21/4/2011
La cultura di un popolo si vede a tavola, la napoletanità si può odorare e gustare.
La cucina partenopea si può considerare una delle più complete d’Europa, perché in essa spiccano piatti tipici corrispondenti al primo, al secondo, ai contorni ed ai dolci.
La sua formazione è l’esito della stratificazione di ricette provenienti dalla tradizione dei vari popoli che hanno soggiornato all’ombra del Vesuvio, integrando sapori e culture diverse.
Alcune specialità rappresentano dei capolavori del gusto e possono essere apprezzate solo a Napoli come il sartù di riso, il timballo di maccheroni, la minestra maritata, il ragù, il casatiello, la pastiera, i taralli, la sfogliatella, il sanguinaccio e le zeppole di San Giuseppe.
A questi vanno aggiunti due successi indiscussi a livello internazionale come la pizza e gli spaghetti al pomodoro.
Inoltre la cucina napoletana, miscelando sapientemente piatti cittadini con specialità della campagna, possiede altre formidabili specialità, che vanno dai derivati del latte, in primis la mozzarella, agli insaccati, fino ad uno straordinario corredo di verdura ed ortaggi e ad una scelta di frutta da far invidia a qualunque altra regione italiana.
Circa 100 anni fa, dopo un continuo lavorio su antiche ricette, si è costituito un corpus sostanzioso di pietanze, che poco hanno risentito delle nuove esigenze di una società che lentamente tendeva ad abolire una serie di riti connessi a molte pietanze per la cui corretta preparazione è necessario tempo, pazienza e devozione.
Una fretta di vivere che ha influito sul repertorio di molte cucine locali, ma poco o niente su quella napoletana, la quale, nonostante trasformazioni ed innovazioni ha conservato una serie di piatti, sapori e valori rituali rimasti indenni, i quali rappresentano uno dei valori più pregnanti della napoletanità.
La cucina partenopea fa parte del patrimonio genetico del napoletano ed alcuni piatti tipici, invidiati ed apprezzati in tutto il mondo, fanno parte della sua cultura.
Essa nasce con le origini stesse della città ed all’inizio si è basata su piatti semplici, frutta ed ortaggi dalle rigogliose e fertili campagne e prodotti del mare allora pescosissimo. Cibi schietti e genuini, né ricchi e né complicati, senza eccessive manipolazioni.
L’abbondanza dei prodotti agricoli permise pure alla città di esportare e di essere al centro di importanti rotte commerciali, che facevano capo non solo al porto cittadino, di recente riportato alla luce dagli scavi per la metropolitana, ma anche da Baia e da Pozzuoli, da dove partivano le navi onerarie, cariche di derrate e di vini già allora famosi, come il Falerno, il Greco, il Lacrima Christi o l’Aleatico.
Una specialità che ha sempre incontrato i favori dei napoletani sono i formaggi di capra, portati dai pastori abitanti tra i monti prospicienti la pianura campana.
In seguito si è sviluppata una serie di lavorazioni casearie che hanno prodotto, utilizzando latte di vacca e di bufala, caciocavalli e provole, scamorze e burrini, fino alla divina mozzarella, che quando è buona è una vera leccornia.
Dopo la scoperta dell’America sono arrivate anche da noi, trovando terreno adatto e ferace oltre misura, il pomodoro e la patata.
Intere coltivazioni, soprattutto nel salernitano, sono state destinate all’oro rosso proveniente dal nuovo mondo.
I celebri san Marzano, assieme a nuovi ortaggi quali peperoni e melenzane, introducono nuova linfa alla cucina partenopea arricchendola di gusto e varietà.
Fino al Settecento per motivi economici i napoletani si cibano prevalentemente di verdure, al punto che prima di divenire mangia maccheroni erano denominati mangia foglie.
Nascono poi le prime fabbriche di pasta, di gran qualità grazie alle caratteristiche dell’acqua, leggerissima e priva di calcio e ad una accorta tecnica di ventilazione: ziti, rigatoni, penne, bucatini, linguine, vermicelli e spaghetti, i quali, con la comparsa della salsa di pomodoro, divengono una vera gioia per il palato, soprattutto della plebe.
Si sviluppano i vari tipi di salse che ancora sono il cavallo di battaglia della cucina campana: alla marinara, alle vongole, alle cozze, fino al corposo ragù, necessario per nobilitare i succulenti timballi di maccheroni preparati con pasta frolla e farciti da bocconcini di pollo e di carne, piselli e provola.
Sono gli anni del trionfo della lasagna, oggi difficile da trovare nei menù dei ristoranti e che si può gustare solo nelle famiglie, che ne hanno conservato il culto in particolari ricorrenze.
Questo è il passato, ma oggi se dovessimo indicare ad un forestiero quali piatti assaggiare, per rendersi conto di una fama che poggia su solide basi, cosa consiglieremo? Non certo la minestra maritata, ipercolesterolemica e che si può oramai gustare solo in un paio di trattorie, bensì un succulento vermicello alle vongole e come secondo un’invitante frittura di triglie e calamari, accompagnata da una capricciosa frittura all’italiana, che può fungere anche un antipasto, purché non manchino zucchini, arancini, panzarotti e mozzarella in carrozza.
Una valida alternativa alla frittura di pesce, rimanendo sempre nel golfo, può essere una porzione di porpetielli affogati, il cui sughetto è in grado di rendere irresistibile un piatto di spaghetti.
Se si predilige la carne non vi è che da scegliere tra un tenero capretto al forno, un pollastrello alla cacciatora o un prode coniglio all’ischitana, accompagnato con un contorno di parmigiana di melenzane, impregnata da provola e guarnita da odorose foglioline di menta.
Per la scelta del vino l’imbarazzo è notevole, perché, sia tra i rossi corposi che tra i bianchi profumati, la lista è molto lunga: Lacrima Christi, Falerno, Solopaca, Aglianico, Taurasi, Fiano, Greco di Tufo, Asprino, Malvasia e non abbiamo citato che i più noti.
A chiusura del pasto, a parte la frutta di stagione, che permette una scelta pressoché infinita tra le numerose specialità campane, dalle mele agli agrumi, non può mancare un dolce, da centellinare con uno di quei rosoli di antica ricetta o l’immancabile tazzulella ‘e caffè (alla quale, come per la pizza ed i maccheroni dedicheremo un apposito capitolo).
Oltre agli struffoli caratteristici a Natale ed alla pastiera e il casatiello a Pasqua, le zeppole gratificano la festa di San Giuseppe, mentre cassata, babà e mille foglie trionfano per tutto l’anno. Senza dimenticare la sfogliatella; gustarne la prelibatezza a piccoli morsi, sia riccia o frolla, permette di conoscere Napoli più che compulsando tante inutili guide.
Alla fine di un così succulento pranzo necessita un liquore che faccia da digestivo, preparato con infusi di erbe, zucchero ed alcool: va bene un Nocillo, da 70 anni il cavallo di battaglia, assieme agli struffoli, delle mie immortali zie (Giuseppina, Adele ed Elena), che rispettano per la preparazione la data fatidica del 24 giugno, festa di San Giovanni, per cogliere 40 noci col mallo e metterle in compagnia di un chilo di zucchero e di un litro di spirito al buio per 40 giorni, ma dopo ve lo assicuro, resuscitano i morti.
Oppure si può scegliere un bicchierino di Strega di Benevento, un liquorino dal caratteristico color paglia, reso celebre dall’omonimo prestigioso premio letterario, ma che può sfidare l’immortalità per il suo aroma e per il suo tonificante sapore.
E non possiamo dimenticare il Limoncello della costiera sorrentina, che negli ultimi anni, grazie ad un’efficace politica di promozione, ha varcato orgoglioso con sicura baldanza i confini della Campania e domina incontrastato sulle mense non solo italiane, ma europee.
Di queste antiche ricette dobbiamo eternamente essere grati ai quegli umili frati che nell’isolamento di impenetrabili chiostri, accudivano con amore alla crescita di selezionate piante ed innocenti fiori, per poi farli macerare e distillare in una magica alchimia di pentoloni, storte ed alambicchi per prelevare dalla natura una preziosa sintesi di benefica energia.
Il progresso sfortunatamente incalza tumultuoso, facendoci dimenticare antiche ricette ed il culto delle tradizioni.
Un penoso declino della memoria, che all’ombra del Vesuvio ha arrecato meno danni che altrove.
Dai fornelli al forno al microonde, dalla cucina casalinga al fast food, questo passaggio epocale in pochi decenni ha cambiato il nostro modo di mangiare e la nostra vita.
Il cibo è lo specchio più fedele di un popolo ed è in grado di raccontare meglio di qualunque libro la sua storia, per cui il declino inesorabile della cucina tradizionale riflette la polverizzazione dei legami e delle abitudini familiari, il tramonto stesso dell’idea di famiglia, che ha sempre avuto nel sedersi a tavola tutti assieme la sua consacrazione simbolica.
Un tempo ogni nonna era un ricettario vivente, pronto a dispensare insegnamenti ed a tramandare le antiche ricette, oggi quei preziosi fogli volanti sono stati dispersi dal vento della modernizzazione con il risultato di mangiare peggio e di considerare il cucinare un’inutile perdita di tempo.
Un cospicuo patrimonio di piccoli segreti, di alchimie per iniziati, che nonne, zie, balie e cuoche tramandavano a figlie e nipoti, secondo un asse ereditario tutto al femminile, generazione dopo generazione, rischia di estinguersi in poco tempo.
Quei preziosi ricettari di fini manualità e di scrupolosa ricerca di sapori è divenuto un luogo della memoria, che rischia di andare in frantumi, assieme a tanti usi e costumi in via di estinzione.
Niente più riti gastronomici familiari e comunitari, ma nuove liturgie solitarie che vedono protagonisti singles e separati in casa, tristi frequentatori di bistrò e degustatori di orribili crudità.
Questa purtroppo è la realtà al tempo del trionfo della monoporzione.
E purtroppo si assiste a questo sfacelo del gusto ed a questo epicedio dei sapori proprio mentre la cucina mediterranea, a cui la napoletana appartiene, acquista una fama planetaria ed un giusto riconoscimento delle sue proprietà salutari, grazie alla decisione votata all’unanimità dall’Unesco di far parte del Patrimonio dell’Umanità.
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