lunedì 29 marzo 2021

"L'Anomalia" e il romanzo distopico

fig.1 - Anna Karenina
fig.2 - Hervé  Le Tellier - L'anomalia

"Tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo" da "Anna Karenina" (fig.1) di Tolstoj  a "L'Anomalia"di Hervé Le Tellier (fig.2) il salto è enorme, ma l'autore francese ci previene con il suo incipit: "Tutti i voli tranquilli si somigliano. Ogni volo turbolento lo è a modo suo". Qui aleggia lo spettro della catastrofe che sfocia poi nel fantastico.
Nel suo libro Le Tellier racconta una storia inverosimile annunciata già nel titolo. Il volo Air France Parigi-NewYork a marzo del 2021 riesce faticosamente ad atterrare dopo aver sfiorato una tragedia per serie turbolenze affrontate e risolte grazie all'abilità del pilota. I passeggeri illesi sbarcano. E l'attenzione dell'autore si riversa sulla descrizione di 11 personaggi diversissimi tra loro. Fin qui niente da eccepire se non fosse che dopo tre mesi a giugno lo stesso aereo, equipaggio e stesso numero di passeggeri atterra di nuovo a New York. Si allarmano Trump e Macron. Il Boeing viene dirottato in una base militare. La CIA si mette alla ricerca dei misteriosi doppi.
Chi sono costoro? Un prodotto di una simulazione digitale? Una specie di programmazione che ci ricorda il film Matrix?
Che faresti se incontrassi il tuo doppio? E' l'interrogativo di fronte al quale ci pone Le Tellier. I personaggi di giugno incontrano i loro stessi di marzo, che però sono vissuti tre mesi in più. Qualcuno è morto e spinge la sua copia a riflessioni di conseguenza. Un altro è stato abbandonato dalla sua ex di marzo e incontra la stessa ad aprile in attesa di un figlio.
Sono scenari immaginari quelli ai quali si abbandona lo scrittore, intrisi tuttavia di un possibilismo niente affatto surreale.
In alcuni punti la lettura presenta anche una vena umoristica, quando per esempio il presidente cinese, chiamato al telefono riattacca.
E' un viaggio nel tempo in cui l'anomalia iniziale investe altre anomalie da quella del numero di personaggi osservati a quella dei vari generi letterari associati ad ogni singola persona esaminata. Blake è un killer e la sua storia viene descritta con savoir poliziesco o l'introspezione da analista freudiano che segue il vissuto di un altro attore prima e dopo.
Sembra per giunta intenzionale la separazione tra tre soggetti del romanzo. L'autore lo immagina e lo scrive. Ogni lettore lo legge e lo elabora. E poi ci sono i personaggi, nei quali ognuno di noi si può riconoscere, perfino in diversi momenti della propria vita. 

 

fig.3 - L'amante (film)

 

fig. 4 - Escher, le cittá invisibili

 
Hervé Le Tellier è al suo ottavo libro pubblicato. Con quest'ultimo ha vinto a dicembre del 2020 il prestigioso premio Goncourt. Non solo, ma ha venduto più di 700.000 copie, classificandosi nella storia di tutto il Goncourt al secondo posto dopo "L'Amante" di Marguerite Duras nel 1984, un best seller da un milione e mezzo di libri Come quest’ultima (fig.3) potrebbe aspirare a diventare un film. Sarà tradotto in 34 lingue come da accordi; da noi è appena uscito da qualche giorno per La nave di Teseo.
Questo stupisce: l'enorme successo in Francia. Chi è Hervé Le Tellier? Innanzitutto è un matematico ed è il presidente del gruppo OuLiPo, acronimo di Officina di Letteratura Potenziale. Scrittori fioriti nella seconda metà del Novecento intorno alla figura di Raymond Queneau. Promotori e amanti di nuove sperimentazioni, giochi di letteratura fantastica, che a volte sorprendono e depistano ma interrogano sempre. In genere le trame sono legate a strutture con determinati limiti. Italo Calvino ne faceva parte nel suo lungo soggiorno parigino. E a lui Le Tellier ha dedicato "Il ladro di nostalgia". Era affascinato dalle costruzioni romanzesche dell'autore italiano in alcune sue opere come "Le città invisibili" (fig.4).
Nel suo libro "L'Anomalia" lo scrittore francese ha voluto alla ribalta una folla di personaggi per evidenziare accanto alla questione del doppio ugualmente quella fondamentale della letteratura. E' lo stesso Hervé che dice: "Una volta entrati in un universo letterario, viviamo in un mondo reale, tanto quanto il nostro, che potrebbe essere l'invenzione, la simulazione di qualcun altro".
E' lecita la domanda se "L'Anomalia" è un romanzo distopico? Quale abuso si è fatto e si continua a fare del termine!
Il maestro è Orwell con "1984" (fig.5) principalmente per la profezia sui regimi totalitari successivi, se si considera che il libro fu scritto nel 1948. "Il mondo pareva freddo... Il Grande Fratello Vi Guarda".
Distopico non è forse anche "1Q84" di Haruki Mukarami? Un'opera più recente, lunga e complessa, che si pone all'attenzione del lettore come un omaggio a Orwell perché al 9 si sostituisce la Q. Sia il numero che la lettera in giapponese si pronunciano nello stesso modo. Nella dimensione del fantastico di Mukarami i due protagonisti Aomamé e Tengo vivono diverse avventure e disavventure, entrando e uscendo da due mondi paralleli, uno è onirico (1Q84) e l'altro è reale (1984). Un amore romantico li tiene legati per la vita nonostante le sue evoluzioni differenti. Erano bambini di 10 anni quando l'uno prese le difese dell'altra contro tutti. Si strinsero la mano e segnarono il loro patto d'amore. Solo alla fine dopo tante peripezie 1Q84 con le sue due lune (fig.6) scomparirà e si ritroveranno.
Allora anche "L'Anomalia" si può considerare distopica, perché è una previsione basata su una dimensione avveniristica forse ma non reale.
 
Elvira Brunetti 

 

fig.5 - Orwell - 1984

 

fig.6 - Le due lune di 1Q84


 

Introduzione alla storia della follia

 

fig. 1 - Erasmo da Rotterdam -
Elogio della follia



Da tempo mi sono interessato al tema della follia e mi sono documentato, attraverso colloqui ed interviste con psichiatri ed altri addetti al settore, ma soprattutto compulsando i testi fondamentali sull’argomento, dall’oramai datato Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam alle complesse elucubrazioni di Michel Foucault.
Questo interesse è aumentato quando Vittorio Sgarbi nel 2009 mi nominò consulente, perché doveva allestire a Siena una importante  mostra: Arte, genio e follia nell’arte (fig.2), che ebbe un notevole successo.
In precedenza Sergio Piro, mordace intellettuale, era venuto come relatore, in compagnia di Luciano Scateni, all’epoca caporedattore dell’edizione napoletana di La Repubblica nel mitico salotto di Donna Elvira, dove si parlò animatamente delle teorie di Basaglia (fig.3) e della chiusura dei manicomi, e Piro superò abilmente il contraddittorio di gran parte dei presenti contrari a quella rivoluzionaria decisione e rispose con competenza alle mie numerose imbarazzanti domande sull’argomento. 

 

fig.2 - Locandina della mostra

 

fig. 3 -  Franco Basaglia

fig.4 - Pazzariello, stampa ottocentesca

Voglio ora trattare il tema per i lettori, partendo dall’antichità, in particolare dal mondo greco, la culla della nostra civiltà, il quale, a differenza delle società successive, non conobbe la reclusione dei folli, ma seppe convivere con le loro intemperanze, elaborando sofisticate forme di elaborazioni dell’alienazione mentale attraverso la convivenza, precedendo di millenni quelle che saranno le esperienze rivoluzionarie di Basaglia e di altri studiosi.
Nelle società antiche, la follia possedeva una forte connotazione mistica, essendo ritenuta derivante dall’influsso di qualche divinità (l'epilessia, ad esempio, per questo motivo, veniva chiamata morbo sacro). Il trattamento della follia era dunque di tipo mistico religioso e veniva praticato dai sacerdoti del tempio, che tentavano di alleviare i sintomi con riti e preghiere e nello stesso tempo tentavano anche di interpretare i sintomi del folle come se fossero dei messaggi provenienti da entità sovrannaturali. A volte la follia veniva considerata una punizione o una maledizione divina: in questi casi la persona giudicata folle veniva emarginata dalla collettività.
I greci distinguevano due tipi di follia, una delle quali era interpretata come un dono degli dei, è lo stesso Platone ad indicarci quale essa fosse: quella dell’artista ispirato che scopriva dentro di sé sublimi energie creative, del profeta in grado di leggere nel futuro, dei riti dionisiaci con i loro rituali di trance che permettevano di raggiungere l’estasi ed infine (la migliore, precisa il filosofo) l’amore, la più dolce delle follie, che permette all’individuo di confrontarsi con l’assoluto.
La follia poteva così divenire, a seconda dei casi, una malattia della mente o un potenziamento delle nostre facoltà.
Intorno al V secolo i Greci avevano un concetto della psiche diverso da quello che assunse in seguito. Per Omero era il soffio vitale che animava il corpo, per abbandonarlo dopo la morte. La cultura elaborò poi una diversa concezione per il concorso di correnti religiose e saperi laici, tra cui la medicina e la psiche concise con l’identità interiore dell’uomo, un’idea che da Platone  verrà accolta dal Cristianesimo.
Sulla fisicità dell’intelletto dominò la lezione di  Ippocrate (460a.C.–377a.C.), il medico più autorevole del tempio di Asclepio, nell'isola di Kos, il quale  valorizzò per la prima volta, nel De morbo sacro il ruolo conoscitivo del cervello, condannando le pratiche medico psichiatriche operate da sacerdoti e sciamani. Ippocrate riteneva che il corpo fosse formato da quattro umori: sangue (caldo umido), proveniente dal cuore, flegma (freddo umido) originato dal cervello, bile gialla (caldo secco) prodotta nel fegato, bile nera (freddo secco) secreta nella milza. La malattia era dovuta ad uno stato di squilibrio dei quattro umori presenti nell'organismo o solo ad uno di essi, oltre che da fattori esterni, come il clima o il regime alimentare. Alla sua scuola la predominanza dell’umore nero, secreto dalla bile portava ad un’indole triste, ritirata, pessimista: la malinconia (melancholia, dove melas significa nero e chole bile). Al contrario, la presenza di sangue rosso causava i caratteri passionali, rabbiosi: i ‘sanguigni’, termine usato ancora oggi. I trattamenti possibili erano di tipo fisico: bagni caldi e freddi, salassi, unguenti, purganti. Più tardi, attraverso i medici greci e soprattutto con Galeno (129-200 ca. d.C.), che riprese la teoria umorale di Ippocrate, queste ipotesi e queste pratiche giunsero anche a Roma, dove rimasero dominanti fino alla caduta dell’impero.
Dopo aver occupato una posizione importante nei riti religiosi, come nel tempio di Apollo a Delfi, ove si praticava la divinazione estatica, l’alterazione della coscienza venne interpretata durante il periodo di Pericle e di Socrate in maniera diversa ed alcuni fenomeni quali la possessione ed altri stati di alterazione della coscienza vennero relegati tra le manifestazioni dell’irrazionalità. Si operò una distinzione più marcata tra ragione e follia, una manifestazione estrema dell’inquietudine umana.
La tragedia sonderà ciò che di oscuro alberga nell’uomo, dal dramma di Eracle o di Medea, che uccidono i loro figli pur amandoli, alla violenza autodistruttiva di Aiace, all’ira funesta di Achille, fino ai fantasmi di Oreste.
Il mito sublimerà la follia e permetterà una convivenza quasi sempre senza traumi, un comportamento unico nella storia occidentale, dove si apriranno profonde fratture tra ragione e follia.
Una figura unica nel panorama folcloristico napoletano è quella del pazzariello (fig.4), oggi quasi scomparsa, un simbolo di quella saggia follia di origine bacchica, proveniente dal nostro più lontano passato, che per secoli ha avuto una veste ufficiale in questo simpatico personaggio, reso immortale dalla leggendaria interpretazione datagli da Totò (fig.5), che pubblicizzava prodotti e taverne, vestito di carta colorata, in feluca, spadino ed alla testa di una sgangherata orchestrina di tamburi, pifferi, trombe e clarini.   
Egli informava il popolino dell’arrivo di botti di vino novello nelle osterie tra mille, lazzi, fischi, capriole e filastrocche, interrotte da entusiastici battimani della plebe, accorsa ad ascoltarlo nei quartieri popolari dove abita l’anima immortale della città, la sua vitalità ed il suo spirito (fig.6).     
Stranamente, ad eccezione di Viviani, nessuno dei grandi scrittori partenopei ricorda la sua figura, invano compulseremo il Paese di Cuccagna di Matilde Serao, le poesie o le canzoni di Salvatore Di Giacomo, di Ferdinando Russo, di Rocco Galdieri, di Murolo, Bovio o Nicolardi, numi tutelari e custodi della più verace napoletanità. Una incomprensibile dimenticanza di questa genuina espressione della più sana follia dei napoletani. Molti, oltre a quello impersonato magistralmente dal Principe del sorriso, ricordano il pazzariello del film i Guappi di Nicola Squitieri.            
Io personalmente rammento, in via Salvator Rosa, dove abitavo da bambino, un simpatico pazzariello (fig.7), dagli abiti variopinti quanto sdruciti, che pazzo lo era davvero ed amava passeggiare, claudicante, anche fuori servizio nelle sue vesti sgargianti, snocciolando frasi prive di senso, intervallate da motti ed aforismi, recitati a memoria senza che nessuno dei passanti ne capisse l’arcano significato. Fino a quando, alcuni benpensanti lo fecero richiudere al manicomio di Capodichino, dove finì i suoi giorni, in quella grandiosa e triste prigione dalle invalicabili mura gialle, che i napoletani chiamavano affettuosamente Pazzaria e dove secondo alcuni critici lavorava uno psichiatra dal quale prese ispirazione Edoardo Scarpetta per delineare la figura del protagonista della sua commedia ‘O miedeco d’’e pazze, per il resto della trama ispirata alla farsa parigina Pensione Chottle.         
L’unico che riuscì ad evadere da quel luogo di pena fu Vincenzo Gemito, il celebre artista, uscito di senno per un affare di corna, che aggravò i suoi latenti disturbi nervosi provocati da una sifilide allo stadio terziario. Egli era un folle lucido dotato di forza prodigiosa, in grado di piegare i metalli con le dita e di domare bestie feroci. Una notte evase spezzando le sbarre e saltando seminudo quelle mura infinite, per chiudersi a casa sua in una stanza dalla quale non uscì più per oltre venti anni, fino a quando Mussolini non decise di nominarlo Accademico d’Italia e di premiarlo con un milione come segno di riconoscenza ad un “genio nazionale”.  
Alla figura del pazzariello, in maniera forse arbitraria, vorremmo affiancare quella del mastrogiorgio, il quale era il custode degli alienati mentali (fig.8), un infermiere specializzato che nasce a Napoli, dove presso l’ospedale degli Incurabili esisteva uno dei primi reparti del mondo dedicato alla cura di questi particolari malati. I pazzi erano curati ed assistiti con grande amore, anche se la terapia dei loro disturbi non era, come non lo è ancora oggi, risolutiva. Essi venivano confortati ed utilizzati per umili mansioni, come distribuire il cibo ai ricoverati per altre malattie e girare la ruota per tirare l’acqua dai pozzi. Queste piccole attività manuali erano ritenute terapeutiche alla pari dell’ascolto di una buona musica, un’idea originale che precorre di secoli la moderna musicoterapia. Si applicava inoltre un regime dietetico iperproteico, che prevedeva la somministrazione di numerose uova, detto e cient’ova.I matti erano divisi in categorie per ognuna delle quali cambiava l’approccio terapeutico: per i più violenti si dava da ingurgitare sangue di asino, per i malinconici infusi disgustosi e decotti aromatici, per i tonti frizioni alla testa con latte di donna misto a sedano. Naturalmente con queste terapie bisognava aspettarsi un intervento divino per ottenere un risultato positivo, come ci ammonisce il celebre dipinto di Stanzione: Guarigione dell’ossessa (fig.9), conservato nella sagrestia della Cappella del Tesoro. Purtroppo due rovinosi  incendi, nel 1795 e nel 1822, hanno distrutto completamente gli archivi dell’ospedale, privandoci di una capitolo importante della storia della sanità napoletana e precludendoci ogni possibilità di conoscere realmente il tipo di cura che veniva prestato ai folli ivi ricoverati, però sappiamo, attraverso altre fonti della curiosa abitudine, durata ininterrottamente dal 1519 al 1734, di concedere a questi malati nei giorni di Carnevale di poter uscire, sorvegliati a vista dai mastrogiorgi e di poter irrompere per le strade, dando sfogo alle loro energie represse e addirittura poter ballare nel palazzo del viceré, motteggiando le guardie con lazzi volgari e fragorose pernacchie. Una liberalità ad orologeria in linea con il famigerato buonismo e la proverbiale permissività dei napoletani.         
Nella prima metà del Seicento mastro Giorgio Cattaneo, il medico dei pazzi, curava i malati di mente più esagitati legandoli a una grande ruota che poi calava nel pozzo degli Incurabili (fig.10), su a Caponapoli. Sotto la sferza di Mastrogiorgio la ruota veniva fatta girare vorticosamente, per portare i folli allo sfinimento in quello che potremmo definire una sorta di elettrochoc ante-litteram, perché a quei tempi si pensava che la follia fosse dovuta alla presenza di meningi anormali e a un'eccessiva concentrazione di nervi nelle tempie, che provocava nei pazienti neurolabili - gli scemi di cervello, come venivano chiamati - un moto disperato e perpetuo. 

 

fig. 5 - Totò nelle vesti di  pazzariello

fig.6 - Il pazzariello con due musicisti

 

fig.7 - Il pazzariello di via Salvator Rosa

fig. 8 - Un alienato mentale
 

fig.9 - Massimo Stanzione - Guarigione di un'ossessa -
Napoli museo del Tesoro di San Gennaro

fig. 10 - Pozzo dei pazzi


Per fortuna tanti altri clinici e luminari hanno preso il posto del dottor Cattaneo, e la cura delle malattie mentali, anche grazie alla straordinaria scuola medica napoletana, avrebbe compiuto in seguito passi da gigante, in un processo ininterrotto che porterà alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso alla chiusura degli ospedali psichiatrici, con la legge Basaglia. Ma gli archivi e le cartelle cliniche del passato, soprattutto di fine 800, continuano a raccontare storie di internamento mai venute alla luce, storie maledette sprofondate in un altro pozzo nero, non dissimile da quello di Mastrogiorgio: il pozzo nero della memoria.         
La Casa dei Matti di Aversa, l'ospedale psichiatrico che negli anni fu chiamato anche Pazzaria degli Incurabili e Real Manicomio della Maddalena, fu abbandonata definitivamente nel 1999 dopo una lenta dismissione, iniziata con la legge Basaglia del 1978. Oggi è un edificio fantasma, dove risuonano i passi di tutti coloro che vi furono murati vivi (fig.11–12).
‘O Mastuggiorgio era un infermiere di manicomio, generalmente di corporatura forte e robusta, che aveva il compito di sorvegliare i pazzi affinché non facessero del male a se stessi ed ad altri. Egli collaborava a stretto contatto con lo psichiatra, intervenendo se necessario e bloccando il malato infilandogli la camicia di forza (fig.13).
 Da dove deriva il termine? Le teorie sono diverse. La prima vede l’origine della parola dal termine greco mastigophòros, “portatore di frusta”, cioè colui che usava la frusta per placare gli animi delle persone più agitate. Mentre la seconda, meno dotta ma più accreditata, vede la sua derivazione da Mastro Giorgio Cattaneo, un castigamatti vissuto nel Seicento che credeva di curare le malattie nervose con le percosse e picchiando violentemente i malati con un bastone. I “castigamatti” o “fustigatori” erano gli psichiatri e gli infermieri dell‘ospedale degli Incurabili e il nome lascia capire la violenza fisica con cui erano trattati, ricoverati e curati i malati di mente.    
Il termine di “Mastuggiorgio” compare anche in letteratura. Salvatore di Giacomo, nella sua poesia “Si è Rosa ca mme vò”, si ispira al forzuto infermiere:  “Nzerrateme, nzerrateme addò stanno, tant’ate, comm’a me, gurdate e nchiuse, addò passano ‘a vita, sbarianno, pazze cuiete e pazze furiuse. Nchiuditeme pè sempe ‘int’a sti mmura, è o mastuggiorgio mettiteme allato.”
 E ancora Raffaele Viviani in ” ‘O guappo nnammurato”, dove sminuito e umiliato dagli spietati maltrattamenti da parte della donna di cui è perdutamente innamorato, dice di essersi ridotto allo zimbello del paese, ad una specie di “mastuggiorgio”, ossia un infermiere di manicomio.
La figura del “castigamatti” colpì molto l’immaginazione popolare, infatti nell’idioma, nel costume e nella letteratura partenopei sono rimaste impronte fino ad oggi. In Napoletano si usa ancor oggi dare il nome di Mastogiorgio a coloro che si occupano della cura e della custodia dei pazzi, e “l’aspetta Mastogiorgio“ si dice delle persone che dimostrano chiari segni di follia.
Oggi il termine viene usato a Napoli anche come appellativo, ma ha una doppia valenza: può definire un uomo intraprendente e determinato, capace di prendere le redini di una situazione difficile, ma che può essere anche violento e pronto ad ottenere ciò che vuole ad ogni costo.


Achille della Ragione

 

fig.11 - Casa dei  matti  di Aversa, sezione femminile

fig.12 - Casa dei matti di Aversa,corridoi del secondo piano

 

 fig.13 - Camicia di forza

 


 

domenica 28 marzo 2021

Due splendidi chiostri nel complesso degli Incurabili

  

tav.1 - Uno dei chiostri del complesso degli Incurabili

 
I numerosi chiostri (fig.1) di Napoli rappresentano un patrimonio artistico e storico poco conosciuto. Essi sono testimonianza della centralità della vita religiosa dal Duecento all’età moderna, in particolare a partire dal Cinquecento, quando la città sacra raggiunse la sua massima espansione con 70 monasteri maschili e 22 femminili.
Oggi, passare dal caos delle strade del centro all’interno di un chiostro, rappresenta un sollievo per l’anima e permette, in perfetto raccoglimento, di visitare veri e propri musei all’aperto, ammirando le opere dei maggiori artisti attivi a Napoli.
La pietà ed il calcolo politico dei sovrani, dagli Angioini ai Borbone, favorì il sorgere di vere e proprie città monastiche e favorì il diffondersi degli ordini religiosi, offrendo ricchezza e potere  in cambio di una santa alleanza.
Il primo chiostro di cui parleremo è ricco di piante medicamentose ed è denominato Giardino dei semplici (fig.2).
Partiamo dal 1522 quando donna Maria Lorenza Longo (fig.3) decide di fondare un ospedale non solo per offrire assistenza ad ammalati e poveri ma anche strumenti per la formazione di medici e farmacisti. Il complesso in questione prende il nome di Santa Maria del Popolo degli Incurabili ma badate bene, incurabili non in senso catastrofico bensì definiti in questo modo perché rifiutati da altre strutture, data l’incapacità di affrontare le nuove malattie del secolo quali la sifilide conosciuta come “mal francese”, o perché poveri e indegni di cure. Sorge in Via Maria Longo non lontano da Porta San Gennaro ed è dotato di una farmacia, vero gioiello monumentale della struttura, di un teatro anatomico dove si faceva lezione sui cadaveri, di un convento delle Pentite (ex prostitute) e di un orto medicale con una meraviglia della natura: un rarissimo albero di canfora (fig.4).          
Oltre le antiche sale mediche dell’ospedale cinquecentesco si accede ad un ampio giardino confinante con il convento di Regina Coeli e parallelo allo sviluppo di una grande corsia purtroppo oggi parzialmente demolita dai bombardamenti dell’ultimo conflitto. Anzi attraverso una piccola porticina situata in fondo al giardino le suore della Carità di Giovanna Anthida di Touret per 250 anni entrarono nell’ospedale rappresentando gran parte del sistema assistenziale.
Questo spazio, caratterizzato da un grande albero di canfora (fig.5) e da una vasca realizzata in epoca moderna, è il luogo dove si coltivavano erbe medicinali che raccolte venivano utilizzate nelle preparazioni galeniche in Farmacia. La stessa canfora era utilizzata per le capacità analettiche respiratorie. L’albero dal grande fogliame e dal fusto antico è uno dei pochi esemplari presenti negli spazi chiusi della città. Il profumo caratteristico di piante simili, come dopo sarà anche per l’eucalipto, aveva anche la funzione di allontanare le malattie purificando così la mala aria.  Il Giardino dei Semplici degli Incurabili (Semplici in quanto “Medicina Simplex” usata per definire le erbe medicinali) si realizzò sicuramente sotto la spinta di Domenico Cirillo e del suo allievo Michele Tenore. In realtà, venne creato da Vincenzo Stellati componente del Collegio Medico Cerusico nel 1811 ad uso degli studenti che svolgevano i loro studi all’interno del complesso ospedaliero.
Negli ultimi anni l’Orto giaceva in uno stato di terribile abbandono, fino a quando i volontari dell’associazione culturale “Il Faro d’Ippocrate” lo hanno restituito nella sua quasi integrale bellezza a coloro che lo frequentano e che lo amano.
Il ripristino è stato fatto reinserendo specie di piante elencate ed identificate attraverso i vecchi testi botanici. E’ evidente che tali essenze venivano elaborate , utilizzate e conservate dai medici nella Farmacia Storica , per ricavarne medicamenti utili ai malati. Visibile per la sua maestosità, al centro dell’Orto il secolare Canforo che con un altezza di circa 35 metri ed una chioma larga circa 20 metri può considerarsi un monumento vivente (fig.6).
Nel patrimonio vegetale dell’Orto spicca anche la Camellia Incurabilis che si distingue per la particolare bellezza e colore dei suoi fiori. Le specie ripiantate oggi sono tante ,tutte con evidenti proprietà terapeutiche. Nel complesso monumentale dell’Ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, abbiamo la possibilità di ammirare anche un altro chiostro adiacente all’Orto Medico ,il Chiostro di Santa Maria delle Grazie (fig.7).
Piccolo Chiostro ricco di dipinti d’autore e di una vegetazione quasi esotica . Infatti possiamo ammirare la bellezza e di alcuni Tassi (Taxus baccata) detto anche albero della morte, e di diverse e altissime Sterlizie dette anche Uccello del Paradiso, piante dal bellissimo fiore la cui sagoma ricorda molto la figura di un uccello. 

 

tav. 2 - Giardino dei semplici

  

tav.3 - Donna Maria Lorenza Longo

 

tav.4 -Chiostro erbe officinali, albero della canfora

tav. 5  -   Viale di un chiostro

tav. 6  -  Albero della canfora

tav.7 -Ospedale Incurabili, chiostro Santa Maria delle Grazie

tav. 8  -Chiostro Santa Maria delle Grazie

Gioiello architettonico di fine Cinquecento con volte affrescate dei primi del Seicento, fu sede dell’Accademia degli Oziosi: il giardino, le arcate in piperno, le volte a crociera affrescate (fig.8), i paesaggi dipinti sulle lunette, gli ornati vegetali e animali, ne facevano un vero e proprio luogo di delizie adatto alle celebrazioni degli Oziosi. Giovanni Battista Marino, Giovanni Battista Della Porta, Ascanio Filomarino si incontravano tra queste arcate. Oggi il chiostro è parte del complesso degli Incurabili, definito anche Chiostro della Maternità, è adiacente alla chiesa omonima che risale al XVI secolo e dal 1809 è inglobato al Complesso degli Incurabili. A pianta rettangolare, è delimitato da sei arcate per quattro poggianti su pilastri di piperno. Le volte a crociera furono affrescate all’inizio del Seicento da artisti fiamminghi dell’ambito di Paul Brill e conservano le tipiche decorazioni a grottesche. Gli affreschi delle lunette, databili alla  fine del Cinquecento e attribuiti a Giulio dell’Oca, raffigurano alcuni episodi della vita di Sant’Onofrio e, sul lato meridionale, scene della vita di Maria. Il 3 maggio 1611 fu fondata nel chiostro l’Accademia degli Oziosi.
Il chiostro di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli era originariamente tenuto dagli eremitani dell’ordine creato da Pietro da Pisa, giunti a Napoli nel 1412, i cosiddetti frati “bottizzelli” . ll Chiostro è adiacente alla chiesa omonima che risale al XVI secolo. L’Ordine degli Eremitani rimase fino al 1799; con il decennio francese ebbe inizio la progressiva soppressione del monastero che nel 1809 venne inglobato dal Complesso degli Incurabili diventando parte di esso. La sua seconda denominazione è da collegare ad un’ iscrizione posta sul porticato e rivolta a tutte le donne in attesa (fig.9).
Presenta una pianta rettangolare ed è delimitato da sei arcate per quattro poggianti su pilastri di piperno. Le volte a crociera furono affrescate all’inizio del Seicento da artisti fiamminghi dell’ambito di Paul Brill (fig.10) e conservano le tipiche decorazioni a grottesche, di gran moda tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del XVII secolo. I paesaggi fantastici dipinti al centro delle volte raffigurano località amene . Gli affreschi delle lunette, databili alla fine del Cinquecento e attribuiti a Giulio dell’Oca, raffigurano alcuni episodi della vita di Sant’Onofrio e, sul lato meridionale, scene della vita di Maria (fig.11–12).
Il 3 maggio 1611 fu fondata nel chiostro l’Accademia degli Oziosi, i cui membri vennero ospitati dagli industriosi e ricchi bottizzelli forse perchè la storia della loro chiesa partenopea- e delle tombe custodite in Santa Maria delle Grazie- era legata, tra il XVI e il XVII secolo, alle sorti di alcune famiglie presenti fin dall’inizio nel sodalizio (i Moles, i Brancaccio). Il chiostro, con la vegetazione, le arcate in piperno, i paesaggi, gli ornati vegetali e animali, era probabilmente percepito come un vero e proprio locus amoenus adatto alle celebrazioni degli Oziosi. Giovanni Battista Marino, Giovanni Battista Della Porta, Ascanio Filomarino e tanti altri illustri membri della prestigiosa Accademia napoletana si incontravano tra le arcate del chiostro. In quei decenni era vivo il dibattito circa la localizzazione della tomba della mitica sirena Partenope, fondatrice di Napoli, e Carlo Celano, alla fine del Seicento, avrebbe scritto che sui resti del sepolcro della sirena era stata edificata proprio Santa Maria delle Grazie a Caponapoli. Certamente il luogo di fondazione dell’Accademia degli Oziosi rivestiva una forte valenza simbolica perché il luogo in cui era nata la città coincideva con quello della fondazione del sodalizio, la cui impresa, non a caso, era l’immagine dell’angel-sirena. 

 

tav.9 - Iscrizione dedicata alle donne gravide

tav.10 - Paul Brill - Decorazioni della volta

 tav.11 - Giulio dell'Oca  -
Episodi della vita di Maria

tav.12 - Giulio dell'Oca  -
Episodi della vita di Maria

  

 



sabato 27 marzo 2021

Arte ed architettura nel complesso degli Incurabili

 

 

fig.1 - Ignoto ceroplasta fine sec. XVII -
La scandalosa

 Il Complesso degli Incurabili è tra i più importanti siti monumentali di Napoli; di epoca rinascimentale, si trova nel centro storico, non lontano dal decumano superiore (ora via dell'Anticaglia). Esso originariamente, comprendeva la chiesa di Santa Maria Succurre Miseris dei Bianchi, la chiesa di Santa Maria del Popolo e lo storico ospedale di Santa Maria del Popolo degli Incurabili. Col tempo ingloberà anche la chiesa di Santa Maria delle Grazie Maggiore a Caponapoli e l'omonimo chiostro, il complesso di Santa Maria della Consolazione, la chiesa di Santa Maria di Gerusalemme e il chiostro delle Trentatré. Lo storico ospedale degli Incurabili, fondato nel 1521 da Maria Lorenza Longo che volle tener fede ad un voto fatto quando era vittima di una malattia che l'aveva paralizzata, oltre agli altri pregi, racchiude la notevolissima la splendida farmacia settecentesca realizzata da Bartolomeo Vecchione a cui abbiamo dedicato un apposito capitolo
L'insieme di queste strutture racchiude quelle che rappresentano alcune fra le più importanti testimonianze del rinascimento napoletano.   Il complesso è una rarissima testimonianza di un'opera umanitaria e sanitaria dell'epoca che avrebbe dovuto accudire i malati incurabili.      
Nel complesso degli Incurabili, a Capo Napoli, centro dal quale si dirama l’energia di Neapolis, c’è la cappella di Santa Maria Succurre Miseris della Compagnia dei Bianchi di Giustizia. Si tratta di una confraternita fondata nella seconda metà del ‘400 dal frate predicatore francescano Domenico Gonzalo: il futuro San Giacomo della Marca.  Chi operava nel complesso ospedaliero aveva particolare attenzione alla cura del corpo e dell’anima, soprattutto per il delicato momento del trapasso, sia dei malati che dei condannati a morte. Gli appartenenti alla congrega vestivano un saio con cappuccio bianco e si occupavano di confortare coloro che avevano l’appuntamento col triste mietitore, farne celebrare i funerali, le messe in suffragio e l’assistenza post mortem delle famiglie. Agli Incurabili hanno trovato riscatto e lavoro tante donne che, spinte dalla miseria, avevano imboccato la strada della prostituzione, redimendosi con la cura dei malati. Il meretricio era molto diffuso nella capitale del regno, sia per le condizioni di disagio economico delle giovani popolane che per la presenza di militari della guarnigione spagnola di stanza a supporto del viceré. La cappella dei Bianchi era accessibile solo tre volte l’anno: a Pasqua, nel giorno dell’Assunzione e il giorno dei morti ovvero il 2 novembre quando si svolgeva la scenografica processione delle ossa, un rito che ricordava quello del funerale in suffragio di tutti i condannati per cui era stato impossibile celebrare le esequie.
La cappella è un vero e proprio scrigno di tesori e tra questi quello che più attira l’attenzione dei visitatori è una impressionate statua in cera conosciuta con il nome de ‘La Scandalosa’ (fig.1). Un ritratto vivido che aveva il compito di ammonire le giovani donne che avevano intrapreso o stavano per avviarsi al turpe mercato della prostituzione. Esso mostrava, infatti, gli effetti, sul viso e sul corpo, della sifilide o lue, la malattia a trasmissione sessuale per la quale una cura è stata trovata solo nel secolo scorso e che ha causato vere e proprie epidemie. Chiamata “mal francese” o “mal napoletano”, la sifilide si trasmette a causa di un batterio e, se non trattata, può causare la morte che, a quei tempi, era certa visto che non si conoscevano gli antibiotici. A descrivere questa particolare opera d’arte, sconosciuta alle frotte odierne di turisti frettolosi che consumano i basoli delle strade, è stato Salvatore Di Giacomo, poeta, autore di canzoni napoletane e saggista: “Vidi ch’ella rinserrava un mezzo busto di cera, di grandezza quasi naturale…Un mezzo busto femminile – una orribile faccia contratta nelle smorfie della sofferenza, una bocca spalancata come in un urlo, un cranio giallastro sul quale la finzione paurosa dell’artefice aveva radunato ciocche copiose di spioventi capelli neri…Il vecchietto – riferendosi al custode – , s’alzò piano e mi s’appressò. – “ Questa è la ‘donna scandalosa’ e si tiene qui perché tutte le femmine che fanno la vita cattiva sappiano che i sorci, gli scarafaggi e i vermi, dopo ch’è morta una di queste che dà il cattivo esempio, se la mangiano quelli animali”. Rabbrividii. Nella mezza oscurità quell’orribile busto di cera diventava impressionante: ora mi pareva davvero che la ‘scandalosa’ torcesse la bocca”. “La scandalosa” è esposta nella sagrestia della cappella, in una scarabattola, poco distante da un altro contenitore in legno e vetro che ospita un teschio: un memento mori che a tutti doveva e deve ricordare la caducità della vita e l’attenzione alla cura dell’anima visto che nessuno è a conoscenza del momento del proprio trapasso come ricorda San Matteo nella parabola delle dieci vergini “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora in cui il Figlio dell’uomo verrà”.       
L'oratorio della Compagnia dei Bianchi della Giustizia contiene numerose opere d’arte meritevoli di attenzione.  Esso, insieme alla congregazione, venne fondato nel 1473 da san Giacomo della Marca e nel 1519, grazie all'appoggio di papa Paolo IV, venne ingrandito e restaurato. Nel XVI secolo la congregazione, trasferitasi nella Santa Casa degli Incurabili, divenne nota nel Regno e fuori grazie alla sua attività. Nel 1583 il re Filippo II ne ordinò lo scioglimento poiché essa generava sospetti nelle autorità spagnole a causa della segretezza nella quale si svolgeva la sua opera. Nel 1673 vennero eseguite nell'oratorio modifiche e restauri barocchi su progetto di Dionisio Lazzari. L'ingresso all'oratorio si trova alla sinistra del portale nord di accesso al complesso, dopo una scala in piperno malridotta; l'ingresso è costituito da un portale anch'esso in piperno. L'elemento architettonico di spicco è la settecentesca scala a tenaglia (fig.2) che dal cortile degli Incurabili sale all'ingresso secondario della chiesa.          
Nell'interno una effimera decorazione barocca composta da affreschi sulla volta; nelle fasce laterali vi sono efebi che hanno funzione di telamoni, ai quali si alternano conchiglie con figure allegoriche. Sull'altare è posta una statua della Vergine (fig.3) di Giovanni da Nola, mentre la volta fu affrescata da Giovan Battista Beinaschi (fig.4-5) nel 1672. La sagrestia presenta una volta affrescata da Paolo De Matteis nel 1720 e molti ritratti di membri eminenti della confraternita alle pareti (fig.6–7–8). Altro ambiente di pregio è la Cappellina della Madonna della Purità, ornata sulla volta da stucchi dorati e alle pareti da affreschi illusionistici, dove sull’altare vi è un dipinto attribuibile a Pacecco De Rosa (fig.9). Infine vogliamo segnalare la presenza di un dipinto attribuibile ad Antonio Sarnelli, raffigurante un putto col simbolo dei Bianchi (fig.10).   

 

fig.2  - Ingresso

 

fig.3 - Giovanni da Nola (ambito) -
Madonna col bambino - 1540 circa

fig.4 - Giovan Battista Beinaschi -
Assunzione della Vergine 1672

 

fig.5 - Giovan Battista Beinaschi 
Affreschi della volta raffiguranti l'Assunzione della Vergine


fig. 6 - Sala della vestizione dei confratelli -
1720 circa

 
fig.7 - Sala della vestizione dei confratelli -
1720 circa


fig.8 -  Paolo De Matteis -
Affreschi 1720


fig. 9 - Pacecco De Rosa - Madonna della Puritá


fig.10 - Antonio Sarnelli (attribuito) -
Putto col simbolo dei Bianchi

Nell’Ottocento sarà il poeta Salvatore Di Giacomo a descrivere la sua visita alla celebre istituzione, famosa per l’ufficio principale dei confratelli: l’assistenza ai condannati a morte. Attività che gli incappucciati svolsero accompagnando al patibolo e raccogliendo le ultime volontà di migliaia di miseri e documentando ogni cosa nei loro registri. Carte preziose, che raccontano pezzi importanti della storia di Napoli Capitale, quale quella dei martiri della Repubblica del 1799. I confratelli si occupavano anche di confortare e assistere materialmente le famiglie dei condannati a morte come pure i malati ricoverati nelle corsie dell’Ospedale Incurabili.
La Compagnia, fondata da Giacomo della Marca, ebbe tra i suoi adepti e correttori San Gaetano da Thiene (fondatore dei Teatini), Sant’Alfonso Maria de’ Liguori (autore di “Tu scendi dalle stelle”), Francesco Caracciolo (detto il cacciatore di anime) oltre a nobili e importanti mercanti dei seggi di Napoli. Certamente, la compagnia fu punto d’incontro tra i poteri forti del vicereame spagnolo, la Curia, i nobili e i mercanti dei seggi.
Maria Lorenza Longo, fondatrice e governatrice dell’Ospedale Incurabili, si prendeva materialmente cura dei confratelli di cui lavava gli abiti spesso intrisi del sangue dei condannati. Ecco perché la storia dell’Ospedale è strettamente legata alla Cappella. Al di là dell’aspetto caritatevole e sociale della compagnia, il popolo dava molta importanza alla scenografia del supplizio di cui i Bianchi erano essi stessi parte, perché presenti accanto al boia. Spesso le corde usate per l’impiccagione erano raccolte dai confratelli perché non se ne facesse commercio da parte del popolino, uso compravendere macabri reperti umani, strumenti di tortura e del supplizio ritenuti preziosi contro il malocchio.  
La chiesetta di Santa Maria Succurre Miseris veniva aperta a pochi fortunati solo due volte l’anno, a Pasqua e all’Assunzione e, talvolta, il 2 novembre, quando aveva luogo la cosiddetta “processione delle ossa”, una sorta di funerale collettivo dedicato a quei giustiziati che non avevano potuto ricevere conforto delle esequie nei mesi precedenti. Il corteo raccoglieva su carri, addobbati con giganteschi ceri, le ossa dei condannati e partendo dalla Chiesa di Santa Maria di Loreto si concludeva nel cortile della Real Casa di Santa Maria del Popolo degli Incurabili.    
 Nell’opera di Giuseppe Boschetto “La Pimentel condotta al patibolo” (fig.11), l’eroina della rivoluzione napoletana del 1799 viene ritratta poco prima di giungere a Piazza Mercato, dove sarà impiccata. Nel dipinto realizzato nel 1868, Lenór appare preceduta da un manipolo di uomini incappucciati, vestiti con un saio bianco. Si tratta dei componenti della Compagnia dei Bianchi della Giustizia, un’organizzazione caritatevole, che sin dalle origini aveva assunto la funzione di assistenza e conforto dei condannati a morte.    
Associazione fondamentale durante la dominazione borbonica, i Bianchi della Giustizia vengono citati anche da Enzo Striano ne “Il resto di niente”, opera in cui l’autore dipinge un magistrale affresco della Rivoluzione Napoletana e dei suoi protagonisti. In particolare, parlando del corteo che avrebbe accompagnato al patibolo alcuni dei rivoluzionari condannati a morte, fra i quali Gennaro Serra di Cassano ed Eleonora Pimentel Fonseca, dice: “Si dispone il corteo, secondo misterioso, stolido rituale. Avanti i soldati, poi le guardie, i Bianchi, uno sbirro che porta lo stendardo blu e d’oro della Vicarìa, il trombetta che squilla e strillerà”.      
La Cappella dei Bianchi della Giustizia rappresenta un vero e proprio museo capace di illuminare su un momento importante della storia di Napoli: si tratta di un luogo emblematico dell’identità di un popolo da sempre fortemente animato da forme di creatività autentica, tanto nel campo artistico quanto nei modi della carità laica e cristiana. “Erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche di infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici”, scrive Anna Maria Ortese in “Il mare non bagna Napoli”, per descrivere una società complessa e complicata come quella partenopea, capace anche in contesti decisamente problematici di attivare veri e propri laboratori di innovazione utili all’emergenza di possibili strategie di trasformazione sociale.     
L’ultimo giustiziato ad essere “confortato” dai confratelli dei Bianchi fu il messinese Salvatore Gravagno,  soldato del  2° Granatieri, fucilato il 20 dicembre 1862, sotto il Fortino di Vigliena al Ponte.      
Attualmente i Registri della Congregazione dei Bianchi della Giustizia  sono custoditi presso l’Archivio Storico Diocesano di Napoli e rappresentano un patrimonio inestimabile di notizie che abbracciano tre secoli di storia. 

 

fig.11 - Boschetto Giuseppe -
Eleonora Pimentel Fonseca condotta al patibolo


fig.12 -  Chiesa Santa Maria del Popolo, interno

Prima di descrivere la chiesa di Santa Maria del Popolo (fig.12–13) ed accennare ai tesori d’arte ivi conservati, voglio invitare i lettori a meditare sull’inefficienza delle istituzioni, che hanno permesso che l’edificio sacro da decenni fosse chiuso ai visitatori e poscia a pregare, perché nella chiesa alle prime ore dell'alba del 24 marzo 2019 si è verificato il crollo di una volta di sostegno del pavimento retrostante l'altare maggiore; il crollo ha provocato anche un cedimento che ha interessato la tomba di Maria D'Ayerba (cofondatrice dell'ospedale degli Incurabili) e parte del coro ligneo (fig.14–15). 

 

fig. 13 -  Chiesa Santa Maria del Popolo, interno

fig.14 - Lesioni  nella volta


fig.15 - Crollo del pavimento


La chiesa di Santa Maria del Popolo è caratterizzata da un interno ad aula unica con cappelle, decorato con stucchi barocchi; gli altari delle cappelle sono in marmo bianco, mentre quello maggiore, opera di Dionisio Lazzari, è in marmo commesso. Accanto all'altare maggiore è posto un sepolcro rinascimentale realizzato da Giovanni da Nola.    
Gli affreschi della chiesa furono portati a termine tra il XVI ed il XVIII secolo; in particolare la cupola fu decorata a Belisario Corenzio, mentre nei pennacchi lavorò Luigi Rodriguez, le principali opere pittoriche sono di Agostino Beltrano, Giuliano Bugiardini (fig.16), Marco Cardisco, Francesco De Mura, Giovan Angelo D’Amato (fig.17), Marco Pino, Giovanni Battista Rossi e Carlo Sellitto. Nella Cappella Montalto è posta un'opera di Girolamo D'Auria.     
Nella sagrestia ci sono dei notevoli pezzi di arredo risalenti al 1603 e la volta fu affrescata ancora dal medesimo Giovanni Battista Rossi.    
Costruita nel’500 da un architetto del quale le fonti non ci hanno tramandato il nome, fu abbellita significativamente nel corso del’700 con preziosi stucchi e con i dodici altari in marmo disposti lungo le pareti.    
L’interno si presenta a navata unica, con delle piccole aperture laterali in cui sono posti gli altari, sormontati in passato da dipinti, oggi custoditi presso la Farmacia degli Incurabili, realizzati da Marco Pino, Carlo Sellitto e Francesco De Mura. Sul primo altare a destra, rimane la cornice in marmo in cui era posta la tela di Battistello Caracciolo, raffigurante Il “Cristo Portacroce”, oggi al Museo di Capodimonte. Sulla porta d’ingresso, anticamente, si ammirava una tavola che raffigurava la “Trasfigurazione”, opera di Giovan Francesco Penni, allievo di Raffello: l’opera, attualmente al Museo del Prado, era stata donata a fine’600 dai governatori degli Incurabili al Marchese del Carpio, Viceré di Napoli.     
Al suo posto, sempre a fine’600, fu costruita la cantoria, dove si trovava posizionato un organo del ‘700 ornato da angioletti lignei elegantemente scolpiti: oggi questo organo risulta scomparso. A sinistra dell’ingresso, con uno stile elegante vicino ai modi di Cosimo Fanzago, si può ammirare il monumento funebre dedicato a Mario Zuccaro: si tratta di un medico e filosofo, vissuto a cavallo tra ‘500 e ‘600, che lasciò tutto il suo patrimonio al Complesso degli Incurabili.     
Proprio dopo il monumento di Mario Zuccaro, vi è l’ingresso della cappella della famiglia Montalto, un vero e proprio scrigno d’opere d’arte: sull’altare spicca una Madonna col Bambino (fig.18) dello scultore Geronimo d’Auria (1592), mentre alle pareti si possono ammirare ben sei tele settecentesche, attribuite al pittore Giova Battista Rossi. Si tratta, nell’ordine, di una “Adorazione dei Magi” (fig.19), di una “Adorazione dei Pastori”, della “Presentazione di Gesù al Tempio”, della “Fuga in Egitto”, e due tele raffiguranti i “Santi Cosma e Damiano”, secondo la tradizione protettori dei medici. Sempre nella cappella Montalto, particolarmente interessanti risultano gli affreschi delle volte e delle lunette, dipinti dallo spagnolo Luigi Rodriguez e il monumento funebre di Ludovico Montalto, scolpito da Andrea Sarti.         
L’ultimo altare di sinistra, ormai spoglio, conservava una “Adorazione dei Pastori” di Carlo Sellitto (oggi nella Farmacia), uno dei primi pittori napoletani influenzati da Caravaggio.  Ai lati del maestoso altare maggiore, realizzato in marmi policromi da Dionisio Lazzari tra il 1688 e il 1692 (una delle sue ultime e più belle opere), si trovano i monumenti funebri di Andrea di Capua e del figlio Ferdinando (fig.21–22), commissionati a Giovanni da Nola nel 1531 da Maria d’Ayerba, Duchessa di Termoli, nonché una delle figure più importanti nella storia del complesso dopo la fondatrice Maria Longo. Proprio la duchessa, infatti, condusse l’ospedale e ne permise lo sviluppo dopo il ritiro in convento della Longo.      
Alle spalle dell’altare maggiore, tra i due sepolcri, riposa la stessa Maria d’Ayerba, i cui resti sono rovinosamente crollati insieme al pavimento all’alba del 24 marzo scorso e poi pietosamente recuperati.
Dopo l’altare e il coro ligneo, sulla sinistra, si accede alla sagrestia che conserva ancora l’arredo originario del Seicento e alcune sculture lignee del secolo successivo provenienti dall’Ospedale di Santa Maria della Pace. Sul soffitto, era un tempo collocata la tela di Giovan Battista Rossi raffigurante Santa Maria del Popolo, oggi custodito nella Quadreria della Farmacia.
 Prima di concludere vogliamo accennare alla chiesa della Monaca di Legno ed alla chiesa della Riforma, sono due piccole strutture storico-religiose inglobate nel complesso degli Incurabili che facevano dapprima parte di due monasteri distinti.     
 La prima prende la propria denominazione dal cognome di una delle prime suore che qui dimorarono; ma la leggenda vuole che una suora, tentando di uscire dal monastero, restasse ferma come una statua di legno. Col decennio francese, la chiesa fu abbandonata, per poi essere concessa alla Confraternita della Visitazione di Maria, che vi collocò un quadro ovale della Vergine (opera di Paolo De Matteis). Nel 1867, i frati si trasferirono nel monastero di Donnaregina, portando con sé l'opera d'arte. La cappella fu quindi ceduta ad un'altra congrega.    
L'altra chiesina, è chiamata della Riforma perché la fondatrice del complesso, Maria Longo, qui raccoglieva le donne di mondo, dette anche della Buona Morte, per "riformarne" la vita e condurle sulla retta strada. Nel decennio francese, queste furono trasferite nella chiesa delle Trentatré e la cappella fu concessa alla Congrega di Santa Maria Regina Paradisi, poi a quella dei Cucchi.     
I due monasteri, espulse le suore, nel 1813 passarono a far parte dell'ospedale.

 Achille della Ragione 

 

fig. 16  - Giuliano Bugiardini -
Deposizione - 1530 circa

 

fig.17 - Giovan Angelo d'Amato -
Madonna di Loreto


fig.18 - Geronimo D'Auria -
Madonna col Bambino - 1592


fig.19  - Giovan Battista Rossi -
Adorazione dei Magi - 1759


fig.20 - Andrea Sarti -
monumento funebre di Ludovico Montalto

fig.21 - Giovanni da Nola -
Sepolcro di Andrea di Capua - 1531


fig.22 - Giovanni da Nola -
Sepolcro di Ferdinando di Capua - 1531