martedì 14 gennaio 2014

La patria della musica




Napoli da sempre è stata la patria della musica colta e popolare con la presenza di 4 conservatori famosi in tutta Europa.
Quello di San Dietro a Macella sta lentamente diventando un museo che dialoga con la città ed un volume cataloga strumenti, dipinti e cimeli.
“Un punto di arrivo dal quale ripartire”. Roberto De Simone definisce così il catalogo del patrimonio storico artistico e degli strumenti conservati al San Pietro a Macella, il primo realizzato dopo quello redatto dal Santagata nel 1930. Da allora ad oggi tante cose sono cambiate in Conservatorio. “E’ passata una guerra, un incendio, un terremoto”, sintetizza il presidente Pasquale del Vecchio. Un lavoro attento e meticoloso, frutto di studi e ricerche durati anni che viene dato alle stampe: più di trecento pagine con immagini, schede, bibliografia. Dove c’è, in pratica, tutta la storia della musica e soprattutto, la musica passata da Napoli che in questo campo è sempre stata una capitale, non solo nel Settecento.
“E’ davvero qualcosa di straordinario, è un patrimonio che appartiene a tutti e che abbiamo il dovere di preservare”, ha esordito il sindaco de Magistris, alla sua prima visita ufficiale al San Pietro a Majella. Un segnale che il Comune vuole puntare sul patrimonio cittadino come volano di sviluppo: “Sono posti di lavoro”, ha aggiunto il sindaco, “le eccellenze della città vanno sfruttate e non c’e’ neppure bisogno di consulenti per pubblicizzarle, parlano da sole, come le sale di questo conservatorio”, ha aggiunto non prima di aver applaudito la voce straordinaria di Maria Grazia Schiavo impegnata in due arie dalle tessiture ardue, di quelle affidate ai castrati in epoca barocca, Pergolesi e Vinci.
“Qui c’è l’identità della scuola napoletana, uno stile unico. La vera filologia sta nell’individuare il rapporto tra oralità e scrittura, quello che si evince dalle pieghe della storia”, insiste De Simone. E’ stato lui, quando si insediò alla direzione del Conservatorio nel ’95, “per chiara fama”, a richiamare l’attenzione del mondo culturale internazionale sulla disastrosa condizione in cui versava il patrimonio del San Pietro a Majella. Da allora si sono moltiplicate le iniziative e i progetti, è stata catalogata e informatizzata la biblioteca, ora arriva la schedatura di quadri, statue, strumenti, cimeli e oggetti appartenuti a grandi musicisti. Molto è stato fatto grazie all’ex presidente, Antonio Falconio. In suo nome i familiari hanno istituito una Fondazione di studi manageriali e proposto un premio, il primo è andato proprio al Conservatorio.




“Prossimo passo dovrà essere l’archivio storico”, annuncia Del Vecchio segnalando la singolarità di tre lettere rinvenute tra le carte dell’antico convento: una di Mazzini a De Santis, una di Garibaldi e una di Croce al ministro Casati. Nel frattempo ecco tutto quanto catalogato ad oggi: busti, ritratti, tanti, in gran parte collezionati o fatti dipingere da Francesco Florido negli anni in cui diresse la biblioteca: dal Mercadante dipinto da Palizzi a un Martucci giovanissimo, Pergolesi restaurato e più somigliante all’autore della “Serva padrona”. Il pianoforte di Cimarosa, violini, salteri, mandole, l’arpa Stradivari. Una sedia appartenuta a Paisiello, un bastone di Mercadante, un guanto di Liszt un mare di piccoli oggetti di Bellini compresa la sua maschera funebre e una ciocca di capelli. Lista a parte, invece, per il “patrimonio perduto” dopo il censimento del 1930: tanti quadri e, tra le curiosità, un campanello e una tabacchiera di Donizetti, spariti nel marasma che è stato per lungo tempo il San Pietro a Majella. Molti anche i nuovi fondi e le donazioni, tra le quali quella di De Simone stesso, la più cospicua.
Ma ora l’aria è cambiata. “Pensiamo di far venire qui la città, i giovani gli studenti”, dice la Di Nocera riferendosi alle sale mussali del Conservatorio che, essendo una scuola, non ha alcun riconoscimento come museo come biblioteca scolastica. “Ma al di là delle definizioni è importante l’insieme di memorie che vada qui all’Accademia di Belle Arti, ai Girolamini, al Filangieri ancora chiuso, al Pio Monte”, ha poi osservato Nicola Spinosa auspicando che questi luoghi non diventino solo meta di gite turistiche ma “strumenti di crescita civile”.
L’ultima sorpresa emersa dalla Biblioteca del Conservatorio è la partitura per banda dell’”Orietta di Lesbo”, opera rappresentata a Napoli nel Carnevale 1855. La firma è quella di Giuseppe Verdi, anche se in realtà l’opera era nota con il titolo di “Giovanna d’Arco” molto probabilmente cambiato per ragioni legate alla censura sotto al Vesuvio.
Il prezioso documento è stato esposto nella mostra “Verdi e Napoli” ed in quella occasione è stata aperta una nuova sala intitolata a Riccardo Muti.
E’ stata un omaggio a un grande napoletano per proseguire il rapporto cominciato quando in collegamento con Chicago fu ospitato la sua esecuzione della Messa da Requiem.
E’ stata una delle cose più rimarchevoli del bicentenario della nascita di Verdi, che ha distinto il grande compositore dal musicista di consumo.
Il maestro realizzò la orchestrazione dell’”inno nazionale a Ferdinando II”, il controverso documento conservato in biblioteca con la firma del maestro di Busseto e che farebbe ipotizzare un Verdi filoborbonico.
Una musica d’autore non le solite guarrattelle, anche se gli elementi stilistici di riferimento sono quelli di “Si ridesti il leon di Pastiglia” dall’”Ernani”. Tutto lascia presuppore che il pezzo sia stato trasporto e reinventato a Napoli. Qualcuno ci ha messo mano, ma chi? Lo stesso Verdi? O autori come Lauro Rossi, Mercadante o Federico Ricci? Risposte difficili da dare anche perché, tutte le testimonianze d’epoca borbonica in merito sono scomparse, come “sono scomparsi inni patriottici a Milano” con l’avvento dei Savoia e della Unità d’Italia. Ed inoltre nella mostra sono esposti un manoscritto ora esposto tra i pezzi più importanti della mostra, divisa in più sezioni basate sulla presenza del maestro a Napoli. Ecco allora, dipinti, sculture, libretti, lettere, stampe e giornali d’epoca affiancati da bozzetti di scene e costumi di opere di scena al San Carlo e testimonianze dell’inserimento attivo di Verdi nell’entourage artistico partenopeo e del rapporto con Salvatore Cammarano, suo librettista di fiducia scomparso nel 1852 mentre scriveva i versi per “Il trovatore”.
Tra i tanti personaggi legati alla storia della musica a Napoli vogliamo raccontare l’avventura di Giulia De Caro, detta Ciulla, diva scandalosa che inventò l’amplificatore, anche se sotto la forma di un imbuto per diffondere la sua voce.
Bella e brava amò viceré e nobili, ma la sua fama trasgressiva le tronco il successo.
La celebre “Cantatrice” di Bernardo Cavallino, conservata nel museo di Capodimonte, probabilmente ce ne tramanda le fattezze.
Giulia De Caro, detta anche la Ciulla della Pignasecca, fu la pioniera delle cantanti fatali e l’antipatrice di qualche novità tecnica. D’estate cantò su una barca davanti alla spiaggia di Mergellina, tenendo un imbuto di latta amplificatore davanti alla bocca affinché tutti sentissero.
Nata a Viste (Foggia) 13 luglio 1646, Giulia era figlia del cuoco Tommaso e di una lavandaia. Fece la serva, giovanetta fu sedotta da uno stalliere e venne a Napoli per allontanare la vergogna. Fu dapprima al servizio di un negoziante di ventagli, certo Pesce, che per cento doppie di Spagna la cedette al toscano Carlo Ginelli detto Cappello d’Oro, burattinaio e buffone di piazza, presto sposo. Giulia aveva una bella voce e cominciò a esibirsi in una compagnia di comici e di saltimbanchi in piazza Castello. Cantava arie scurrili alternate a villanelle. Corteggiata, lasciò il marito e collezionò amori in serie, scegliendo tra i ricchi, tra cui il cavaliere veneziano Vallo e il duchino della Torre Filomarino. Oramai frequentava salotti raffinati e, per perfezionarsi nel canto, studiò musica. Alla bellezza si abbinò la bravura. Ma la sua condotta per la morale del tempo era scandalosa, la mandarono a far penitenza in un monastero, ne uscì dopo un mese, ricominciò e fu scacciata dal vicereame. A Roma affinò ancora la voce.
Rientrò nel 1671 e stavolta cantò in un repertorio austero nella compagnia allestita da Cecilia Siry Chigi, vecchia artista diventata impresaria del San Bartolomeo, alle spalle di via Medina, allora massimo teatro napoletano. L’esordio nell’”Annibale in Capua” di Ziani fu salutato da fischi, risate di scherno, lazzi e insulti; anche l’esito del “Demetrio” di Pallavicini fu mediocre.
Ciulla non si rassegnò. Continuò a studiare, nel 1673 convinse l’amante del momento, Prospero Barisano marchese di Caggiano, a prendere l’appalto del San Bartolomeo, di cui diventò direttrice. Formò i Febi Armonici scegliendo i cantanti più bravi d’Italia – Sonetto, Caterina Porri e suo padre Enea, Marietta – e li ospitò nella casa di Mergellina. Allestì scene sontuose. Nonostante qualche iniziale incertezza, trionfò nel “Marcello in Siracusa”; il prologo dell’opera fu composto da don Giovanni Cicinello, duca di Grottaglie e principe di Cursi, uno dei suoi molti amanti. Il viceré marchese di Astorga andò a vederla e se ne invaghì; anzi in un intervallo si sedette accanto alla cantante e svelò in pubblico la loro relazione.
Il principe di Cicinello la invitò più volte nella sua dimora di Mergellina e Ciulla, affacciata al balcone, cantò per i patrizi che passeggiavano nella strada. Aveva il temperamento della diva. Si raffinò nei modi, indossò abiti molto eleganti, calzò un cappello ornato di piume di tanti colori, viaggiò su un cocchio, portò sempre con sé un bastone. La fama di donna scandalosa allontanò i musici, e il viceré fu costretto a mandare sul palco tre strumentalisti di palazzo. Si legò al nipote del viceré, Pietro Guzman, e subì una nuova espulsione da Napoli, nel 1674. Venne segregata in un monastero, dopo due mesi fu perdonata, anche perché anche nel chiostro aveva dato scandalo. Impunita, diede la scalata al Teatro di Corte, dove il 6 novembre 1674 allestì “Genserico”, di Cesti, seguito dalla “Stellidaura vendicata” di Provenzale, che poi a lei si ispirò per “Schiavo di sua moglie”. Nel 1675 trionfò nella “Dori” di Cesti.
La sua stella cominciò a perdere luce quando circolò un poemetto satirico sulle pagine più nere della sua vita, di Antonio Muscettola duca di Spezzano, “La Carilda o il bordello sostenuto”. Andò in esilio volontario a Roma e a Venezia. Rientrò nell’ottobre 1677, in tempo per diventare l’amante del nuovo viceré, il marchese del Los Velez, ma fu rinchiusa nel conservatorio delle Pentite alla Pignasecca.
A riscattarla dopo meno di un mese fu un bravo giovane, Lucio Mazza, a patto che diventasse sua moglie. Essendo morto il primo marito, poté dirgli di sì. Andarono a vivere a Capodimonte, ebbero una figlia. Ciulla divenne moglie irreprensibile e scoprì la fede. Morì a Napoli il 27 novembre 1697.
Ricca o povera? Domenico Conforto scrisse nel suo “Diario”: ” E’ morta nel casale di Capodimonte la famosa un tempo puttana e canterina Giulia De Caro, che pria di maritarsi fu il sostegno del Bordello di Napoli…ed è stata seppellita miseramente nella Parrocchia del suddetto casale, solo con quattro preti, una che al tempo del suo puttanesimo dominava a Napoli et sic transit gloria mundi”. Un altro cronista scrisse invece che aveva lasciato alla figlia un’eredità di decine di migliaia di scudi. L’ultimo mistero di una biografia in cui resta difficile distinguere tra verità e leggenda. Nel conservatorio di San Pietro a Majella si conserva un busto in terracotta della Ciulla, opera di Luigi De Simone.




Dal 1826 il Conservatorio di San Pietro a Majella si trova nell'edificio che era il convento dei Padri Celestini vicino a piazza Dante e al decumano maggiore. 
Trae le sue origini nei quattro Orfanotrofi sorti nel Cinquecento nelle zone più povere e più derelitte di Napoli: il Santa Maria di Loreto, la struttura di Sant'Onofrio a Porta Capuana, i Poveri di Gesù Cristo e la Pietà dei Turchini. La scuola di musica nacque appunto dall'unione degli studenti di questi orfanotrofi. La sede attuale ospita una biblioteca dove sono conservati autografi, manoscritti e stampe rare con una sezione particolare dedicata alla musica Settecento napoletano. La sala Scarlatti, che ha un'acustica spettacolare, si affaccia su uno dei chiostri del conservatorio.
Uno scrigno con 5 secoli di partiture, manoscritti e strumenti che la cattiva gestione stava mettendo in pericolo. Ora la rinascita con un commissario che riesce a coniugare buona amministrazione e nuove iniziative artistiche. I suoni che arrivano dalle finestre sul vicolo San Pietro a Majella non sorprendono solo i viaggiatori di passaggio ma anche i napoletani. Gli archi pizzicati che si sovrappongono ai fiati, le voci dei cantanti che si intrecciano con i pianisti che corrono per lo loro scale diatoniche tutti insieme, ma ognuno per conto proprio. Le note di centinaia di esercizi rimbalzano anarchiche sulle pareti dei palazzi che si aprono su piazza Bellini e via Costantinopoli. E sotto nel vicolo, i turisti con il naso per aria che cercano di capire la magia di uno dei luoghi più simbolici di una Napoli decadente che resiste grazie alla passione di pochi.
Il Conservatorio di San Pietro a Majella è un’istituzione che non finisce mai di sorprendere, anche se negli ultimi anni è stata offuscata da questioni amministrative. Per mettere ordine tra le pareti dell’antico convento dei Padri Celestini è che stato nominato un commissario che ha fatto della musica una delle sue passioni vitali.
«Per me la musica è stata un sogno che e diventato segno - dice Achille Mottola, da un anno commissario con funzione di presidente del CDA nel conservatorio di San Pietro a Majella -  Non so se benedire o  maledire l’insegnante di scuola media che non ci faceva ascoltare la musica. Mi sarebbe piaciuto molto poterla studiare bene ma, quello che potevo fare era disegnare i tasti del pianoforte sul banco e farli sparire durante l’intervallo per non vano per non essere rimproverato dagli altri insegnanti. E’ stata una spinta, quello che ho capito è che l'insegnamento della musica è fondamentale fin dalla scuola dell'infanzia, importantissima nella scuola primaria e quindi nelle medie. E’ determinante avere degli insegnanti che sappiano leggere la musica e che siano in grado di capire e poi indirizzare la vocazione degli allievi». Achille Mottola ha cominciato una sua piccola rivoluzione per creare, parole sue, un “Conservatorio con le pareti di cristallo” «Deve essere possibile guardare all'interno del conservatorio - dice - per permettere a tutti di vedere e godere degli incredibili tesori che contiene ma anche per verificare che tutto si svolga secondo le regole. Quello che ho dovuto fare è riattivare le procedure amministrative contabili. San Pietro a Majella era in condizioni critiche, non erano stati fatti i consuntivi, non cerano bilanci di previsione. Sono partito da zero e i sogni rimangono sogni se non si trovano le energie per realizzarli». Mottola è uno specialista, dopo sei anni con un ruolo analogo al conservatorio di Benevento e dieci anni come presidente dell'associazione Amici della Musica, si muove tra le faccende musicali organizzando concerti e incontri. 
«Una volta trovate le energie, quello che rimane e la passione e la soddisfazione di aver coinvolto tanti ragazzi a fare una cosa meravigliosa. A Benevento ho trovato risorse per quasi sei milioni di euro. Abbiamo acquisito uno stabile del '700 per dare una sistemazione al conservatorio, eppure non è quella la grande soddisfazione del mio percorso. Uno dei risultati veri e che mi ha ricompensato di più è il concerto dei ragazzi diretti da Sir Anthony Pappano. Era estate e pur di essere seguiti dal grande direttore d'orchestra, anche lui di origini sannite, i ragazzi, erano settantuno elementi, rinunciarono alle vacanze e rimasero a provare chiusi in un cinema». 
I progetti legati alla crescita di istituzioni come un conservatorio devono comunque legarsi alla modernità anche per lasciare una traccia del percorso seguito. «Al conservatorio di Benevento - dice Mottola - ho sperimentato la creazione di un'etichetta discografica. Lo stesso ho fatto a Napoli. Abbiamo ora delle edizioni San Pietro a Majella, poi avremo anche un'etichetta discografica per poter promuovere e commercializzare la musica registrata da noi, avremo un bookshop. Però, la cosa principale è la tutela e la promozione di un patrimonio storico immenso».
C'è una parte molto arida dietro il corretto funzionamento di una grossa istituzione come un conservatorio di musica. La gestione corretta del patrimonio, anche quello immobiliare, è una componente decisiva per la riuscita di iniziative artistiche. «Per quanto si possa essere capaci a intercettare risorse e organizzarle, ci vogliono gli spazi per realizzare le cose. Ma in realtà quello che mi preoccupa di più non sono gli spazi fisici, ma quelli mentali. Via Costantinopoli potrebbe diventare la strada della cultura. In cento metri sono attivi due grossi poli culturali della città, il Conservatorio e l'Accademia delle Belle Arti. Se si riuscisse a creare anche un polo dedicato alla danza, sarebbero i cento metri più creativi della città».
Come la mostra dedicata a Giuseppe Verdi, inaugurata il 21 dicembre, realizzata tutta con materiali custoditi nella biblioteca. Ci sono la partitura originale dell'unico quartetto per archi scritto da Giuseppe Verdi, il calco della sua mano ed altre testimonianze del rapporto tra Verdi e la città. «La biblioteca archivio del Conservatorio di Napoli è la storia della musica degli ultimi cinque secoli dice il commissario. Contiene partiture autografe di Alessandro e Domenico Scarlatti, i manoscritti di Pergolesi e Monteverdi. Ho dovuto far installare un sistema di telecamere per una videosorveglianza attiva 24 ore al giorno. Quelle che c'erano o non funzionavano o erano finte. Erano scomparse 40 pagine di un manoscritto di Monteverdi».

Achille Mottola con un antico codice gregoriano





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