Antonio Gava nato a Castellammare di Stabia nel 1930 e deceduto a Roma nel 2008, è stato un importante uomo politico, più volte ministro e nell’ambito della Democrazia Cristiana fu, assieme a Forlani e Scotti, uno dei leader della corrente dorotea. Figlio d’arte, il padre Silvio, fu 13 volte ministro tra gli anni Cinquanta e Settanta. Iniziò la sua carriera politica come Presidente della Provincia di Napoli nel 1960, carica che conservò per circa 10 anni. eletto nel 1972 nel Parlamento, nel 1980 ricoprì la carica di Ministro dei rapporti con il parlamento, per divenire poi Ministro delle Poste e telecomunicazioni, delle Finanze e due volte dell’Interno.
Uomo tra i più potenti della DC, era soprannominato “Il vicerè”. Nel 1990 fu costretto a ritirarsi a seguito di un ictus. Più volte Antonio Gava ha avuto problemi con la giustizia, accusato di contiguità con la camorra.
La prima volta il 30 marzo 1984, Antonio Gava venne interrogato dal giudice istruttore napoletano Carlo Alemi e dal collega Olindo Ferrone, in ordine alle promesse che suoi emissari avrebbero fatto a Cutolo detenuto: denaro; appalti e tangenti per la ricostruzione del dopo terremoto in Irpinia; trattamenti di favore dentro le carceri e trasferimenti da un penitenziario all'altro.
Al termine dell'istruttoria, lo stesso giudice istruttore, il 28 luglio 1988, depositò l'ordinanza di rinvio a giudizio di vari personaggi che sarebbero stati protagonisti della trattativa della Democrazia cristiana campana con la camorra di Raffaele Cutolo per addivenire ad una liberazione di Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate rosse, in cambio di favori nella concessione di appalti pubblici. Antonio Gava, Flaminio Piccoli e Vincenzo Scotti furono indicati come i registi della trattativa. A sostegno dei suoi convincimenti il giudice nella sua ordinanza scriveva che effettivamente i politici, nonostante lo avessero sempre negato anche durante gli interrogatori, fecero delle promesse a Cutolo nel carcere di Ascoli Piceno, attraverso i servizi segreti e Francesco Pazienza, affinché intervenissero per salvare la vita a Cirillo.
L'inciampo dell'ordinanza, che accreditò la veridicità dell'ingresso nel carcere di Ascoli Piceno di un emissario di Vincenzo Scotti che positivamente quel giorno si dimostrò essere altrove, fu colto dalla Democrazia cristiana per travolgere nella condanna pubblica tutto il contenuto delle 1600 pagine dell'ordinanza Alemi: ne derivarono le dimissioni da direttore de L'Unità di Claudio Petruccioli (che aveva accreditato quell'incontro) e la reiezione della mozione di sfiducia individuale nei confronti del ministro Gava, presentata alla Camera dei deputati dall'opposizione comunista.
La seconda delle accuse vertenti sul suo capo ha invece una storia ben più complessa della precedente: nel 1993 Gava, capogruppo al Senato della Democrazia Cristiana, vide bussare alla porta di casa sua i Carabinieri che gli presentarono un mandato d'arresto con l'accusa di avere rapporti con la Camorra: Gava venne accusato di voto di scambio durante la campagna elettorale di quell'anno, reo di aver barattato voti finanche con loculi cimiteriali. Essendo stato Ministro dell'Interno, chiese di essere portato al carcere militare di Forte Boccea nel quale passò tre notti; successivamente gli furono concessi gli arresti domiciliari che durarono dal settembre 1994 al marzo 1995. A seguito del suo arresto, Gava fu sospeso in via cautelare dal Consiglio dell'ordine degli avvocati al quale apparteneva. Dopo una traversia giudiziaria durata tredici anni, il 19 maggio 2006 Gava venne definitivamente assolto in appello a causa di «mancata impugnazione».
Attraverso i suoi avvocati Gava ha chiesto allo Stato Italiano un risarcimento di 38 milioni di euro.
Sono entrati nella leggenda, i trucchi per controllare i voti degli elettori. Ai tempi in cui ancora non c'erano i cellulari e la possibilità di imporre ai «clientes» di fare la foto alla scheda, i gran feudatari del voto mettevano a punto tutte le combinazioni possibili (prima questo numero, poi quest'altro, poi quest'altro ancora in ordine perfetto ... ) così da controllare la fedeltà del propri beneficiati. Se non veniva dimostrata, niente trasferimento del figlio militare in una caserma vicina a casa, niente raccomandazione per un posto da bidella, niente sostituzione estiva all’ACI.
Sono entrati nella leggenda, i trucchi per controllare i voti degli elettori. Ai tempi in cui ancora non c'erano i cellulari e la possibilità di imporre ai «clientes» di fare la foto alla scheda, i gran feudatari del voto mettevano a punto tutte le combinazioni possibili (prima questo numero, poi quest'altro, poi quest'altro ancora in ordine perfetto ... ) così da controllare la fedeltà del propri beneficiati. Se non veniva dimostrata, niente trasferimento del figlio militare in una caserma vicina a casa, niente raccomandazione per un posto da bidella, niente sostituzione estiva all’ACI.
Una vera leggenda era Alfredo Vito, il proconsole diccì che contendeva l'hinterland napoletano a Francesco Patriarca detto «Don Ciccio 'a Promessa» e si vantava di saper rovesciare al volo ogni parola leggendola al contrario (Balestra? «Artselab». Scala a chiocciola? «Aloiccoihc a alacs») ma soprattutto d'avere incasellato «e prima del boom del computer!») la bellezza di 30.000 elettori: «Se vedo una faccia non la scordo. Così i nomi. E allo spoglio ero capace di sommare a mente i voti di 50 seggi».
Lo chiamavano «Vito 'a Sogiola per la capacità mimetica di appiattirsi sotto la sabbia tra i due balenotteri napoletani Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, per riemergere gonfio di voti come un pesce-palla: 104-532 nel '92 quando già era passata la preferenza unica (di qui il nomignolo «Mister 100.000 preferenze») ma addirittura 154474 preferenze nell’87. Senza un discorso alla Camera Senza un'apparizione televisiva.
Senza un manifesto. Solo rapporti personali. Come Totò Cuffaro, che teneva sulla scrivania uno schedario con migliaia di nomi ma in realtà sapeva tutto a memoria e spiegò a Sebastiano Messina: «La mia porta è sempre aperta e dunque bussano in tanti. Viene padre Lo Pinto e mi invita alle prime comunioni e alle recite teatrali, io ci vado e lo aiuto a costruire il palco. Quando arrivano le elezioni è lui che mi chiama e poi siede accanto a me dicendo ai parrocchiani: "Totò è amico nostro, è cresciuto con noi, votiamolo". Anche le suore sono con me. Le "Collegine", le suore del Collegio di Maria, in Sicilia hanno cinquanta istituti. Ne scelga uno a caso, ci vada e chieda per chi hanno votato. Le diranno: Totò Cuffaro». E poi c'erano i medici di base e i lavoratori socialmente utili e le associazioni no-profit e i circoli anziani e gli oratori parrocchiali ...
«incontro da anni duecento, trecento persone al giorno. Ascolto. Ricordo le facce, i nomi, i progetti. » Progetti? «Sportivi, culturali, sociali ... ».
Insomma: le pratiche clientelari? «Se, intende "clientelismo" nel senso dispregiativo, è una parola che mi fa schifo. Se intende stare ad ascoltare gli amici…»
Per questo, quando Mario Segni che si battè come un leone per abolire quel sistema orribilmente degenerato ha saputo dalla. sentenza della Corte Costituzionale che rischia di ripristinare le preferenze, si è sentito cadere le braccia: «ma come torniamo a quella schifezza?». Perché sì, allora come ha scritto Filippo Ceccarelli, «quando la tombola si chiamava ancora tombola e non bingo, il voto di preferenza era una scelta così determinante che sulla scheda, in cabina, molti italiani si esprimevano attraverso ambi, terne e quaterne. Ed era una lotta pazzesca non solo tra i partiti, ma soprattutto fra le correnti e ancora di più tra i singoli candidati».
E per far mandare a mente agli elettori i nomi da votare i più fantasiosi ne inventarono di tutti i colori: poesiole, canzone, cruciverba, rime baciate, normografi con i nomi predeterminati ma soprattutto date. Clemente Mastella, ad esempio, raccontò un giorno come aveva fatto. a debuttare giovanissimo in Parlamento sulla scia di Ciriaco De Mita. Quelli che dovevano entrare erano piazzati in una precisa casella della lista: «Era il 1976 e invitammo i cittadini di Benevento a votare l'anno, perché Ciriaco De Mita era il numero 1 della lista, io ero il 9, Gerardo Bianco il 7 e Giuseppe Gargani il 6».
Quasi quarant'anni dopo, c’è ancora chi sospira di malinconica nostalgia. E ti chiedi: possibile che non esistano vie di mezzo tra la lista bloccata dove decide tutto il padrone del partito e quel sistema scellerato che grazie a Dio ci lasciammo alle spalle?
Con la dinastia dei Gava ho avuto numerosi contatti personali, lungo l’arco di 3 generazioni. Con Silvio ed Antonio, ebbi più di un incontro, quando ero impegnato nella stesura del mio libro su Achille Lauro ed entrambi mi fornirono particolari inediti sulla vita del Comandante. Più spiritoso l’incontro con Angelo, figlio di Antonio, che avvenne nella cornice marinara di una vacanza alle isole Mauritius. Costituimmo per 15 giorni un gruppetto molto affiatato, io con mia moglie, Tonino Cirino Pomicino, fratello di Paolo e signora (consultate in rete “Un console esilarante”), Umberto Scapagnini (consultate in rete “Il medico personale di Berlusconi”) con la partner dell’epoca, ed Angelo Gava con la novella sposa, figliola dell’onorevole Di Donato.
Trascorremmo giornate indimenticabili e ricordo che Angelo affermava che non si sarebbe mai e poi mai dedicato alla politica. Nel frattempo ha poi cambiato idea, perché, come mi conferma il mio caro amico Salvatore Cuffaro, già senatore e governatore della Sicilia, era divenuto un dirigente della UDC e sognava di spiccare il volo verso il parlamento.
Ma il particolare più divertente fu l’abitudine dei miei figlioli: Tiziana e Gianfilippo, sfruttando la somiglianza, nella mole maestosa e nella fluente barba tra me ed Angelo, di spacciarsi per figli suoi al bar del Valtur, addebitandogli sul suo conto tutte le consumazioni a pagamento.
Nessun commento:
Posta un commento