domenica 28 aprile 2019

Sempre meno figli: fine di una civiltà





Gentile signora Aspesi,
Sono anni che non Le scrivo, quanta malinconia. Ricordo le sue acute risposte alle mie lettere, spedite durante il lungo periodo in cui sono stato gradito ospite di Rebibbia. Ogni volta che veniva pubblicato un mio intervento, il Venerdì di Repubblica girava vorticosamente tra le tristi mura ed era letto con eguale attenzione da galeotti e personale penitenziario. Ricordo, tra le tante, con particolare emozione le missive pubblicate il 23/12/2011, il 7/12/2012 ed il 12/7/2013.
Le scrivo perché mi ha affascinato la sua risposta alla donna che non vuole avere figli e vorrei far conoscere la mia opinione in merito.

Sempre meno figli: fine di una civiltà

Uno dei motivi principali che condurranno al declino della nostra civiltà è costituito dalla scarsa quanto nulla volontà delle donne di fare figli. A tutto anelano: studiare, lavorare, passare da un rapporto libero ad uno ancora meno impegnativo e dimenticano che l’unico motivo che giustifica la loro presenza sulla Terra è uno soltanto: fare figli.
I governi possono e debbono cercare di invertire questa deleteria situazione, creando cospicui incentivi economici alle coppie che decidono di avere figli, oltre a potenziare i servizi di assistenza per l’infanzia per agevolare le madri che si ostinano a lavorare.
Ma bisogna fare presto, perchè entro 10 – 15 anni non si potrà più fare nulla ed il declino demografico sarà irreversibile.

Achille della Ragione

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 Venerdì di Repubblica 10 maggio 2019
- Rubrica Questioni di cuore - pag.10-11
Lei mi ha scritto altre volte della sua vita tribolata, e per questo pubblico la sua lettera, anche per richiamarla alla realtà. Ma cosa le hanno fatto le donne perché lei pensi , e scriva, che il loro compito sulla Terra è solo quello di fare figli?
Sono sulla Terra per vivere, contribuire al miglioramento del mondo e alla sua difesa, e anche per essere madri: se lo desiderano, se sono nelle condizioni non solo economiche per crescere dei figli, possibilmente con la collaborazione di un padre.
Poi essere madri, come padri, non assicura che si sia in grado di farlo, di essere ottimi e non pessimi madri e pari. Lo direi soprattutto per i padri, che spesso abdicano a questa funzione affidandone tutta la responsabilità alle madri.
E poi,sempre seguendo il suo ragionamento, secondo lei o si è madri o si studia, o si è madri o si lavora, o si è madri o si hanno rapporti liberi?
Rifletta anche su questa sua brutta frase: le madri che "si ostinano" a lavorare.
Magari lo fanno per mantenere i figli e talvolta il marito, o perché amano la loro professione o la loro arte o perché vogliono fare carriera, o essere indipendenti o addirittura per consolarsi di un compagno difficile come forse è stato lei.
Quanto alla nostra famosa civiltà, se ci guardiamo attorno possiamo dire che è già in caduta libera e non certo per colpa delle donne.
Per favore allarghi la sua visione oltre ai labili confini di questo nostro piccolo Paese: fuori c'è un mondo da capire e accettare, soprattutto con cui collaborare perché non i popoli più poveri, ma i più ricchi, i più avanzati, i più forti, possono invaderci e assaltare la nostra economia.
Natalia Aspesi

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Il Mattino 11 maggio 2019, pag. 42
Caro Achille, il calo demografico del nostro Paese è allo stesso tempo l'origine e l'effetto di tutti i mali italiani. Il numero medio di figli per donna nel 2018 (fonti Istat) è stato 1,34. Abbiamo però avuto momenti peggiori. Il punto più basso in termini di fecondità è stato toccato nel 1995: le donne avevano 1,19 figli di media.
Colpa degli scarsi investimenti per conciliare lavoro e famiglia per le donne? Verissimo.
Certo ci vorrebbero più asili, orari flessibili, servizi di sostegno e permessi speciali. Ma anche nei paesi europei dove si spendono più denari per la famiglia non si assiste certo a un boom della natalità,
C'è allora un aspetto culturale che spesso viene sottovalutato: l'egoismo strisciante nella società moderna e appagata della Vecchia Europa.
Le donne, come gli uomini, si dedicano più a loro stessi. Al lavoro, al tempo libero, ai social.
Fare figli è un atto di generosità, un impegno che dà gioia ma che richiede anche tanto impegno e tempo da dedicare. E oggi abbiamo fatto di tutto per averne sempre meno.


Federico Monga 

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mercoledì 24 aprile 2019

La chiesa della Nunziatella negata ai turisti

La Repubblica 23 aprile 2019, pag XV
La chiesa della Nunziatella, sita nei pressi dell’omonima e gloriosa scuola militare, è uno degli edifici sacri più prestigiosi della città ed è praticamente negato alla fruizione di turisti e appassionati d’arte.
Infatti i fedeli possono tranquillamente ascoltare la messa la domenica, poscia la chiesa con i suoi capolavori di Francesco de Mura e di tanti altri artisti famosi chiude inesorabilmente.
Se un’associazione culturale benemerita, come quella che da circa 30 anni guido con piglio autorevole, volesse visitare la chiesa, dovrebbe sottoporsi ad un assurdo diktat, imposto dalle autorità militari: stipulare preventivamente un’assicurazione che copra eventuali incidenti durante il percorso e fornire con grande anticipo copia del documento d’identità dei partecipanti.
Imposizioni a cui non sono sottoposti i fedeli, forse perché protetti dall’alto dei cieli e perché non hanno nulla da nascondere sulla loro identità.
Una disposizione che grida vendetta o quanto meno richiede ragionevole giustizia e sulla quale chiedo al Ministro della Difesa (anche se in questo caso si tratta di un’offesa) di pronunciarsi, ricordandogli che la chiesa è patrimonio di tutti i Napoletani, che debbono poterla visitare quando vogliono e mostrarla con orgoglio ai numerosi turisti, che finalmente hanno capito che Napoli è una grande capitale che merita di essere conosciuta in tutto il mondo.



 pubblicata da Il Mattino 21 maggio 2019, pag. 42, con il titolo. " Quanti ostacoli per visitare una chiesa"

mercoledì 10 aprile 2019

Visita sabato 20 aprile: mostra su Caravaggio


 

Carissimi amici ed amici degli amici esultate, la prossima visita guidata, la 32^ del nuovo anno accademico, sarà sabato 20 aprile (il giorno prima di Pasqua), quando visiteremo la mostra su Caravaggio con appuntamento alle ore 10:30 alla biglietteria del museo di Capodimonte.
Dopo aver visto la mostra, se avremo tempo, forza e voglia visiteremo anche il settore del museo dedicato alla pittura italiana dal Trecento al Settecento.
Nelle more vi invio un mio articolo sull’argomento e vi segnalo che in futuro potrete sapere dove si svolgono le visite consultando il mio blog digitando il link
www.dellaragione.eu

Spargete la lieta notizia ai 4 venti

Achille

La flagellazione di Cristo
Museo di Capodimonte
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La sindrome di Caravaggio


La sindrome di Caravaggio si manifesta in maniera diversa a seconda  colpisca un comune mortale o un celebre studioso, eventualmente specialista riconosciuto dell’opera del sommo pittore lombardo.
Nel primo caso si avverte in maniera lampante, soprattutto se si è al cospetto dei dipinti dell’ultima fase, pregni di sangue e di dolore, di patimento e di morte, la presenza del male, una sensazione incombente che toglie il fiato ed induce a pensieri tristi e commendevoli.
Nei bambini induce spesso un pianto disperato alternato a singhiozzi. Ne ebbi la conferma quando, in occasione della mostra napoletana sull’Ultimo Caravaggio, tenutasi alcuni anni fa a Capodimonte, le maestre si lamentavano di non poter portare in visita le loro scolaresche, perché la visione delle opere era traumatizzante per i pargoli.
Anche io, col mio gruppo di Amici delle chiese napoletane, organizzai una decina di visite guidate ed i frequentatori avevano un’età media di settant’anni, eppure l’effetto non era dissimile, incubi notturni nei giorni successivi, che colpivano prevalentemente  signore  d’annata e sensazioni di angoscia, che perduravano settimane anche in generali in pensione e attempati professionisti e magistrati.
Una sottovariante della morbosa patologia, una sorta di sindrome di Stendhal al massimo grado, si avverte poi nel guardare la celebre Medusa degli Uffizi, un quadro straordinariamente bello ed orrifico in egual misura, che induce una vertigine di sensazioni terebranti da indurre la perdita dell’equilibrio, mentre alcuni soggetti urlano a squarciagola.
Ma lo scopo di queste brevi considerazioni sulla sindrome era a margine dell’esaustivo articolo dell’amico Pietro Di Loreto sull’ondata incontenibile di nuove attribuzioni a Caravaggio di quadri assolutamente inadeguati,  da parte di critici anche di fama internazionale.
Si potrebbe ipotizzare un motivo meramente economico alla base di questa mania attribuzionistica, perché un quadro che diventa Caravaggio al posto di copia o di ignoto caravaggista aumenta di oltre mille volte il suo valore venale. Da poche decine di migliaia di euro a svariate decine di milioni. Invece l’ansia incontenibile che spinge a dare la paternità del Merisi a quadri improbabili è dettata unicamente dal desiderio per ogni studioso di divenire famoso per la scoperta, carpendo la celebrità dell’artista.
Non si potrebbero spiegare altrimenti errori clamorosi del passato: uno fra tutti quello di battersi per l’autografia del Cavadenti, un quadro di una mediocrità sconcertante, da parte di una studiosa dell’autore riconosciuta internazionalmente come Mina Gregori.
Ed all’incontrario la vicenda del Martirio di S. Orsola, già di proprietà della sede napoletana della Banca Commerciale(non inseguiamo di chi è ora dopo infiniti accorpamenti tra istituti di credito), che nonostante richiamasse a viva voce l’autografia, anche per la presenza in primo piano dell’autoritratto del pittore, è rimasta  a lungo nell’anonimato o sotto nomi assurdi come il Preti, prima della decisiva scoperta dei documenti.
Alla mostra attualmente a Firenze, affianco a capolavori, si presentano due nuovi Caravaggio…, mentre l’ultima rivista di storia dell’arte ne presenta addirittura sette.
Dobbiamo giustamente dire Basta!!!, un minimo di serietà ci vuole.
Gli studiosi affetti dalla sindrome e sono molti farebbero meglio a farsi curare da uno psicanalista, invece di vaneggiare con nuove  sensazionali scoperte.
P.S. Sulla mostra fiorentina fa testo il competente commento del professor Di Loreto, vorrei solo aggiungere, da napoletanista immarcescibile, un parere sui due pseudo Ribera: il primo è copia da un originale perduto, il secondo è di un ignoto spagnolo, contemporaneo del valenzano, di cui non mi sento di dare un nome preciso.

mercoledì 3 aprile 2019

Mostra di Canova al Mann tra i palpiti dei suoi marmi

fig. 1 - Museo Archeologico


Al Mann (fig.1), nella splendida sala della Meridiana (fig.2), impareggiabile spazio espositivo, sono state montate delle pedane dove troneggiano le sculture più ammirate dell’arte Neoclassica. Sono 12 opere meravigliose tra gessi e marmi che inondano di bellezza un ambiente già così ricco di tesori, unico luogo dove l'Antico può dialogare col Moderno.
La mostra (fig.3) comprende più di cento opere considerando marmi, gessi, bozzetti in terracotta, modelli in argilla, bronzi, dipinti, disegni e tempere. Si tratta senza ombra di dubbio dell’esposizione più importante attualmente in Italia.
Essa inizia al pian terreno (fig.4) con l'autoritratto del Canova che introduce le prime opere ispirate all'arte greco-romana, di cui l'Archeologico di Napoli è il migliore custode. In fondo sopra i primi scalini c'è la monumentale statua di Ferdinando IV, sistemata proprio nella nicchia dove il Canova l'aveva pensata. Il re di Napoli accoglie il visitatore nel suo museo e nuova Minerva, col nome di Ferdinando I, lo invita a visionare quel patrimonio artistico che impressionò lo scultore di Possagno nel 1780 quando venne a Napoli la prima volta. All'epoca la preziosa collezione insieme ai reperti degli scavi di Pompei ed Ercolano erano situati nella Reggia di Portici per volere di Carlo di Borbone.
Antonio Canova eseguì per la nostra città le statue equestri di Piazza del Plebiscito (fig.5). Quella di re Carlo fu inizialmente destinata a Napoleone, ma dopo il  tramonto di costui, su quel cavallo sedette il nostro re. Ferdinando I in seguito volle farsi immortalare vicino al padre.
C'è una quarta opera canoviana al museo di Capodimonte: si tratta della statua a grandezza naturale di Letizia Bonaparte (fig. 6), madre di Napoleone.
Tornando alla mostra, nella sala della Meridiana si possono ammirare i sei marmi che provengono dal museo di San Pietroburgo. Essi esprimono il concetto fondamentale del Neoclassicismo: "la compostezza della forma e la quieta armonia". Secondo il Winckelmann, massimo critico d'arte tedesco dell'epoca, gli artisti non devono copiare gli Antichi, ma solo imitarli. Antonio Canova s'innamora dell'arte classica ma è pur sempre figlio del suo tempo e l'intera sua opera risente alla lontana di Michelangelo, il genio del Rinascimento,vedi i due pugilatori (fig.7), come anche vibra di echi berniniani, evidenti nell'Ercole e Lica (fig.8). 


fig. 2 - Sala della Meridiana

fig. 3 - Logo della mostra

fig. 4 -  Ingresso alla mostra
fig. 5 - Statue equestri  di Carlo III e Ferdinando I

fig. 6 - Statua di Letizia Bonaparte

 fig. 7 -  I due pugilatori
 fig. 8 -  Ercole e Lica

I due sommi scultori dei secoli precedenti ci sono stati e non si possono ignorare, così come non si può non vedere quel sentire Romantico, già presente nell'aria e che esploderà nel primo Ottocento. La morte sempre presente nel suo percorso terreno da quando il padre lo lasciò orfano a soli quattro anni lo solleciterà di continuo per le varie committenze. E' il pittore dei monumenti sepolcrali per eccellenza e la tenebrosa porta oscura presente nella tomba di Clemente XIII della basilica di San Pietro, indicante il passaggio all'aldilà, si carica di significati misteriosi e angoscianti nell'opera più suggestiva di Antonio Canova: "Il monumento funebre di Maria Cristina d'Austria" (fig. 9) di Vienna. In entrambe queste opere c'è l'angelo della morte con la fiaccola capovolta senza fiamma, il Genio Funerario, di cui al Mann è presente la sola testa (fig.10) di provenienza dall'Ermitage. E'un grido sordo senza voce ma esprimente la paura del trapasso.
Come non pensare ai Sepolcri di Ugo Foscolo, suo grande ammiratore! Dentro l'urne confortate di pianto.
Ancora nella sala della Meridiana scopriamo come una visione lugubre, sebbene illuminata e fissata in verticale alla parete, una lastra tombale (fig.11) abbastanza grande. Eseguita per il decesso di un suo grande amico napoletano, il marchese Francesco Berio, che lo aveva ospitato tante volte nel suo palazzo di via Toledo. Un gesso quello di Napoli, mentre il marmo cambiò destinazione e ricoprì nel 1822 in forma solenne la tomba del Nostro a Possagno, provincia di Treviso, dove un tempio che ricorda il Pantheon di Roma dietro una facciata con colonne doriche simile al Partenone, fisserà in eterno la memoria del massimo scultore del Neoclassicismo.
Nessun Moderno amò l'Antico più di lui.
Tuttavia le opere che invitano al sorriso, perché sono il riflesso di quell'armonia inseguita e perseguita come la ricerca costante di leggerezza e purezza espressiva sono in primis : "Le tre Grazie" (fig.12) che occupano una posizione preminente poggiate come sono da sole su un piedistallo. Opera celeberrima commissionata da Josephine Beauharnais, prima consorte di Napoleone.
Costituiscono il pezzo forte della mostra. Il marmo osservato già solo da dietro si direbbe l'amplesso di pietra più tenero in assoluto per l'intreccio delle braccia.
Di fronte due pedane non troppo contigue, condividono ambedue il dolce peso di due spettacolari sculture. Sono animate da un soffio vitale che le rende felici e sembrano volteggiare immerse per incanto nella stessa aura di bellezza celestiale. Ecco "Adone e Venere" ritratti nell'ultimo momento d'intimità amorosa prima che il cinghiale stronchi la bellezza del giovane amante. L'altra coppia è "Amore e Psiche stanti" (fig.13), un'opera pervasa da una riflessione filosofica sul concetto di anima, rappresentata dalla farfalla che Psiche pone nelle mani di Amore. Nell'abbraccio delicatissimo Lei sembra assorta sull'idea dell'immortalità dell'anima e Lui contempla il dono offerto.
Sull'altra pedana, sfiorante la prima per la similitudine delle forme, ecco "La danzatrice con le mani sui fianchi" e dulcis in fundo: "Ebe" (fig.14) la ninfa svolazzante che offre agli Dei il nettare nella coppa. Anche queste solenni figure femminili furono volute dall’imperatrice di Francia per la sua dimora della Malmaison, acquisite in seguito dallo zar di Russia.
L’opera più famosa di Canova si trova nella Galleria Borghese a Roma e rappresenta Paolina Borghese come Venere vincitrice (fig.15), di cui in mostra è presente un modesto modello in gesso (fig.16).
Vittorio Sgarbi definisce Canova con due aggettivi: "inquieto e diviso". E' vero, Antonio purtroppo vive la fine della Repubblica Veneziana. Sa quello che lascia e cioè il culmine della bellezza artistica di cui è degno erede, ma non sa e teme il futuro.
Napoleone partorito dal mostruoso ventre della Rivoluzione Francese sarà il suo incubo e allo stesso tempo l'idolo nel quale depone la speranza del buon governo e della pace.
Ricordiamo infine con gratitudine l’importanza capillare che ebbe Canova, quale commissario pontificio nel recupero delle spoliazioni artistiche operate da Napoleone.
Elvira Brunetti

 
fig. 9 -  Monumento funebre di Maria Cristina d'Austria
 fig. 10 -  La testa e il genio della morte
 
fig. 11 -  Lastra tombale
 fig. 12 - Le Tre Grazie
fig. 13 -  Amore e Psiche
 fig. 14 - Ebe
 
fig.  15 - Paolina Borghese come Venere vincitrice
 
fig. 16 - Paolina Borghese come Venere vincitrice (gesso)



lunedì 1 aprile 2019

Due pregevoli dipinti del Seicento napoletano

fig1 -Hendrick Van Somer -  I  quattro Evangelisti -
Roma collezione privata
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In questo articolo portiamo a conoscenza dei nostri lettori due pregevoli dipinti appartenenti ad una collezione romana, una delle più importanti d’Italia.      
Il primo, raffigurante I Quattro evangelisti (fig.1) è stato visionato in passato dal compianto Maurizio Marini, che lo assegnò ad un fiammingo attivo a Napoli nei primi decenni del Seicento, parere confermato da Vittorio Sgarbi, che ha ammirato il quadro di recente.    
Senza ombra di dubbio l’opera appartiene alla produzione di Hendrick Van Somer, un pittore al quale in passato ho dedicato più di uno scritto, a tal punto che se digitiamo su Google “Hendrick van Somer”, compaiono oltre 10 000 citazioni e la prima si riferisce ad un mio articolo del 2009: Hendrix van Somer due pittori in uno, nel quale sottolineavo la contemporanea presenza a Napoli di due artisti con uguale nome e cognome, uno, figlio di Barent ed un secondo, figlio di Gil. Il primo nato nel 1615 e morto ad Amsterdam nel 1684, il secondo, nato nel 1607 e scomparso forse durante la peste del 1656, presente in città dal 1624.   
Al primo la critica assegna il Battesimo di Cristo, eseguito per la chiesa della Sapienza nel 1641 ed un Martirio di San Bartolomeo, gia in collezione Astarita a Napoli.  
Per il secondo Bologna e Spinosa hanno ricostruito un percorso artistico più articolato con dipinti che, dopo un periodo di osservanza riberiana, sfociano nel nuovo clima pittoricistico di matrice neoveneta che maturò a Napoli intorno alla metà degli anni Trenta, un momento in cui cominciò a prevalere il cromatismo sul luminismo. La sua pittura, che tradisce l’origine fiamminga e la dimestichezza con i caravaggisti nordici, è caratterizzata dal viraggio della luce verso una pacatezza dei colori ed un contenuto iconografico severo.       
Le opere che possono essergli attribuite sono oramai numerose dal Sant’Onofrio della collezione Cicogna di Milano alla Guarigione di Tobia del museo del Banco di Napoli, dall’Estasi sul tamburo, già presso l’antiquario Lucano di Roma alla Decollazione del Battista della collezione Bernardini di Padova.
In seguito il Van Somer impreziosisce la sua tavolozza alla ricerca di esiti sempre più  spinti di raffinatezza formale ed è il periodo del Sansone e Dalila già nella raccolta dei principi Firrao, del Loth e le figlie già presso Heim a Londra, del David con la testa di Golia, siglato di una raccolta romana e dello stupendo Venere ed Adone di una collezione napoletana. Del 1635 è la Carità già nella collezione Bosco, siglata, mentre le sue ultime opere sono il San Girolamo della Trafalgar Galleries di Londra e della Galleria Borghese di Roma, rispettivamente siglato 1651 e firmato 1652.  
Di recente Giuseppe Porzio ha pubblicato documenti e notizie sul pittore ed ha incrementato il suo catalogo con dipinti di qualità eccelsa, che forniscono oramai l’immagine di un artista di grande valore, anche se ancora poco noto.    
In questo breve contributo intendiamo presentare una tela per la quale l’attribuzione al Van Somer è più che certa, con alcune figure che ripropongono fisionomie presenti in altre opere documentate dell’artista, mentre l’elegante tappeto rosso, presente al centro della composizione, è lo stesso che compare nel Loth e le figlie (fig.2), già presso la galleria Heim di Londra. Ben rappresentati i simboli iconografici degli evangesti, in particolare il bovino in primo piano, dalle corna eloquenti, per passare poi all’aquila ed al leone.     
Concludiamo con una doverosa precisazione, scaturita dall’esame di alcuni documenti: la dizione precisa del cognome è De Somer e non van Somer, come fino ad oggi indicato sui principali contributi sull’artista da Bologna a Spinosa.
  

fig.2 -  Hendrick Van Somer - Loth e le figlie -
Londra, giá galleria Heim

fig.3 - Luca Giordano e Giuseppe Simonelli -  Le  3 Marie -
Roma collezione privata


Il secondo dipinto che presentiamo raffigura le tre Marie (fig.3) una iconografia nella quale si rappresentano le tre donne che seguirono Gesù durante il triduo pasquale; tradizionalmente identificate come: Maria (madre di Gesù), Maria Maddalena e Maria di Cleofa.     
 La tela va attribuita a nostro parere al virtuoso pennello di Luca Giordano in collaborazione con uno dei suoi allievi più bravi: Giuseppe Simonelli e va collocata cronologicamente agli ultimi decenni del Seicento.   
Il problema delle ampie collaborazioni nelle opere giordanesche è delicato argomento che la critica ha esaminato più volte sotto varie angolazioni. È impresa ardua infatti riconoscere una o più mani nelle tele autografe, ancor più nei vasti cicli decorativi. Oggi, riusciamo a discernere alcuni allievi più famosi, a lungo sommersi nella sterminata produzione di Luca e presto, agli occhi più smaliziati, sarà possibile distinguere il pennello di un collaboratore nel rifinire dettagli, più o meno secondari, in un’opera sicuramente attribuibile al Giordano.      
Parlare di Giordano è un’offesa ai nostri colti lettori, che ben conoscono l’opera del grande pittore per cui ci limiteremo  a fornire notizie sul suo collaboratore: Giuseppe Simonelli (? 1650 - 1710), che il De Dominici ricorda come imitatore del colorito scuro del maestro e del quale molti forestieri compravano le opere scambiandole per autografi giordaneschi.  
Il suo spazio vitale crebbe, come per altri allievi della bottega, con il trasferimento in Spagna di Luca, perché fu incaricato di completare alcuni lavori di un certo prestigio come la cupola di Donnaromita e gli affreschi della sacrestia di Santa Brigida. In queste imprese egli seguì pedissequamente lo stile del maestro, servendosi talune volte di bozzetti da lui lasciati.    
Nei dipinti autonomi da lui firmati egli mette in mostra la tendenza a perseguire le tonalità scure del maestro, trascurando la produzione più chiara del decennio precedente; viene ritenuto dal De Dominici di qualità ben più alta del Miglionico, rispetto al quale possiede una dote di «miglior disegno». Spesso anche nella sua produzione da cavalletto si serve di prototipi e di disegni del Giordano.
Tra le sue opere degne di nota ricordiamo: Ecce homo di collezione privata romana e la Predica del Battista della Galleria Nazionale d’Irlanda; le Storie di Santa Cecilia nella chiesa di Santa Maria di Montesanto; il Passaggio del mar Rosso nella controfacciata della chiesa dei SS. Marcellino e Festo e gli affreschi nella cappella di San Giacomo della Chiesa di Santa Caterina a Formiello.    
Alcune fonti riferiscono che il Simonelli si recò in Spagna al seguito del Giordano ed a conferma di tale ipotesi il Perez Sanchez ha da tempo elencato un gruppo di tele, alcune firmate, conservate presso collezioni private iberiche ab antico. Inoltre molti dipinti spagnoli assegnati al Giordano potrebbero, per evidenti motivi stilistici, essere trasferiti nel catalogo dell’allievo. Nello stesso tempo numerosi lavori dell’artista sono documentati a Napoli negli anni del soggiorno a Madrid di Luca, per cui è più ragionevole supporre che la notorietà del pittore era notevole tanto da avere estimatori che gli chiedevano quadri da spedire, piuttosto che ipotizzare un viaggio in Spagna, anche se limitato nel tempo, del Simonelli.
Quanto più la critica riesce a ricostruirne il profilo artistico, attraverso il rinvenimento di quadri firmati o dallo stile inequivocabile, tanto più il catalogo del Giordano si alleggerisce di dubbie assegnazioni. Questo turnover attributivo si è attuato nel campo del disegno grazie al Chiarini, che identificando per la prima volta alcuni fogli certi del Simonelli, conservati agli Uffizi, ha permesso di sfoltire il corpus grafico del Giordano di t 
anti esemplari connotati dai chiari caratteri distintivi dell’allievo.

Achille della Ragione