giovedì 21 aprile 2016

Prima dei brogli, imbrogli elettorali



Da settimane, in assoluto contrasto con la legge elettorale ed infrangendo norme civili e penali, dilagano per Napoli, dispendiosi quanto giganteschi cartelloni multicolori che inneggiano alle qualità dei candidati sindaci. Il comune sembra complice, la magistratura non interviene, mentre i cittadini subiscono in silenzio questa plateale infrazione della par condicio, prima dell’apertura ufficiale della campagna elettorale.

Achille della Ragione

lunedì 11 aprile 2016

Ischia mangia e stupisci

forio d'Ischia

La Campania, culla della dieta mediterranea, ha sempre dato grandi soddisfazioni ai cultori della buona cucina, con prodotti di alta qualità che solo questo terreno è in grado di produrre. La tradizione gastronomica della regione ha trovato una precisa identità nell'isola d'Ischia.  Molti piatti di Ischia possono essere considerati autentiche specialità: sull'isola si prepara il  coniglio, in varie maniere e vi è una cucina marinara di buon livello, alimentata dalla antica tradizione peschereccia. Ma soprattutto la cucina ischitana si distingue, anche nella preparazione dei piatti classici regionali, per la particolare delicatezza del sapore degli ortaggi coltivati nella zona.
I prodotti alla base della gastronomia locale sono i legumi (fave, piselli, fagioli), i frutti (limoni, arance, pesche, albicocche, ciliegie, uva, fichi, noci, fichi d'India). Il limone ricopre un parte fondamentale nella tradizione locale isolana. E' usato per fare qualsiasi cosa, dalla pasta, ai biscotti, alla cioccolata, alle marmellate fino ad arrivare al famoso Limoncello.
Anche ortaggi (pomodori e pomodorini, carciofi, insalate, melanzane, peperoni, patate, zucchini), erbe aromatiche (basilico, origano, prezzemolo, salvia, rosmarino, peperoncino forte), frutti del bosco (castagne, funghi, asparagi, fragoline, mirto, mirtillo), sono prodotti tipici dell'isola che vanno ad incorniciare e a profumare le tante pietanze isolane.
L'isola di Ischia offre anche ottimi prodotti del mare (pesce azzurro, totano, alici, polipo, fravagli, scorfano), che si accompagnano al "vino" tenuto nelle botti di castagno conservato nelle cantine scavate nel tufo verde. Molto importante è la produzione vinicola dell'isola, che si avvale della terra resa fertile dal vulcanismo e del clima mite, per produrre vini (quasi esclusivamente bianchi) d'ottima qualità.
Prima degli anni ’60, quando uomini come Angelo Rizzoli a Lacco Ameno e Vincenzo Telese ad Ischia capirono che le bellezze dell’Isola ed il suo stesso sottosuolo rappresentavano la vera ricchezza del futuro, si viveva di pesca ed agricoltura; due attività che hanno fortemente caratterizzato anche la rinomata tradizione gastronomica ischitana. Proprio nei periodi in cui non erano esattamente “rose e fiori”, la creatività ischitana emergeva anche a tavola, sebbene solo per far di necessità virtù. Il rinomato pane e cipolla, sinonimo attuale di parca mensa, era un pasto frequente nelle nostre famiglie, specie in tempi di guerra: costava poco e saziava. E la tradizione contadina di un’Isola dove l’agricoltura estensiva non è mai esistita e ciascuno ha sempre coltivato il suo lenzuolino di terra, valorizzava anche “’o ppane sotto ‘e fasule”, ovvero le fette di pane posato, abilmente “riciclate” mettendole a spugnare nel liquido di cottura dei fagioli bolliti.
Lo stesso coniglio, che tuttora cresce allo stato brado alle falde dell’Epomeo (da qui la forte tradizione venatoria dell’Isola, importante luogo di passo, tra l’altro, della beccaccia, del tordo, della quaglia e della tortora), ha rappresentato un punto cardine dell’agricoltura locale. Il coniglio all’ischitana e la sua tradizione di piatto domenicale per eccellenza, mantiene tuttora in vita tantissimi piccoli allevamenti di privati i quali, con passione certosina, ancora si affannano a raccogliere palieri dovunque e garantire così un pasto sano alle proprie fattrici. E c'è da dire che da qualche anno a questa parte è tornato in auge ad Ischia l’allevamento del coniglio di fosso. Un tempo, infatti, i contadini realizzavano profondi fossi nel terreno e lì lasciavano crescere una particolare razza di conigli che, nello scavare profonde gallerie e cibati esclusivamente di erba, conservavano quasi intatto il proprio stato brado: il tutto, a pieno vantaggio del sapore della carne, dura da staccare dall’osso. Ma la fame, in quel tempo, faceva uscire il lupo dalla tana anche per le pietanze di  mare. Sai, ad esempio, come nasce il cosiddetto "pesce all’acqua pazza"? È un piatto tutto ischitano, nato dal fatto che non tutti potevano permettersi un pasto a base di pesce; e allora i meno abbienti attendevano con ansia il rientro dei pescatori di saraghi, ai quali chiedevano con grande umiltà "nu poco 'e murzillo", ovvero gli avanzi dell’esca rimasti attaccati agli ami dopo la pesca. I più fortunati riuscivano così a racimolare tanti piccoli murzilli di alici o sarde che, cotti in acqua, aglio, peperoncino e prezzemolo, erano una rara autentica leccornia, scopiazzata ed adeguata ai tempi da molti maestri dei fornelli.
A queste radici, semplici ed orgogliose, s'ispira la cucina ischitana, anche nelle sua versione contemporanea, sempre accompagnata dai profumi ed i colori dell'isola.
Buon appetito!

I Primi Piatti
  • Spaghetti con le Vongole
    E' questo un altro dei piatti classici di Napoli. La ricetta classica napoletana non prevede l'uso del pomodoro (le cosiddette "vongole in bianco") e diventa molto più gustosa utilizzando le "vongole veraci", riconoscibili (oltre che dal prezzo salato...) dalle maggiori dimensioni e dalle caratteristiche "corna". Sono in ogni caso ottimi anche con le vongole comuni e perfino con le "telline", le vongole piccolissime. Al posto delle vongole si possono usare le cozze.
  • Pasta e fagioli con le cozze
    Anche la pasta e fagioli è uno dei piatti tipici della cucina napoletana. Questa variante ischitana prevede l'aggiunta delle cozze, che danno un sapore particolare alla ricetta. Fondamentale (e chiaramente derivato dalla cucina popolare di un tempo, che tendeva ad evitare sprechi) e' l'uso della "pasta mischiata", cioè di vari tipi di pasta che potrà essere acquistata già pronta, oppure utilizzando piccole quantità di paste diverse (penne, rigatoni, bucatini, fusilli ecc.) La ricetta classica napoletana prevede che la pasta cuocia nell'acqua che si aggiungerà direttamente nella pentola del sugo, in quantità tale da poter essere completamente assorbita al termine della cottura (la minestra va mangiata asciutta e non liquida).
  • Gnocchi alla Sorrentina
    Gli gnocchi possono essere conditi anche con del sugo di ragù (fatto con la carne macinata), ma la ricetta classica è questa. Si chiamano alla Sorrentina perché l'ideale sarebbe utilizzare la mozzarella di Sorrento (il "fiordilatte"), fatta a treccia, che è considerata la migliore d'Italia. La perfezione sarebbe poi condirli in apposite pentoline di creta e passarle qualche minuto al forno per far sciogliere bene la mozzarella (il parmigiano va aggiunto sempre alla fine!). Per chi non voglia utilizzare gli gnocchi, con lo stesso condimento si potrà utilizzare la pasta (consigliate le penne). I veri gnocchi devono essere fatti a mano con le patate. Non è poi tanto difficile.
  • Migliaccio
    Migliaccio è parola dai significati diversi secondo le regioni, ma dall'origine comune. Deriva infatti dal miglio, la cui farina era un tempo usata per numerose preparazioni oggi sostituita con quella di granturco. In Campania e' una specie di polenta cotta al forno. Il migliaccio può essere dolce o salato. Per quello dolce, nelle nostre zone, si utilizzano gli spaghetti o i maccheroni.
  • Pizza Margherita
    La pizza, nata come la maggior parte dei cibi napoletani dalla cucina "povera" di un tempo, ha acquistato oramai una fama immensa nel mondo. La pizza Margherita è la ricetta più classica e deriva il suo nome dalla Regina Margherita di Savoia, che la inventò, divenendone una ghiottissima consumatrice. Inutile dire che la vera pizza napoletana andrebbe cotta in un classico forno a legna, che a Napoli oggi sono pressoché identici a quelli scoperti negli scavi di Pompei ma per un uso casalingo andrà bene anche il classico forno elettrico di casa.

I Secondi Piatti

  • Il Coniglio all'Ischitana
    Sarà senz'altro strano, ma il più tradizionale piatto ischitano non è a base di pesce, bensì il coniglio. Il sugo sarà l'ideale per condire la pasta (la ricetta classica prevede i bucatini!), completata con abbondante parmigiano grattugiato al momento.
  • Pollo alla Fumarola
    Un altro piatto ischitano è il pollo alla fumarola chiamato così per il semplice fatto che nel posto in cui viene cotto sono situate molte sorgenti termali e le cosiddette fumarole che proprio innalzano i loro vapori dalla sabbia infuocata il pollo si cuoce avvolto soltanto in carta d'alluminio ed in uno strofinaccio da cucina.
  • Pesce all'acqua pazza
    E' un altro tipico piatto della cucina napoletana, semplice e molto gustoso. Con la ricetta si potranno utilizzare svariati pesci: i più tipici sono la spigola e il "cuoccio", una specie di scorfano dall'aspetto abbastanza brutto, ma dal gusto saporitissimo.
  • Frittura di Paranza
    Classica pietanza della cucina mediterranea in cui si uniscono i sapori delicati dei vari ingredienti con la freschezza dei prodotti del mare.
  • Totano Imbottito
    Per i palati sopraffini non c'è niente di meglio che sedersi a tavola davanti ad una delle prelibatezze che rendono questo piatto unico nel suo genere, stiamo parlando del famoso piatto a base di pesce : il totano imbottito. Il ripieno di quest'ultimo da al piatto un sapore caratteristico perché si riesce a cogliere in esso il dolce e il salato sapientemente fusi insieme. 

Bevande

  • Il Limoncello
    Il limoncello è un gustoso liquore tipico di Sorrento, Capri e Ischia. La preparazione classica prevederebbe l'uso solo di limoni locali, grandi e profumatissimi. 
  • Il "Nocillo"
    Una delle ricette tradizionali più antiche e salutari che vede la noce protagonista è quella del nocillo, che si può fare anche in casa. Ma solo in pochissimi giorni dell'anno, ovvero a cavallo del 24 giugno, festa di san Giovanni, quando le noci acerbe sono nel loro momento "balsamico". Protetto dal mallo verde e dal guscio morbido, non ancora lignificato, il ghrtiglio non presenta gocce d'acqua all'interno pur essendo ricco di oli essenziali.

I Dolci

  • Le "Sfogliatelle"
    Fra le paste le più celebri sono le Sfogliatelle, dolci a base di ricotta e zucchero preparate sia frolle (cioè lisce esternamente e di pasta più morbida), che ricce, cioè a sottili strati croccanti sovrapposti.
  • Il Babà
    Altro dolce celebre è il babà, un dolce di pan di Spagna leggerissimo a forma di fungo, che va assolutamente mangiato (nessuno ha mai saputo spiegare il perché storico...) dopo averlo spruzzato con del rhum!
  • Le Zeppole
    Molto gustose anche le zeppole di San Giuseppe, anelli di morbida pasta rivestita di zucchero e riempiti di crema e amarene. Si parlava di Bigne' di San Giuseppe. Vi e' anche una versione di questi bigne' al forno, ma questa e' la ricetta per quelle fritte. L'origine di questo dolce è antichissima, intorno al si celebravano a Roma le Liberalia, le feste delle divinita' dispensatrici del vino e del grano, nel giorno del 17 marzo. In onore a Sileno compagno di bagordi e "precettore" di Bacco, si beveva rosso nettare e si friggevano profumate frittelle di fiumi. Quasi nello stesso giorno, il 19 marzo, e in occasione della festa dedicata a S. Giuseppe si ripete la cerimonia delle frittelle.
  • La Pastiera
    La regina dei grandi dolci locali è in assoluto la pastiera, una torta asciutta a base di ricotta, pasta sfoglia e chicchi di grano aromatizzati col profumo di fiore d'arancio.
  • Gli Struffoli
    Molto ricercati sono i dolci pasquali e natalizi: gli struffoli (palline di pasta dolce croccante guarnite di piccoli chicchi di zucchero colorato) e i vari dolci di pasta dolce, simili alle cassate siciliane.

mercoledì 6 aprile 2016

Un Andrea Vaccaro in Uruguay

fig. 1 - Andrea Vaccaro - S. Agata - 92 x72 -  Uruguay collezione  Gonzaga

Trovare un Andrea Vaccaro di notevole qualità a migliaia di chilometri da Napoli non deve sorprendere, perché sappiamo che il pittore esportava più di metà della sua copiosa produzione in Spagna, da dove nel corso dei secoli i suoi dipinti si sono sparpagliati per ogni contrada, tenendo conto che sull’impero iberico il sole non tramontava mai.
Abbiamo così avuto la fortuna di poter visionare, anche se solo in foto una splendida S. Agata (fig.1) della collezione Gonzaga sita in Uruguay, assegnata dalla critica a scuola bolognese, che viceversa presenta tutti gli attributi del malizioso pennello dell’indiscusso specialista del decolté: Andrea Vaccaro, dal famoso “sottoinsù”, il dolce girar degli occhi al cielo, (fig.2) alle labbra carnose, dall’epidermide alabastrina (fig.3) all’accurata definizione del seno, sodo e prorompente, anche se castamente ricoperto (fig. 4).
Il quadro in esame, come si evince dal retro (fig.5 – 6), dove è apposto un antico cartellino ed una fantasiosa attribuzione al Guercino, ci permette di ricostruire i passaggi di proprietà del dipinto, grazie alle ricerche di una studiosa, la dottoressa Lucia Tonini, autrice del libro”I Demidoff a Firenze”, la quale ha comunicato al signor Gonzaga le sue conclusioni che parzialmente riportiamo:
“Il quadro di cui mi ha mandato la foto è molto interessante e nel gusto collezionistico dei Demidoff, sia padre (Nikolaj Nikitich) che figlio (Anatolij Nikolaevich). Le loro collezioni a Firenze erano dunque due. La prima, quella di Nikolaj esposta nel palazzo Serristori, alla sua morte venne rispedita quasi interamente in Russia e di questa abbiamo elenchi del 1826, 1828, 1830 dove però non risulta il n.377 (il numero sul cartellino di cui mi manda la foto).
Della seconda collezione, quella di Anatolij, rimane il catalogo dell'asta avvenuta però nel 1880, cioè 10 anni dopo la sua morte. Nel frattempo lui stesso e gli eredi avevano venduto molte opere a altre aste. Non ho ancora guardato il catalogo generale dell'asta del 1880 e lo farò appena possibile.
Vedendo il tipo del cartellino e l'indicazione della Galleria Demidoff penso che si tratti piuttosto di un quadro appartenente al figlio (Anatolij) e esposto nella galleria della villa di San Donato vicino a Firenze a partire circa dagli anni '40 dell'800: controllerò il catalogo d'asta. Se però è stato venduto prima da Anatolij stesso non troverò niente.  Va considerato che alcune opere del padre entrarono a far parte della collezione del figlio e che nella lista di Nikolaj ci sono dei quadri senza numero”.

fig. 2 - Andrea Vaccaro - S. Agata - (particolare degli occhi) Uruguay collezione  Gonzaga
fig. 3 - Andrea Vaccaro - S. Agata - (particolare del collo)  Uruguay collezione  Gonzaga

La S. Agata (fig.1) fa parte di quella produzione per una clientela laica sia napoletana sia spagnola che il Vaccaro, in una tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, creava con scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità latente;  diviene così il pittore della "quotidianità appagante, tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi, filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne il suo  indice di gradimento in quella fascia della società spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in quelle napoletane di pari stato ed inclinazione" (De Vito).
Tra i suoi dipinti "laici", alcuni, di elevata qualità, sembrano animati da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da melodramma.
Le sue sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni. Il Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero, pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne era alla base. Egli si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate, tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento. Le sue sante, tutte espressioni di una terrena beatitudine. L’idea del martirio e della penitenza è sottintesa ad un malizioso compiacimento e venata da una appena percettibile punta di erotismo. Queste eterne bellezze mediterranee dal volto sensuale ed accattivante fanno mostra del loro martirio con indifferenza e con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta adamantina. La pittura in queste immagini dolcissime e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave ed incanta l’osservatore.

fig. 4 - Andrea Vaccaro - S. Agata - (particolare del seno) Uruguay collezione  Gonzaga
fig. 5 - Andrea Vaccaro - S. Agata - (retro della tela 1) Uruguay collezione  Gonzaga

fig. 6 - Andrea Vaccaro - S. Agata  - (retro della tela 2) - Uruguay collezione  Gonzaga


sabato 2 aprile 2016

Renato De Falco, la Cassazione del dialetto ci ha lasciato

Renato De Falco

L’avvocato Renato De Falco, per anni pontefice massimo degli studi sul dialetto napoletano, ci ha lasciato. Vogliamo ricordarlo proponendo ai lettori il capitolo a lui dedicato del mio libro: Il salotto di donna Elvira, consultabile in rete. 
Una delle riunioni più divertenti nel salotto letterario di mia moglie Elvira fu quella con Renato De Falco, nato nel 1928, avvocato, scrittore, giornalista, autore teatrale, filologo e massimo esperto nel mondo di vernacolo partenopeo, vera e propria lingua, non semplice dialetto, con un vocabolario ricchissimo, una grammatica complessa ed una quantità di parole onomatopeiche.
Medaglia d’oro al merito forense, da oltre 40 anni De Falco è un puntiglioso ricercatore delle peculiarità del napoletano attraverso indagini storiche e glottologiche, che hanno dato vita a numerose pubblicazioni destinatarie di numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’estero, oltre ad essere state argomento di conversazione nel corso di una rubrica televisiva, da lui condotta per 15 anni, con alti indici di ascolto e di gradimento.
De Falco ha sempre messo in risalto che una specifica peculiarità del napoletano è da ravvisarsi, in maniera primaria anche se non eclatante, in alcune prerogative morfologiche e fonetiche tutte sue proprie.
La sua opera più importante è Alfabeto Napoletano, edito in tre volumi da Colonnese, che comprende la storia di oltre 1500 parole da “abbaia” a “zumpà”, di cui illustra dettagliatamente i significati, puntualizzando le spesso complesse etimologie, riportandone le presenze nei classici della letteratura, della poesia e della produzione musicale. Specifici i riferimenti a peculiarità del parlare napoletano, alle cento e più parti del corpo umano, ai 62 sinonimi di denaro, alle 85 specie di percosse manuali, ai vocaboli pervenutici dalle varie lingue dei tanti dominatori che si sono alternati a Napoli, dagli Spagnoli ai Francesi, ai giochi dell’infanzia e ad altre curiosità dialettali, il tutto corredato da richiami a proverbi, adagi e locuzioni idiomatiche.
Alfabeto napoletano è un lavoro fondamentale, fondato su un’ampia documentazione ed una profonda conoscenza dei classici della letteratura dialettale. E’ un contributo allo studio ed alla sopravvivenza, non solo della lingua di Napoli ma anche della cultura di cui essa è viva voce, che si legge come un romanzo storico, scritto con la prosa di un gentiluomo  classico del primo Novecento, con le squisitezze linguistiche di un Gino Doria o di un Amedeo Maiuri.
De Falco si pone alla pari di famosi glottologi del passato, dall’Abate Galiani all’esimio Basilio Puoti, maestro di Francesco De Sanctis, muovendosi con eguale abilità tra scritti classici e lingua parlata.
Riportiamo la motivazione del Premio “I migliori dell’anno” ad Alfabeto Napoletano nel 1987 in Svizzera: “…basato su una rigorosa dottrina scientifica che fa conoscere da un punto di vista inconsueto tutta la vivacità di una lingua, ma anche la cultura di un popolo di cui essa è viva espressione, animo e sentimento”.
Altro libro sfizioso di De Falco, che costituì il principale argomento di conversazione nel salotto, è La donna nei detti napoletani, raccolta di 600 proverbi su mogli, madri, sante, sorelle e suocere, assurti a dignità letteraria nel Seicento, che affrontano tutta l’inesauribile gamma della commedia umana in relazione al pianeta femminile: i piaceri e, soprattutto. i dolori della vita coniugale, le tentazioni ed i desideri della carne, il codice morale  della donna esemplare, la sconvenienza della donna disonesta, il fardello non sempre felice della procreazione ed anche se il ruolo assegnato alla donna può contrastare con la sensibilità contemporanea, l’icastica potenza di certe immagini ed il linguaggio pittoresco e colorito garantiscono una lettura sapida e divertente, di una comicità irresistibile.
Prima di concludere, mi preme raccontare due episodi: quando, con De Falco,  assistemmo ai Monologhi della vagina recitati al Teatro Diana da Marina Confalone, che snocciolò una serie infinita di sinonimi in vernacolo della vulva, da “fessa” a“pucchiacca” e quando in occasione di una sua conferenza al Circolo Posillipo, De Falco si trovò a discutere indifferentemente di “paposcia” e “guallera”ed io, forte delle mie cognizioni anatomiche, tenni a precisare la differenza tra il primo termine che indica l’ernia inguinale mentre il secondo è sinonimo di varicocele, aggiungendo alcune dizioni sconosciute al mio dotto interlocutore: “guallera a tracolla” e “guallera ‘a pizzaiola”.

Achille della Ragione

Copertina di Alfabeto napoletano