foglio vi è un Paesaggio(fig. 26), oltre di nuovo alla firma ed alla data di esecuzione.

tav. 24 - S. Margherita - Napoli collezione Volpicella
tav. 25 - Martirio di S. Barbara - L'Aquila museo nazionale d'Abruzzo
tav. 26 - S. Agata in carcere - Corigliano (Cosenza) chiesa di S. Maria Maggiore
tav. 27 - Francesco Fracanzano - S. Caterina d'Alessandria - Roma Inps

sabato 1 novembre 2014

Che volontà per fare volontariato


1° novembre 2014  - Il Mattino

Gentile dottor Gargano,
la ringrazio per la pubblicazione della mia lettera sul volontariato, ma credo necessario collegarla a questa                        

 Che volontà per fare volontariato

A Napoli tutto è difficile, anche cercare di essere utile agli altri, come dimostra il parziale racconto di questa odissea: in agosto, dopo aver faticosamente recuperato il numero della Caritas, che non compare né sull’elenco, né in rete, telefono per conto di mia moglie, laureata e con conoscenza perfetta di inglese e francese, offrendo la sua collaborazione in favore degli immigrati “ Pensi a fare i bagni e ritelefoni a settembre”. Nuova telefonata dopo 20 giorni, l’interlocutore prende nota di mail e cellulare ed assicura una sollecita risposta, che non arriva, per cui nuovo sollecito, parlo con un dirigente, il quale mi fornisce la mail della suora incaricata a cui scrivo attendendo riscontro da oltre un mese. Amen.
Passiamo alla comunità di Sant’Egidio, anche essa ignota ad elenco telefonico e pagine bianche: ottengo un numero dalla sede di Roma, chiamo ripetutamente lasciando il mio recapito in segreteria, dopo 10 giorni mi chiama una signora in una lingua più spagnola che italiana, alla quale, nel presentarmi, offrendo la mia collaborazione, rammento la mia attività trentennale di medico plurispecialista, ma soprattutto la mia lunga esperienza nel portare conforto a tossicodipendenti e malati terminali. “ Bene abbiamo proprio bisogno di personale per preparare i pacchi per i barboni!”
Nonostante si tratta di una proposta nobilissima rimango stupefatto e mi fermo qui per non tediare il lettore, anche se potrei citare almeno altri 10 tentativi andati a vuoto.