mercoledì 8 gennaio 2014

La Civiltà del Caffè


Fumante, macchiato, amaro, schiumato: una tazzina del tradizionale elisir dei due sorsi non si rifiuta mai nel corso della giornata. La chiacchiera è intanto assicurata e con essa una ventata di buonumore.
Non è solo la silhouette di una tazzina fumante a richiamare quella del Vesuvio. Il rito del caffè è intrecciato da sempre ai costumi dei napoletani, che hanno non solo il primato del maggior consumo di caffè, ma anche dei modi di prepararlo e delle occasioni di cui sono soliti degustarlo. Ma il segreto di un buon caffè, al di là di ogni possibile alchimia, sta tutto nell’aroma che si sprigiona dal chicco, ovvero in una miscela di qualità.
‘A tazzulella ‘e cafè’ è per il napoletano un rituale che scandisce le ore, accompagna il risveglio al mattino, l’incontro con un amico, la visita di un ospite, l’incontro d’affari, la pausa dal lavoro, completa il pranzo e talvolta la cena.
Intenditori al primo assaggio, meglio ancora, al solo sentire l’aroma
Sola a Napule ‘o sanno fa
Le tre C: comme, cazz, coce
Trasformare il rito quotidiano del caffè in un vero culto
Un espresso ad arte si riconosce già al primo sguardo: la crema deve essere di colore nocciola e di tessitura finissima. All’olfatto poi ha un profumo intenso, che  evidenzia note di fiore, frutta, pane tostato e cioccolato, tutte sensazioni che si avvertono anche dopo l’assaggio, nell’aroma che permane per secondi, a volte minuti. Il gusto è rotondo, consistente, vellutato, l’acido e l’amaro risultano bilanciati senza che vi sia prevalenza dell’uno sull’altro. Fondamentalmente anche la tazzina di ceramica bianca: 25ml è la dose esatta per la quale occorrono 25 secondi, ma berlo in un bicchiere di plastica è una vera bestemmia.
‘Na tazzulella ‘e cafè acconcia a vocca, si sa addolcisce la bocca e, talvolta, anche l’anima. Uno dei pochi lasciti della nostra cultura popolare non ancora fagocitati dalla melma globale del Ventunesimo secolo è stato celebrato ieri, non solo in Italia, ma in mezzo mondo: il caffè sospeso. Quella civilissima usanza secondo la quale l’avventore agiato entra in un bar paga per sé un caffè e ne anticipa il pagamento di un altro, per uno sconosciuto (molto) meno agiato che, entrando più tardi, dovesse chiedere al cassiere: «C’è un pagato?».
La faccenda può intenerirci o farci sorridere, naturalmente, perché rimanda agli stenti, agli aromi antichi della Napoli edoardiana o addirittura scarpettiana, esattamente da dove origina. Giovani scrittori allergici alla retorica localistica e disincantati giornalisti napoletani sostengono ormai che questa radice partenopea sia leggenda metropolitana. Eppure in tanti sembrano prendere sul serio sia l’usanza sia la leggenda se ieri mattina, nell’Agenda Europa della France Presse, dopo l’annuncio di un discorso di Draghi e prima di una notizia da Bucarest, si potevano leggere le seguenti righe: «Il 10 Dicembre, giornata mondiale dei diritti dell’uomo, è anche quella del caffè sospeso (in italiano nel testo francese ndr), una tradizione napoletana…». Già, anche la concomitanza con la celebrazione dei diritti dell’uomo può farci sorridere: troppa grazia San Gennaro. Eppure, pensateci, nel freddo vuoto della crisi planetaria, un caffè caldo offerto da chi non conosciamo è ben più d’una bevanda: è un diritto dell’uomo a sperare in un mondo migliore almeno per il tempo d’un sorso. In Italia 58 bar, da Trieste a Lampedusa (laggiù c’è il mitico Royal, approdo sicuro e gratuito per i migranti), aderiscono alla rete del caffè sospeso, cui sono agganciati eventi, spettacoli, reading, l’idea profondo del mutuo soccorso; altri tre locali si sono associati dall’estero (Spagna, Svezia, Brasile). Ma basta farsi un giretto online e aprire il sito anglofono Coffee Sharing per scoprire che 195 bar di 138 città in diciannove nazioni hanno adottato il suspended coffee, «tradizione nata nella città dell’Italia meridionale, Napoli» (riecco la famosa leggenda). Il fenomeno ha contagiato gli indignati francesi, decine di caffè bulgari, il Tam Tam Cafè di Quebec e il Fritkot Bompa di Ixelles, Bruxelles, che ha mantenuto il principio, ma ha sostituito il caffè con le più popolari frites (le buonissime e pesantissime patatine).
La chiave di lettura partenopea aiuta tuttavia a comprendere meglio il senso della tradizione che al Nord, pur declinata con intenti nobilissimi, diventa qualcosa di molto vicino all’elemosina a distanza, un gesto di altruismo che ci eviti però il contatto con la miseria, una sorta di obolo a effetto ritardato. Nulla di più lontano dall’originario intento del caffè pagato. Forme di generosità differita, addirittura il pasto sospeso in trattoria, le troviamo già nella Roma povera ma bella del neorealismo e del dopoguerra. E persino in quella di fine anni Trenta se nei Ragazzi di via Panisperna di Amelio vediamo una vecchina che, affacciandosi ad un locale chiede «c’è un sospeso?». L’usanza è stata poi messa in sonno dai decenni del benessere, ma è evidente come la crisi la stia riproponendo ed ampliando con la forza della disperazione: pizza in sospeso, panino in sospeso, aiuto per chi soffre.
Nella sua accezione napoletana, tuttavia, chi soffre è, all’origine, il benefattore e l’atto di beneficenza serve ad alleviarne la solitudine, che è forse il senso ultimo del tendere la mano agli altri. Luciano De Crescenzo, che ha dedicato alla questione un bel libro, racconta la storia di un avvocato della Pignasecca il quale, vincendo un terno al lotto e non avendo persone care con cui festeggiare ordinò al barista di offrire da bere a chiunque fosse entrato quella sera dopo di lui. Altri collocano l’origine dell’usanza nel rione Sanità dell’ottocento. Ciò che non cambia è il senso, che è socializzazione, accoglienza, partecipazione. Chi entra per secondo, con quel caffè pagato, entrerà per qualche momento pure nella comunità, nei codici, nei sentimenti che appartengono a chi lo ha preceduto al bancone. Almeno questo succedeva nella Napoli in cui Eduardo diceva che il caffè è« la poesia della vita». Legenda napoletana o verità storica, noi vogliamo credere che sia ancora così, per tutti, almeno per un giorno.
La nuova guerra del caffè si combatte a colpi di alleanze industriali e di ricorsi in tribunale sul fronte più caldo del mercato dell’espresso: quello delle cialde. Le aziende Illy e Kimbo hanno appena sottoscritto un accordo del tutto inedito in un settore, dove la concorrenza è stata sempre spietata. Insieme, entrano nel segmento delle capsule, con macchine prodotte dalla Indesit e sfidano i due colossi della Nespresso (controllato dalla multinazionale Nestlè) e della Lavazza, un nome simbolo del made in Italy.
E’ una mossa che spariglia il tavolo del caffè, dettata da due fattori decisivi: innanzitutto la dimensione dei gruppi in concorrenza, e poi l’andamento dei consumi. Illy e Kimbo, la tradizione triestina e napoletana del caffè, sono due nani rispetto ai due colossi della Nestlè, che nel 2013 si avvia a fatturare 4,8 miliardi di euro, nell’area dell’espresso e della Lavazza a quota 1,3 miliardi di euro. E dunque per lanciare una sfida così impegnativa, che prevede enormi investimenti nel marketing e nella pubblicità, dovevano per forza trovare un accordo industriale e commerciale. Quanto al mercato, la novità consiste nel fatto che mentre i consumi del caffè della moka sono in contrazione, con una discesa ai livelli più bassi degli ultimi sei anni, quelli delle cialde volano ad un ritmo del 22 percento l’anno. Uno spazio enorme si è aperto, laddove la crisi invece non risparmia neanche il rito del caffè al bar.
Intanto la mitica Bialetti, la caffettiera dell’omino con i baffi compie 80 anni e si prepara a festeggiare. A Omegna, sulle rive del lago d’Orta dove è nata nel 1933, è in calendario una serie di iniziative. Un prisma di alluminio composto da due cilindri sfaccettati, avvitati tra di loro e un beccuccio rivolto verso il basso: questo l’aspetto della moka ideata da Alfonso Bialetti, una singolare forma ottagonale, mutata poco nel corso degli anni. Un’idea che ebbe osservando le donne mentre lavavano i panni sulle rive del lago: sotto il mastello, col fondo bucato, mettevano cenere e sapone che, a contatto con l’acqua, bolliva facendo schiuma e salendo verso la parte superiore dove c’erano i panni lavati. Carosello fece poi il resto.
In Italia gli ottantuno percento dei bevitori di caffè ne consumano fino a tre tazzine al giorno. Dove? Prevalentemente al bar, ma anche nelle case dove il rito del caffè coinvolge ancora più della metà della popolazione italiana. La crisi, però, sta modificando gli stili di vita, anche i più radicati e le cialde rappresentano nell’immaginario del consumatore un modo per risparmiare senza rinunciare alla qualità del prodotto. Da qui il boom, con una vendita nel 2012 di 2,2 tonnellate di caffè consumate in cialde monodose. Ma il mercato del caffè è globale per definizione, e l’Italia, nonostante le nostre abitudini, è ancora un piccolo mercato, il sesto in Europa dopo i paesi del Nord dove il caffè non ha le sembianze del “ristretto” quanto il gusto di una confezione “lunga”, da tazza per il latte. E puntando lo sguardo alle tendenze sui mercati internazionali, si scopre che proprio il settore delle cialde diventerà sempre più strategico e quindi più competitivo.
Attualmente nel mondo si bevono quattro miliardi di tazzine di caffè al giorno, un consumo superato soltanto dall’acqua, e la moka resta saldamente la prima fonte di acquisti. Ma sono le capsule che volano nelle statistiche: nel 2012, secondo i dati di Euromonitor International,  il mercato globale delle cialde valeva 8 miliardi di dollari, nel 2015 supererà la soglia di 12 miliardi di dollari. Una progressione importante e una straordinaria opportunità per i marchi del made in Italy, che hanno bisogno di esportare per mantenere livelli di ricavi e di profitti sostenibili.
E attorno al mercato della cialda le aziende italiane possono far valere i loro migliori punti di forza in termini  di competizione: la qualità del prodotto di base, la tecnologia sempre più evoluta delle macchine con gamma molto ampia di modelli, il design di stile italiano ancora considerato insuperabile. Resta, in questo scenario, un punto di debolezza del made in Italy del caffè: l’eccessiva frammentazione del settore. Attualmente le aziende di torrefazione italiane sono 716, alcune anche di piccole dimensioni e con sbocchi soltanto sul mercato domestico. Sono troppe e l’alleanza tra Illy e Kimbo è solo un primo segnale di aggregazioni che saranno sempre più spinte.
La guerra del caffè, infine, ha le sue code nelle aule dei tribunali di mezzo mondo, dove continuamente si discutono ricorsi per concorrenza sleale e per le imitazioni dei prodotti con politiche di dumping. La Nespresso ha una squadra di avvocati che si occupano solo di questi contenziosi e non sempre riesce a spuntarla in sede di giudizio. La multinazionale svizzera ha perso, per esempio, cause molto importanti contro catene di grandi magazzini come la Demer e la Migros, che vendevano le capsule compatibili con le macchine Nespresso a un prezzo però inferiore del cinquanta percento. E adesso deve fare i conti con l’ultimo e insidioso attacco che arriva dalla multinazionale Mondelez International, l’azienda numero due al mondo per la produzione di macchine per il caffè.
La Mondelez ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato, entro la fine del 2013, nuove capsule low cost compatibili con tutti i tipi di macchine per le cialde, a conferma del fatto che la guerra del caffè si combatte senza esclusione di colpi e con sempre nuovi protagonisti.
Il rischio per il made in Italy diventa enorme, senza la massa critica necessaria per affrontare la sfida le aziende rischiano di essere marginali nel segmento più promettente del mercato. E di ritrovarsi costrette a una resa che si traduce poi nella cessione dell’impresa ai grandi gruppi stranieri.
Sarebbe molto triste e non ci resterebbe che consolarci con una “tazzulella ‘e cafè”

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