31/8/2010
Gaetano Gigante fissa sulla tela una delle feste più antiche e più sentite della tradizione napoletana: quella denominata della Madonna dell’Arco(fig. 1), un mix di sacro e pagano durante il quale, ancor prima che divenisse un ballo popolare, veniva praticata la tarantella, come si evince da un dipinto di Micco Spadaro eseguito nel quarto decennio del Seicento.
Si trattava naturalmente, come ci raccontano scrittori napoletani e stranieri, di una forma scostumata, come una manifestazione di tipo orgiastico e dionisiaco.” Eccoli infatti lasciato il santuario versarsi a torrenti per le campagne circostanti e su i molli prati imbandir mensa e mangiare e trincare senza un pensiero al mondo”(Cossovich).
Il re Ferdinando IV fu perciò costretto a vietare le forme più spinte di furore godereccio attraverso un bando che metteva al bando “andar nudi per le piazze e per le strade, battendosi a sangue”, perché anticamente i partecipanti alla festa: i fujenti erano anche chiamati vattjenti, una caratteristica che rimane ai nostri giorni solo tra i seguaci dei riti settennali che si svolgono a Guardia Sanframondi.
Per fare una sortita nel medioevo o ancora più indietro all’epoca della colonizzazione della Magna Grecia non è necessaria alcuna mirabolante macchina del tempo, basta recarsi il lunedì in Albis a Sant’Anastasia al santuario della Madonna dell’Arco ed assistere al rito dei Fujentes, una tradizione che sfida i secoli, una sorprendente contaminazione di riti arcaici, un rito collettivo tra furore e superstizione, che sopravvive imperterrito alle sirene della modernizzazione.
A due passi dalle fabbriche di auto e di componenti aerospaziali per la Nasa, una moltitudine di pellegrini di tutte le età provenienti da ogni angolo della Campania accorre vestita di bianco, a piedi scalzi e sventolando variopinti stendardi tappezzati di banconote.
Una imprevedibile umanità che vive fuori dalla logica e dalla storia celebra ogni anno imperterrita un rito pasquale contaminato dalle antiche festività pagane, una resurrezione di Cristo, che si coniuga con il rifiorire della natura e delle messi.
Quasi duecentomila persone si mettono in moto all’alba e corrono per ore fino a raggiungere l’immagine della Madonna conservata nel celebre santuario, costruito sulle fondamenta di un antico tempio pagano, per sfruttarne imperscrutabili linee di forza, un segreto tenuto gelosamente celato dagli antichi costruttori.
Al canto di nenie mielose e ritmiche litanie, che ricordano la melopea fenice ed araba, ingagliardite da uno squassante rullio di tamburi, i pellegrini arrivano alla meta esausti, moltissimi in trance, alcuni strisciando con la lingua a terra, quindi, dopo l’adorazione, cominciano con rinnovato vigore la via del ritorno, intervallando il percorso con soste dedicate a vorticanti tarantelle ed estenuanti tammurriate.
Il rito è uno stupefacente fossile vivente di antichi culti praticati su lontane sponde di quello che fu il Mare nostrum, dalla Grecia al nord Africa, fino alla lontana Andalusia.
Dall’alba al tramonto è una marea incontenibile di arcaiche energie sopite che esplodono all’improvviso tra pianti, preghiere, implorazioni disperate e voci assordanti, che rimembrano il richiamo del muezzin e le tradizionali grida dei venditori ambulanti.
A questa folla dolente ed esaltata negli ultimi anni si sono affiancati migliaia di nuovi arrivati: filippini, polacchi, latino americani e tantissimi rom, a tangibile dimostrazione della capacità delle antiche tradizioni di calamitare sorprendentemente sempre nuovi devoti.
Questi originali pellegrini chiedono spesso una grazia alla Madonna e sono prodighi di ex voto, un fiume in piena conservato nella chiesa dal Cinquecento ad oggi. Spesso si richiede la fertilità, come reclamavano le fanciulle sterili che si affollavano ai piedi della dea Cibele o nei secoli successivi baciavano ardentemente il pesce di Nicolò, ma negli ultimi anni, segno dei tempi mutati, si implora sempre più spesso di liberarsi dal flagello della droga, una nuova esigenza testimoniata dalle numerose siringhe d’argento appese in bacheca tra gli ex voto, come se un sottile filo volesse collegare nell’immaginario popolare le austere Matres matutae, oggi visibili nel museo di Capua alle coraggiose madri dolorose presenti nelle squallide periferie dove la vita è lotta e molti vengono travolti.
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