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tav. 7 - San Giovanni Battista - Napoli museo di Capodimonte |
Il San Giovanni Battista (fig. 8 – tav. 7) viene donato nel 1972 al museo di Capodimonte dalla principessa Scanderberg e rappresenta il santo, figlio di San Zaccaria e Santa Elisabetta, con i suoi abituali attributi: la lunga croce e l’agnello.
L’opera è da collocare cronologicamente a metà strada nel cammino artistico del Fracanzano, dopo il superamento dell’iniziale fase manieristica legata allo stile del Borghese e del Santafede e l’entrata nella bottega del Ribera.
Alle spalle Cesare si lascia opere come la Sacra Famiglia della chiesa di San Gaetano a Barletta o gli affreschi del coro della Sapienza a Napoli e dedica particolare attenzione agli esiti del Ribera e del Maestro degli annunci ai pastori. I colori grumosi, spessi, di cui è fatto questo San Giovanni o la materialità del vello dell’agnolone che bruca, mostrano come il pittore ben conoscesse i quadri del suo ancora anonimo collega.
Tali accostamenti ben si esprimono nei colori spessi e grumosi e nella palpabile materialità del vello dell’agnello, mentre il fondale scuro sul quale lampeggia il panno che ricopre il santo è un chiaro richiamo alle tematiche riberiane.
L’impasto cromatico del corpo possiede una calda luminosità ed un tenero colorismo, che fa presagire l’adesione alla lezione di Van Dyck intorno al 1635.
Nel San Giovanni possiamo cogliere le tre anime di Cesare: un repertorio accademico basato su figure devozionali rese con rigore formale, un aggiornamento dello stile giovanile sulla lezione del naturalismo ed un’adesione ai dettami di piena luminosità dei seguaci vandichiani.
Proseguiamo esaminando un San Giovanni Battista (tav. 18), conservata a Prato nella collezione di Daniele Storai, il quale appartiene senza dubbio alla fase classicistica per la cromia dolce e per la definizione delicata della parte anatomica. Tali accostamenti ben si esprimono nei colori spessi e grumosi e nella palpabile materialità del vello dell’agnello, mentre il fondale scuro sul quale lampeggia il panno che ricopre il santo è un chiaro richiamo alle tematiche riberiane.
L’impasto cromatico del corpo possiede una calda luminosità ed un tenero colorismo, che fa presagire l’adesione alla lezione di Van Dyck intorno al 1635.
Il San Michele Arcangelo (fig. 9 - tav. 8), conservato nella Certosa di San Martino, è stato per un periodo attribuito ad Andrea Vaccaro, prima che Bologna lo assegnasse definitivamente a Cesare, mettendolo in correlazione con una serie di tele dell’artista fortemente influenzate dal Van Dyck, databili intorno al 1635.
Poiché l’altare su cui è attualmente collocata la tela si trovava prima degli anni Quaranta in un luogo non ben definito del presbiterio e solo in seguito venne trasferito dal Fanzago nel Coro dei Conversi, l’opera dovrebbe essere stata eseguita prima del 1631.
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tav. 8 - San Michele arcangelo che schiaccia il demonio - Napoli chiesa della Certosa di San Martino |
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tav. 11 - La Maddalena al sepolcro - Trani, Episcopio |
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tav. 12 -S. Ignazio di Antiochia e S. Bibiana - Gravina di Puglia, chiesa del Gesù |
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tav. 18 - San Giovanni Battista - Prato collezione Storai |
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tav. 19 - Maddalena in meditazione - Italia collezione privata |
L'estendersi dei contatti con gli ordini religiosi lo portò ad assumere commissioni da parte dei Gesuiti, com'è testimoniato dal San Francesco Saverio che battezza gli indigeni (tav. 2) per la chiesa napoletana del Gesù Vecchio (documentato al 1641). Il modello ebbe fortuna in ambito pugliese e gli procurò una commissione dalla famiglia Carducci Artemisio: realizzò una serie di tondi (tav. 3) di soggetto religioso che fungevano da sovrapporte all'interno del palazzo avito a Taranto, oggi fortemente alterati da impropri restauri alla fine del Settecento come sottolinea lo Speziale; si tratta di dodici dipinti ovali che rappresentano i santi a cui era devota la famiglia Carducci: Sant'Andrea, Santo Stefano, San Giovanni Battista, San Girolamo, San Pietro, San Sebastiano, San Michele Arcangelo ed altri santi non meglio identificati.
Rinviamo al capitolo sui dipinti chiesastici la trattazione del S. Andrea (fig. ) della chiesa di S. Pasquale di Taranto e del San Giovanni Battista (fig. ??) sito a Barletta nella chiesa del S. Sepolcro. La Maddalena in preghiera (fig. 2) conservata nella chiesa di San Domenico Maggiore è raffigurata “in linea con la lirica religiosa seicentesca, a metà fra oratoria sacra e poesia, accentuandone tuttavia l’aspetto devozionale. Il volto estatico e contrito, l’atteggiamento da penitente della figura, il panneggio rigonfio e impreziosito, alludono appunto a quel carattere fra il mistico e il mondano che anche la letteratura attribuisce alla Maddalena”(D’Alessandro). Un cogente paragone può essere instaurato tra la figura della Maddalena, che si distende morbidamente nello spazio esiguo della composizione e l’Immacolata(tav. 5) della chiesa dei Gerolamini, collocata dalla critica agli anni 1640 – 45, un periodo in cui Cesare, suggestionato dai modi del Lanfranco, propone le sue figure in atmosfere delicate, alla pari del Novelli, anche lui fedele alla sua formazione vandichiana, memore di reminescenze naturalistiche. La Maddalena è resa con una tavolozza in cui prevalgono il bianco, il rosso e l’oro, a richiamare esplicitamente l’armonia cromatica rubensiana. L’opera va collocata nel percorso dell’artista in un momento successivo al Cristo flagellato dei Gerolamini ed al San Michele Arcangelo della Certosa di San Martino, lavori che manifestano una spiccata predilezione per un uso della luce e del colore.
Cesare sposò una donna molto bella: Beatrice Covelli il 16 luglio 1626 a Barletta e la utilizzò più volte come modella, prendendo ispirazione dalle sue forme, ma soprattutto dal “dolce girar degli occhi”, ad imitazione della maniera del divino Guido Reni. Le protagoniste di molti suoi dipinti ricalcano costantemente lo stesso modello femminile: capelli biondi, sguardo dolcissimo rivolto verso l’alto, mani dalle dita lunghe ed affusolate, dalla S. Elena (fig. 1) della chiesa di S. Maria di Nazareth di Barletta, alla Maddalena orante (fig. 2) della chiesa di San Domenico Maggiore, dalla Maddalena al sepolcro (fig. 13 - tav. 11) della curia di Andria alla Madonna della Speranza(fig. 4) della chiesa di S. Rita alla Speranzella ed all’Immacolata (fig. 7) dei Gerolamini, senza contare le tante sante in estasi dipinte per collezionisti privati da S. Apollonia (fig. 18) a S. Eufemia (tav. 20), S. Bibiana (tav. 12) a S. Agata (tav. 26), a confermare il racconto del De Dominici di una modella preferita.
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tav- 20 - S. Eufemia - Napoli collezione privata |
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tav. 21 - Santa in estasi -Napoli, collezione privata |
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tav. 22 - S. Caterina da Siena - Napoli museo di San Martino |
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tav. 23 - S. Maria Egiziaca- Napoli, museo di San Martino |
Una Maddalena in meditazione (fig. 17 – tav. 19) presente nel 2009 sul mercato francese presso l’antiquario Turquin, utilizza la stessa modella dal profilo aquilino e dai capelli biondo dorato che fa da protagonista a tanti altri dipinti del Fracanzano. Il quadro mostra l’influenza della pittura neoveneta che dopo il 1635 irrompe sul panorama artistico napoletano, influenzando una generazione di pittori e segnando il tramonto del luminismo caravaggesco. Cesare non rifiuta le sue reminiscenze naturaliste, come dimostra il notevole inserto del teschio su cui medita la Maddalena, che fa da contrasto al tenero incarnato ed allo sguardo languido della splendida modella, che impersona anche S. Apollonia (fig. 18) in una composizione che richiama a viva voce la grazia espressiva di un Bernardo Cavallino al culmine della sua attività intorno al 1645 e S. Eufemia (fig.19 – tav. 20) nel dipinto esposto nella mostra Ritorno al Barocco, un’opera del periodo vandichiano eseguita negli stessi anni in cui realizza la S. Elena (fig. 1) conservata a Barletta e la Maddalena (fig. 2) della chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli, nella quale si possono riscontrare “suggestioni per modelli reniani nella resa espressiva e per il fare rischiarato e luminoso del Monrealese, ma anche i segni di una oramai lontana e comunque breve esperienza, condotta agli inizi degli anni Trenta, a contatto con gli ultimi naturalisti napoletani – da Falcone a Guarino – per la resa densa e corposa del camicione bianco, del corpetto celeste e dell’ampio manto arancione, che coprono sontuosamente la bellissima modella con i biondi capelli al vento”(Spinosa).
La S. Eufemia non si riconosce per i consueti attributi iconografici, quali la ruota della tortura ed il leone che le mangia la mano, ma soltanto dalla palma del martirio e dalla ferita sul collo e come ha sottolineato la Piscitello ripropone la stessa figura posta in basso nella tela, firmata e documentata al 1641, raffigurante San Francesco mentre battezza gli indigeni (tav. 2), conservata a Napoli nella chiesa del Gesù Vecchio, per cui la datazione è da porre in quegli anni, quando Fracanzano esegue anche l’Assunta ed i due santi nella chiesa della Sapienza e l’Immacolata (tav. 5) dei Girolamini.
Il confronto serrato con la S. Elena (fig. 1) conservata a Barletta costituisce un ulteriore conferma della datazione nel corso degli anni Quaranta, mentre si può ravvisare, ammirando questo notevole dipinto, una sintesi delle più significative esperienze maturate a Napoli, da Van Dyck a Vouet, rispettivamente nel pittoricismo accentuato e nella impostazione delle mani della santa.
Dopo aver prestato il volto ad una Santa in estasi (tav. 21) di collezione privata la nostra modella diviene la protagonista di uno dei capolavori di Cesare: la Carità (fig. ??), del Kunsthistoriches museum di Vienna, inviata in dono dal Fracanzano a papa Urbano VIII Barberini assieme ad una poesia scritta da un suo amico sotto lo pseudonimo di un inesistente poeta antico: Timandro di Persia.
La Maddalena (fig. 13 – tav. 11), già nella chiesa del SS. Sacramento ed oggi conservata presso l’Episcopio di Andria è ben diversa dalla consueta rappresentazione della penitente tanto cara all’iconografia del XVII secolo. Il dipinto acquista notevole qualità grazie alle forme piene ottenute da colori densi e corposi, ai quali si accostano velature di straordinaria trasparenza e saggi di abilità dell’artista nel trattare la chioma sgranando la superficie dei particolari riprodotti con minuziosa evidenza e con esplicite intenzioni di resa luministica. L’opera presenta la padronanza da parte dell’artista, di un suo linguaggio personale, di misura e controllo della capacità espressiva attraverso linee sciolte e fluide, pennellate morbide e pastose. Il dipinto è intriso di luce, sostenuto da un grande senso della forma e promana una dolcissima sensualità, raggiungendo per qualità e finezza di esecuzione uno dei vertici della sua produzione pugliese.
Nel museo di San Martino sono conservati due quadri assegnati a Cesare: una S. Caterina da Siena (tav.22), border line ed una S. Maria Egiziaca (tav. 23) di attribuzione certa. Dubbia anche l’autografia dell’Ultima comunione di S. Maria Maddalena (fig.20 ) conservata a New York nella collezione Weitzner, la cui foto abbiamo reperito nell’archivio di Federico Zeri. Come pure problematica, anche se interessante, stabilire l’esatta paternità della S. Margherita (tav. 24) di collezione Volpicella a Napoli.
Il Martirio di S. Barbara (tav. 25), conservato nel museo nazionale d’Abruzzo a L’Aquila è contraddistinto da una cromia brillante, da una notevole abilità nella conduzione degli scorci e da indiscutibile sicurezza compositiva. In particolare risalta la luce ritmicamente modulata ad evidenziare la scena, che si focalizza sulle due figure riprese a mezzo busto, entrambe collocate ai lati della tela, lasciando intravedere uno scorcio di paesaggio dai colori plumbei. Il dipinto fissa una tragedia già consumata con la santa, vissuta nel terzo secolo, che è stata appena pugnalata dal padre per essersi rifiutata di adorare gli idoli, mentre una folgore divina colpisce l’artefice di un così atroce delitto. Il modello adoperato dal pittore per definire la santa è ancora quello delle tante Immacolate realizzate a Napoli con la bionda chioma discinta che accompagna il reclinare del capo dal volto ovale e dai grandi occhi chiari, mentre le mani della fanciulla dalle dita affusolate costituiscono una sorta di firma criptata dell’autore.
Particolarmente interessante è una S. Agata (tav. 26) conservata in Calabria nella chiesa di S. Maria Maggiore a Corigliano in provincia di Cosenza, a lungo ritenuta di ignoto ed assegnata poi a Cesare dalla Bugli. L’opera, la prima rinvenuta fuori da Napoli e dalla Puglia, riprende la santa con modalità stanzionesca, con una finestra sullo sfondo che mostra un paesaggio solcato da un pendio rischiarato da bagliori abbaglianti, a dimostrazione di una predilezione mostrata in quegli anni dal Fracanzano verso soluzioni pittoriche di matrice veneta.
Una pala d’altare di grandi dimensioni, raffigurante Sant’Ignazio di Antiochia e santa Bibiana (tav. 12), già nella chiesa del Gesù a Gravina ed oggi conservata nella sala dei Paramenti della cittadina pugliese fu presentata e commentata ampiamente dalla Pasculli Ferrara alla mostra su Angelo e Francesco Solimena due culture a confronto, che si tenne tra Pagani e Nocera Inferiore nel 1990. In precedenza Lucatuorto aveva identificato i documenti riguardanti la committenza dell’opera voluta da Magnifica Balsama Ioanna Lupi, che, nel suo testamento del 10 luglio 1645, istituiva erede dei suoi beni la erigenda chiesa del Gesù, la quale venne rapidamente costruita ed inaugurata il 9 settembre 1646, con il dipinto specificamente richiesto:”un quadro di S. Bibiana e S. Ignazio martire, ma sopra detto quadro ci haverà da essere il predetto nome di Gesù”. La Pasculli Ferrara evidenzia strette analogie con la Vergine dell’Apocalisse di Barletta (databile agli anni 1633 – 1639) sia nella figura dell’imponente S. Ignazio che richiama il San Nicola per lo stesso volto estatico, colto dal basso verso l’alto con gli occhi trasognati al cielo e il fitto panneggio bianco della dalmatica, sia nei putti che reggono il monogramma di Cristo, uguali a quelli intorno alla Vergine , con gli analoghi svolazzanti panneggi. Inoltre grappoli di luce delicatissimi nel merletto ai piedi di S. Ignazio ricordano quelli della tovaglia nel Miracolo della Porziucola sempre a Barletta, mentre la santa Bibiana rimanda alla Santa Caterina d’Alessandria (tav. 27) del fratello Francesco, conservata a Roma presso la sede dell’Inps, nello scialle increspato di pieghe annodato al petto, nella foggia del calzare, nell’imponenza della figura, nel più solido pittoricismo. Tipico invece di Cesare, sigla costante che ritroviamo nei suoi quadri, è il giganteggiare delle mani in una sacra gestualità, mani intrecciate sul petto di Bibiana che indicano l’accettazione del martirio, ma le ritroviamo con lunghissime dita che premono sul petto in molti altri dipinti, dal San Giovanni Battista di Capodimonte alla S. Elena ed al San Francesco del Miracolo della Porziucola di Barletta, fino all’Immacolata della chiesa napoletana di San Ferdinando.
Noi concordiamo pienamente nell’attribuire a Cesare la paternità del dipinto, ma per completezza riportiamo il parere del De Vito, il quale ragiona diversamente: “ Il S. Ignazio e la S. Bibiana non supportano il nome di Cesare bensì quello di Francesco. Le figure dei due Santi sono monumentali è stato scritto; se però di monumentalità si vuol parlare occorre ricordare che Cesare rare volte ricorre a questo metro e comunque in maniera meno accentuata. L’espansione orizzontale del S. Ignazio è sintomatica così i suoi caratteri fisiognomici, le rughe del volto sono profonde e incise, le mani grosse con dita noccolute e nervose, i panneggi pur ampi sono raccolti in pieghe sottili, il che è solo di Francesco . Il viso della santa è rotondo come quello della S. Caterina già Sciarra, i capelli sono raccolti con un ciuffo alla Domenichino, il manto della santa Bibiana è partito a metà alla stessa maniera. I putti che reggono il logo della Compagnia di Gesù sono diversi da quelli costantemente eguali di Cesare, biondi e ricciuti. Nei colori si ritrova, nel mantello del Santo, il giallo brunito già utilizzato nella figura centrale del Tiridate e nella Dalmatica un bianco abbagliante, quello stesso che aveva colpito De Dominici nel Transito ai Pellegrini”.
Grazie a Sebastian Schutze siamo venuti a conoscenza di un particolare inedito della personalità di Cesare: la sua partecipazione all’attività culturale napoletana dell’epoca attraverso la frequentazione assidua dell’Accademia fondata dal Marino e l’amicizia con Basile. Questi dati ci permettono di collocare cronologicamente nella quinta decade un originale dipinto raffigurante una Famiglia di satiri (fig. 21), firmato e conservato in una raccolta modenese, opera di alta qualità che sembra sgorgare spontanea dalla linfa vigorosa del Ribera degli anni Quaranta.Il dipinto è stato pubblicato per primo dal De Vito e poi Spinosa lo ha commentato, sottolineando la somiglianza tra la bionda ninfa ed altre figure femminili costantemente nelle vesti di sante, ma soprattutto la presenza a Napoli negli anni Quaranta di quadri di soggetto affine realizzati dal Castiglione, dal De Lione e dal De Simone, attratti anche loro da temi dionisiaci.
Strettamente collegato alla precedente tela Due satiri ed un genio alato (fig. 22), un soggetto bizzarro dal significato oscuro, nel quale forse la fonte ispirativa è un rilievo antico “con la vecchia che, la testa cinta di tralci di vite, suona un tamburello su cui è dipinto un ritratto di bambina, mentre si volge sorridendo verso il giovane e muscoloso satiro col capo cinto di pampini, che le sta di fronte spavaldo, mentre il putto, genietto, biondo e alato, con la destra poggiata sulla schiena ricurva della rugosa e ispida megera ci guarda con un’estressione maliziosa e allusiva” (Spinosa).
Il Baccanale (tav. 27) di collezione privata è una graziosa composizione, la quale dispiega, su un delicato paesaggio dai toni alquanto chiari, posto sul margine destro, una rappresentazione dai marcati connotati erotici, avente come figure principali due Satiri nell’atto di sedurre una giovane donna distesa; a corollario troviamo alcuni leggiadri e giocosi Amorini, alcuni dei quali intenti ad asportare da un tino dei grappoli d’uva.
L’opera è rappresentativa del gusto barocco che si diffonde nella pittura napoletana tra gli anni Trenta e Quaranta del Seicento: l’atteggiarsi delle figure è alquanto teatrale, la sensualità del soggetto è acuita, oltreché dalle nudità femminili e dalla morbidezza carnosa dei putti, dalla stesura cromatica degli incarnati e dagli effetti quasi evanescenti dello sfondo, particolarmente per i brani di verzura.
Cesare Fracanzano, attivo tra le native Puglie e la capitale Napoli, denota netti richiami con le opere mature di Massimo Stanzione e con la “fase barocca” dello spagnolo Ribera; una particolare modalità, assolutamente peculiare del nostro, è la definizione dei visi femminili, dagli occhi quasi taglienti e dal profilo greco, come è riscontrabile anche nella Carità del Kunsthistoriches Museum di Vienna.
E per completare l’omaggio al dio del vino segnaliamo, prima con una foto precedente al restauro, una impressionante esercitazione su Ribera: un Bacco ebbro (fig. 23) pubblicato da Stefano Causa, il quale sottolinea sul lato sinistro gli splendidi inserti del capro e dell’asino col basto nella porzione superiore e poi con un’immagine più recente (fig. 24 – tav. 28) dopo la decurtazione di un’ampia porzione sul lato sinistro, dove si potevano scorgere un caprone ed un tino stracolmo di grappoli d’uva. Il quadro si trova oggi nelle raccolte del Prado a Madrid. La figura del Sileno giganteggia con il suo addome batraciano, straripante, che deborda senza limite, in una posa di estatico abbandono, mentre gli fanno corona due innocenti puttini ed un satiro dallo sguardo animalesco, che sembra voler far sgorgare il vino direttamente da un grappolo d’uva. La materia cromatica si espande generosamente ed il colore paonazzo del volto del Bacco, tendente al rossiccio, induce a pensare a Francesco come possibile autore, ipotesi attributiva da me accettata nella mia monografia sull’artista, mentre Spinosa propende per Nunzio Rossi e Stefano Causa, come abbiamo riferito, per Cesare.
Un capitolo sulla grafica di Cesare Fracanzano al momento non è proponibile, perché abbiamo un solo disegno(firmato e datato 1657) potenzialmente attribuibile alla sua mano e che segnaliamo in questa sede, trattandosi dell’immagine di una santa: Maria Maddalena con angeli(fig. 25), conservata a New York nella Morgan Library; sul recto del foglio vi è un Paesaggio(fig. 26), oltre di nuovo alla firma ed alla data di esecuzione.
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tav. 24 - S. Margherita - Napoli collezione Volpicella |
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tav. 25 - Martirio di S. Barbara - L'Aquila museo nazionale d'Abruzzo |
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tav. 26 - S. Agata in carcere - Corigliano (Cosenza) chiesa di S. Maria Maggiore |
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tav. 27 - Francesco Fracanzano - S. Caterina d'Alessandria - Roma Inps |