lunedì 29 dicembre 2014

Presepe contro albero di Natale



Da tempo è in atto una guerra silenziosa verso la tradizione millenaria del presepe, in nome di un multiculturalismo abietto e fuori luogo. I grandi magazzini non vendono più i caratteristici pastori, con la scusa di una richiesta diminuita e va sempre più di moda l’albero di Natale, una usanza nordica che incontra sempre più adesioni. Le due espressioni sono lo specchio di due diverse concezioni religiose: quella monoteista e quella animista. Infatti mentre il Bambinello ci ricorda il messaggio di pace e la buona novella, l’albero ci rammenta il periodo nel quale tutti noi vivevamo nelle grandi foreste.
Mettere insieme i due simboli è un modo corretto per conciliare tradizioni religiose differenti.
Nel presepe si rappresenta il momento culminante dell’amore di Giuseppe e Maria verso il loro fragile figlioletto, destinato in breve tempo a cambiare il mondo ed è triste constatare come, drogati dal consumismo, abbiamo trasformato questo magico momento in un rito di massa, con grandi mangiate e smodate libagioni, acquisti frenetici ed una idolatrica prostrazione al moloch dell’euro.
Anche il rito dell’albero, che vuole rammentarci il nostro passato nei boschi, quando le piante ci fornivano riparo dalle intemperie e grande messe di frutti deliziosi, è stato trasformato in un  feticcio luccicante colmo di doni inutili e costosi. Senza tener conto della orrida strage di piccoli abeti sacrificati al dio Natale, una gigantesca legnificina che ci fa pensare ad Erode ed alla sua sete di sangue e di morte.
Approfittiamo di questi giorni in cui studio e lavoro presentano una pausa per riunire le famiglie, sempre più spesso separate ed a santificare la festa aiutando il prossimo ed innanzitutto cercando di comprendere le ragioni degli altri. 
Il presepe diverrà in tal modo il simbolo dell’amore familiare e della concordia sociale e, nell’armonica disposizione dei pastori, lo struggente ricordo di un mondo felice perduto da riconquistare.

Trotula la prima ginecologa

di Marina della Ragione

Trotula


Dorotea Memoli Apicella  nel suo romanzo biografico "Io, Trotula" ricostruisce la figura della celebre medichessa celebrata in tutta l'Europa medioevale per i suoi rimedi ai mali del corpo e dell'anima.
Il sud e la Campania, a fronte di un triste presente, hanno avuto un glorioso passato e non solo Napoli è stata per secoli capitale indiscussa del commercio e delle arti, ma anche Salerno, nell’XI secolo, è stata uno dei centri culturali più importanti del Mediterraneo, dove convergevano i più dotti esponenti del sapere greco, arabo ed ebreo. Tutti conoscono, almeno di nome, la celebre Scuola medica salernitana, la quale si fece promotrice della traduzione in latino dall’arabo di antichi testi, rendendoli così accessibili al mondo occidentale. Era una grande istituzione laica nella quale potevano insegnare docenti di ogni Paese, senza alcuna discriminazione ed anche le donne ne potevano far parte, sia come allieve che come insegnanti. Pochi nomi sono giunti fino a noi di queste laboriose mulieres salernitane e fra queste spicca la figura di Trota De Ruggero, nata intorno al 1050, sposa e madre di medici, con i quali collaborò alla stesura di uno dei più famosi manuali di medicina dell’epoca: il Practica brevis. Ma il suo interesse principale era costituito dalle donne, con una particolare attenzione alla gravidanza ed al parto. Il controllo del parto in particolare nei secoli è stato appannaggio ora dell’ uomo ora della donna. Non dimentichiamo la figura chiave della levatrice, che è stata, fino a pochi anni orsono, l’esclusivo punto di riferimento delle donne, non solo in campagna, ma anche in città e ad essa ricorreva in egual misura l’operaia e l’avvocatessa. Trota De Ruggero studiò con passione problematiche complesse, che ancora attendono una soluzione definitiva, dalle cause dell’infertilità ai metodi per ridurre i dolori del parto e le gravidanze indesiderate e registrò le sue affascinanti teorie in un libro prezioso: il De passionibus mulierum curandorum, un testo del quale, possiamo scommetterci, nessun ginecologo ha mai sentito parlare. 

Marina della Ragione



martedì 23 dicembre 2014

La Madonna Nera li protegge


Articolo pubblicato sulla rivista "Misteri d'Italia" mese dicembre 2014 

Il 2 febbraio di ogni anno, schiere di “femminielli” salgono al Santuario di Montevergine,in provincia di Avellino, per la festa della Candelora , ricordando rituali antichidedicati alla dea Cibele

la Madonna di Montevergine



Manco dal Santuario di Montevergine dal 1994 e non ho potuto ammirare il capolavoro di Montano d’Arezzo restituito allo splendore dei suoi colori originari.
Mi recai dopo aver trascorso alcuni giorni in terapia intensiva nella limitrofa clinica Malzoni, in una sorta se non di ringraziamento, di pellegrinaggio spirituale. Rimasi colpito che la quasi totalità dei monaci erano di pelle nera e mi chiesi: “Quando un Papa africano?”.
Tra le storie millenarie d'Italia, non va dimenticata quella dell'Abbazia di Montevergine: consacrata nel 1126, era stata individuata qualche anno prima da san Guglielmo da Vercelli al culmine di un luogo solitario, fatto per mistici di ferro: la cima del Monte Partenio, nel cuore dell' Irpinia, che domina Avellino e le sue valli da una delle più belle vette d'Italia.
La Madonna in Maestà con il Bambino Gesù” di Montano d'Arezzo – documentata sin dal 1310 – simbolo per secoli di una devozione tutt'ora ininterrotta, è stata restaurata. Dopo mezzo secolo in cui, posta a venti
metri d'altezza nella nuova chiesa novecentesca dell'Abbazia - non certo un capolavoro dell'architettura del Novecento - la grande tavola di Montano (quattro metri e sessanta centimetri per due e trentadue!) tornerà nella Cappella Imperiale della magnifica Chiesa antica dell'Abbazia.
Come a volte accade, se la devozione per la “Maestà” di Montano d'Arezzo non ha conosciuto pause, è la percezione del suo significato nella storia dell'arte d'Italia ancor oggi a latitare.
Ma chi era Montano d' Arezzo? Formatosi nel cantiere della Basilica superiore di Assisi intorno 1280, Montano dialoga con il Cimabue della Crocifissione nel transetto e con lo stesso Giotto ed è da quest'ultimo e dal romano Pietro Cavallini che egli matura i fondamenti del suo stile.
Giunto a Napoli alla fine del Duecento, Montano sarà trai principali artisti della Corte di Carlo II d'Angiò, lavorando al Duomo e a San Lorenzo Maggiore. A Montevergine andrà per conto di Filippo d'Angiò, Principe di Taranto, che ricompenserà l'artista donandogli dei terreni.
Da vicino la “Maestà” di Montano emana un impatto straordinario. Riportarla nella sua sede originaria, a pochi metri dagli occhi dei visitatori, è un atto storicamente dovuto, che li Protegge ripristina un rapporto corretto tra l'opera e il suo pubblico e ne ripropone appieno il significato, nel senso più alto del termine.
All’opera, tanto venerata dai fedeli, non viene riconosciuta l’importanza che merita nella storia dell’arte.

Giuseppe Bonito: il femmminiello

i femminielli della zeza di Avellino
Il pellegrinaggio dei femminielli.  Il 2 febbraio di ogni anno, schiere di femminielli salgono al Santuario per la festa della Candelora sulle orme della dea Cibele. I precedenti storici sono costituiti dai Galli, gli eunuchi sacri adepti della dea Syria.
Essi vestivano abiti femminili per non turbare le donne e la sede del culto era Hierapolis (Alepppo). Il loro patrono è San Sebastiano martir del III secolo divenuto un’icon gay da quando d’Annunzio nel suo Martyre de Saint Sebastien lo trasforma nel favorito dell’Imperatore. Il popolo gay incontra da sempre la sua Signora, la Mamma Schiavona "che tutto concede e tutto perdona".
L'intera costellazione raccolta sotto la sigla LGBT {Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) diventa di fatto la nuova protagonista di un antichissimo pellegrinaggio in onore della Vergine. Secondo la leggenda fu proprio lei, nel 1256, a salvare due giovani omosessuali che, in seguito allo scandalo provocato dalla loro relazione, erano stati legati a un albero e abbandonati a morire di stenti sulla montagna. Il miracolo fu visto come un segno di tolleranza soprannaturale e da allora i femminielli divennero devotissimi della Madonna di Montevergine.
Ma in realtà, questa balza vertiginosa, sospesa tra nidi d'aquile e tane di lupi, è da sempre meta prediletta di una umanità en travesti. Infatti, molti secoli prima di Cristo a salire quassù erano i Coribanti, i preti eunuchi di Cibele,  la grande madre nera, simbolo femminile della natura.
Il suo tempio sorgeva proprio dove adesso c'è il santuario mariano. I sacerdoti si eviravano ritualmente per offrire il loro sesso in dono alla dea e rinascere con una nuova identità. Si vestivano da donne con sete gialle, arancione, rosa colori sgargianti. Si truccavano pesantemente gli occhi e attraversavano in gruppo le città suscitando un misto di curiosità morbosa e di scandalo, anche per il loro erotismo esibito e la sfrontatezza delle loro provocazioni sessuali. Insomma queste processioni orgiastiche a base di canti, balli e suoni di tamburo erano in qualche modo i Gay Pride dell'antichità.
E proprio come allora, anche ora l'esagerazione è di rito. Travestimenti, canzoni, suoni, crepitio di nacchere e battito di tammorre  accompagnano l'ingresso in chiesa.
Poi il silenzio cala improvviso e si leva alta un'invocazione salmodiante, tra la litania del muezin e il grido dei venditori, che chiama a raccolta le figlie della Mamma schiavona,  facendo risuonare nel presente un'eco mediterranea lontana. A intonarl è il noto artista folk Marcello Colasurdo, ex operaio dell'Alenia di Pomigliano d'Arco, a lungo frontman del Gruppo musicale E' Zezi  cantore ufficiale della galassia LGBT. "Non c'è uomo che non sia femmina e non c'è femmina che non sia uomo", ripete come un mantra.
Mentre all'esterno il rito lascia affiorare tutto il suo fondo pagano e le figure sensuali della tammurriata ricordano in maniera impressionante le danze degli affreschi pompeiani. Veli volteggianti, fianchi roteanti, gesti ammiccanti. Pier Paolo Pasolini, stregato dal fascino arcaico di queste nenie rituali, nel 1960 volle registrarle personalmente dalla viva voce delle devote per usarle come colonna sonora del suo Decameron. E ancor prima, Zavattini e De Sica parteciparono al pellegrinaggio dei femminielli quando erano in cerca di ispirazioni per L'oro di Napoli. Il carattere pagano del culto ha spess provocato scontri con l'autorità ecclesiastica. In due occasioni, nel 2002 e nel 2010, l'abate del santuario ha scacciato i gay dalla chiesa scagliando su di loro un vero e proprio anatema. Che, ha suscitato lo sdegno del mondo progressista e non solo. Ma i coribanti di oggi non si lasciano intimidire da diktat così poco evangelici. Loro vogliono bene alla Madonna e la Madonna vuoi bene a loro, il resto non conta. E si mostrano ogni anno più determinati nel trasformare il pellegrinaggio in occasione politica, in piattaforma democratica di lotta contro l'omofobia che ancora affligge il nostro paese. Tra i più agguerriti Porpora Marcasciano (presidente del MIT - movimento identità trasgender - di Bologna), e Vladimir Luxuria. Che ogni anno sale a Montevergine per onorare la Madonna nera. Perché, tiene a dire, "da secoli le persone diverse si sono riconosciute in questa Madonna diversa. Una madre che guarda solo nel nostro cuore e non si interessa all'involucro che lo contiene". Così la rivendicazione dei nuovi diritti fa suo un simbolo ancestrale. Avvicinando i due lembi estremi della storia. Un passato millenario e un futuro necessario. E al di là di tutti i distinguo politically correct e delle nuove sigle identitarie, quel giorno si diventa tutti femminielli. Anime femmine in corpi mutanti. Diversamente uguali nel nome della Madre. 
Il femminiello dal popolino è volgarmente chiamato “ricchione” dal popolino, che ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all'inizio del Cinquecento, nel dialetto di Napoli, la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno distintivo.
Naturalmente personaggi dal sesso mascherato erano già presenti presso  di noi da migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le dovute trasformazioni.
Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche pratiche appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se difficilmente visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima riservatezza, è costituito dalla cosiddetta “Figliata d''e femminielli”. Essa non è altro che un rituale derivante dall'antico rito della fecondità, praticato per secoli nella nostra città. La figliata si svolge segretamente alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata descritta accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro La pelle e dalla regista Cavani nell'omonimo film.
Questa originale iniziazione ad una femminilità particolare prevedeva un utilizzo di segrete conoscenze alchemiche, oggi perdute ed avveniva durante periodici festeggiamenti per l'avvenuta nascita del "maschiofemmina", dagli iniziati chiamata Rebis, res + bis, cosa doppia. Il rituale, descritto nella Napoli esoterica di Buonoconto, richiedeva la presenza di un ermafrodito, l'unica creatura che contenesse i due elementi in cui è suddivisa tutta la natura. I Greci ritenevano divino l'ermafrodito, perché figlio della bellezza (Afrodite) e della forza (Ermes). Naturalmente nel tempo la purezza ideale dell'ermafrodito alchemico s è in parte smarrita, sostituita dalla più materiale ambiguità del femminiello, ma l'antica memoria del rito non è andata del tutto smarrita  conserva immutata ancora oggi la forte carica simbolica, che suggestiona a tal punto alcuni soggetti, da fargli provare le stesse emozioni ed i lancinanti dolori del parto.
Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio ed il momento del parto.
Alcuni soggetti si immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con un'evidenza sconcertante, dall'accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. Durante le doglie le parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie mortuarie, caratterizzato da una lamentazione ritmica, scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro. Nell'acme della figliata, il femminiello simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a forma di fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata) accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita nella loro ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e babà. 

ragazzo travestito

il rito della figliata

A questi riti antichi e dimenticati si ricollega la credenza che il femminiello porti fortuna, sia portatore di una carica di magico, stando al limite del diverso, in condizione simbolica di ermafroditismo. Questo è il motivo per cui egli è delegato a distribuire parte della sua fortuna agli altri nelle riffe, dove si mettono in palio dei regali in natura, legati all'estrazione dei numeri del lotto. In genere di lunedì, giorno dedicato tradizionalmente al culto dei morti, avvengono, in vari punti della città, queste originali tombolate, accompagnate ad ogni numero estratto dalla spiegazione dei significati reconditi espressi nella "Smorfia". La più famosa estrazione avviene ancora oggi periodicamente nella chiesa di Santa Maria alla Sanità, conosciuta dal popolino come Monacone, all'uscita delle sottostanti catacombe di San Gaudioso. Il rituale è stato magistralmente descritto da Roberto De Simone nella Gatta cenerentola. In passato, come apprendiamo dalla Storia della prostituzione del Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare, come l'Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di Sant'Antonio Abbate.
Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine,in un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il meretricio.
Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte.
Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri.
Nell'ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri.
A questa strada malfamata dedicò un intero capitolo Abele De Blasio, medico e scrittore, autore di un ancora letto e consultato Nel paese della camorra. Un'attenzione resa obbligatoria nel discettare di onorata società perché, già dal Settecento, tutto il quartiere era caduto sotto il controllo della malavita organizzata.
Sotto la dominazione spagnola, impregnata di un cattolicesimo rigoroso e perbenista, gli omosessuali erano ghettizzati e tenuti sotto stretta osservazione. Non sappiamo quanti fossero, ma sappiamo che, se colti in flagranza, venivano puniti.
Il 17 febbraio 1504 Ferdinando III, detto il cattolico, promulgò una legge che prevedeva pene severe non solo per gli omosessuali, ma anche per chiunque si fosse abbandonato ad atti di sodomia. Ad aumentare la severità delle sanzioni ci pensò poi Filippo II, il quale, il 28 luglio 1571, fece approvare una legge, che puniva addirittura i baroni, se gli stessi, nell'amministrare giustizia nei loro possedimenti, si fossero dimostrati indulgenti verso i cultori della via aborale.
Soltanto nell'Ottocento, dopo l'Unità, il clima divenne più liberale e Napoli da capitale di un regno divenne, per anni, capitale dell'omosessualità europea, con una prostituzione maschile in grado di soddisfare i desideri inconfessabili di ricchi viaggiatori stranieri provenienti dai quattro angoli del globo, alcuni dei quali celebri artisti e letterati.

Una truffa ai detenuti


                                     

Dedico questo breve contributo ai miei compagni di sventura rimasti nei gironi dell’inferno di Poggioreale, i più interessati a quanto esporremo perché costretti a vivere in gabbie disumane.
La cella è di 12- 13 metri quadrati, oltre ad un vano cucina di un metro ed un cesso (non lo si può chiamare altrimenti) con una parvenza di doccia, che due volte alla settimana, per pochi minuti, vomita un liquido caldo dal colore sospetto e dall’odore indefinibile. Per lavarsi ogni giorno si usa una brocca con la quale ci si getta addosso un po’ di acqua prelevata dal lavandino allagando tutto il vano, che andrà poi svuotato a colpi di ramazza, facendo convergere la pozzanghera verso un fetido buco tenuto a bada da un peso per evitare visite imbarazzanti: scarafaggi nel migliore dei casi, qualche volta, anche se non ho avuto l’emozione dell’incontro ravvicinato, luridi topi di fogna.
Vi è molto sconforto nelle carceri, non solo per le condizioni di vita disumane,  e per l’impossibilità di rieducarsi e prepararsi al reinserimento nella società, ma soprattutto perché a danno dei detenuti, nel silenzio assordante dei mass media, si sta compiendo l’ennesima truffa.
La Corte di Strasburgo minacciava gravi sanzioni pecuniarie verso l’Italia, se non avesse reso i penitenziari più vivibili, per cui in tutta fretta è stato approvato un decreto legge, che prevede un abbuono di 1 giorno per ogni 10 trascorsi in celle sovraffollate o un risarcimento di 8 euro al giorno per chi ha già scontato la pena.
Ma la normativa è stata resa inoperante per l’interpretazione data alla stessa dalla magistratura di sorveglianza, che sta dichiarando inammissibili la quasi totalità dei ricorsi con le più svariate motivazioni, costringendo a defatiganti ricorsi in Cassazione.
Da qui l'unica possibilità il risarcimento monetario, che lascia il tempo che trova, perché non ci sono civilisti che per  una istanza per ottenere qualche paio di migliaia di euro in media, non si facciano dare almeno 1000 di onorario e bisogna anche considerare che si può nominare un civilista dal carcere soltanto se si è in pendenza di un giudizio civile e non per istaurarne uno ex novo.
La Corte di Strasburgo nel frattempo certa che “giustizia è stata fatta” ha bocciato le migliaia di istanze presentate in questi anni a partire dalla sentenza Torreggiani del gennaio 2013, in cui era stata condannata l’Italia ad un risarcimento cospicuo per aver tenuto alcuni detenuti(situazione normale) in celle dove disponevano di tre mq a testa(tenendo conto che in Europa negli allevamenti ad un maiale ne sono obbligatoriamente concessi 10).  
É veramente convinto lo Stato che far scontare ai detenuti la pena in modo disumano dentro carceri sovraffollate, senza alcuna attività, imbottiti di psicofarmaci, incattiviti ed esasperati, renda la società più sicura? Le carceri così come sono, sono inutili e dannose per i detenuti, per le loro famiglie, e per la società; invece di recuperare escludono ed emarginano, e rischiano di far uscire le persone peggiori di come sono entrate.
I penitenziari si rendono vivibili garantendo ai detenuti quanto previsto dalla legge: semi libertà a metà pena, affidamento in prova quando mancano 4 anni dal fine pena, gli ultimi 18 mesi di reclusione ai domiciliari; provvedimenti che gradualmente svuoterebbero i penitenziari, tenendo conto che oltre 20.000 detenuti potrebbero beneficiarne, portando il numero dei reclusi in linea con quanto perentoriamente richiestoci dall’Europa
Un discorso a parte meritano i numerosi tossicodipendenti, che dovrebbero essere, prima che puniti, curati in apposite strutture.
Potrei dilungarmi ricordando l’epidemia di suicidi, che andrebbe contrastata con un’inesistente assistenza psicologica, ma vorrei trattare dei non meno importanti mali dell’anima: la solitudine, la malinconia, la sofferenza, la nostalgia. Conosco un rimedio infallibile per combatterli: rimanere in contatto costante con i propri familiari, anche solo per telefono.  In tutta Europa i detenuti (a loro spese) sono liberi di fare quante telefonate desiderano. 
Perché dobbiamo essere costantemente il fanalino di coda della civiltà?
Per convincere l’opinione pubblica che indulto ed amnistia sono ineludibili (parole del Presidente della Repubblica) basterebbe che si montasse nelle piazze principali del nostro paese un cubo avente il volume di una cella, nella quale secondo le normative della U.E non potrebbero vivere 4 maiali e viceversa vivono, nei gironi infernali di Poggioreale e dell’Ucciardone, 16 esseri umani 23 ore su 24 ed invitare altrettanti cittadini ad entrarvi ed a rimanerci non 1 anno, non 10 anni, non fine pena mai, ma soltanto un’ora. Ne uscirebbero inorriditi e si affretterebbero a comunicare ad amici e conoscenti l’intollerabile situazione carceraria.

sabato 20 dicembre 2014

Video della presentazione di "Quei napoletani da ricordare"



Il 14 dicembre presso il teatro dell’Istituto  Denza a Posillipo si è tenuta la presentazione del I e II tomo di "Quei napoletani da ricordare" di Achille della Ragione



L’ultima fatica letteraria di Achille della Ragione è “Napoletani da ricordare”, 4 tomi che descriveranno vita ed opere di 300 personaggi napoletani illustri in vari campi, dallo sport all’arte, dalla politica alla cultura, dal cinema al teatro.
Il I e II tomo volume, attualmente in edicola, sono stati presentati il 14 dicembre presso il teatro dell’Istituto  Denza a Posillipo, alla presenza di numerosi personaggi di cui si parla nei libri, della stampa e di alcune emittenti private.
L’opera va di pari passo con l’uscita dei volumi  ”Napoletanità: arte, miti e riti a Napoli” (ed Clean), consultabili sul sito dell’ autore www.achilledellaragione.it  ed alla fine costituirà un elegante cofanetto per un totale di circa 2000 pagine, una vera e propria Bibbia, alla quale potranno attingere in egual misura studiosi ed appassionati.
La vera chicca è la copertina del I tomo, che ci mostra Sophia Loren in una inedita foto giovanile “poppe al vento”. Gran parte dei personaggi descritti sono stati conosciuti personalmente dall’autore, che ci racconta episodi sconosciuti, a volte divertenti, sempre estremamente interessanti, come nel caso del presidente Napolitano, di Francesco Rosi, Roberto Saviano, Luciano De Crescenzo, Maurizio Valenzi, Antonio Ghirelli, Raffaello Causa, Mirella Barracco, Gerardo Marotta, Max Rosolino, Umberto Scapagnini e tanti altri.


giovedì 18 dicembre 2014

Due pale d’altare di Paolo De Matteis ad Ischia

Poco note anche alla critica più avvertita nell’isola di Ischia sono conservate due pale d’altare, firmate e datate, che arricchiscono il catalogo di Paolo de Matteis.
La prima si trova nella chiesa dello Spirito Santo nel comune di Ischia Porto sull'altare del transetto sinistro, dove fa bella mostra una Madonna delle Grazie con le anime purganti (fig. 1), firmata e datata 1710.
La Vergine, seduta in alto tra le nubi col Bambino, fa grondare dal seno copiose gocce di latte ad un gruppo di anime purganti, che, caldamente, la implorano. La tela è impregnata di grazia raffinata e di misurata eleganza compositiva, attraverso l'uso di stesure cromatiche dalle tonalità preziosamente rischiarate, che precorre il gusto rocaille.
Non si può evidentemente rintracciare in questo dipinto il De Matteis brillante affreschista o il disincantato ed ironico pittore di scene di soggetto profano, mitologico o letterario, mentre si può apprezzare la serietà con cui affronta il tema sacro.
Il dipinto ischitano, che ripropone la tradizionale iconografia della Madonna delle Grazie, “si rivela composizione equilibrata sia nel registro superiore in cui la Madonna, seduta sulle nubi, rivolge uno sguardo materno alle anime purganti, sia nell’inferiore dove osserviamo figure non certo drammaticamente scomposte o testualmente agitate o dai lineamenti alterati, bensì anime fiduciose, in attesa della grazia auspicata, che non tarderà ad arrivare. Il pittore seppe realizzare dunque una perfetta sintesi di colore, disegno, contenuto e forma, in ossequio a quella vena di ritrovato classicismo che andava a bilanciare le più moderne conquiste del suo stile in direzione decisamente rocaille”  (Rolando Persico).
Il primo ad accennare al dipinto fu il Borrelli nel 1968, che ne sottolineò ”i colori trascoloranti senza il minimo accenno di ombre”, prima della esaustiva descrizione della Persico Rolandi ed al sottoscritto, che ne ha parlato nel suo libro Ischia sacra guida alle chiese(consultabile in rete)
La seconda opera è conservata nella Congrega dell’Immacolata Concezione a Serrara Fontana, si tratta di una tela molto interessante collocata sulla parete di fondo del presbiterio: una Immacolata, firmata e datata 1713, da Paolo De Matteis.
La Vergine è in piedi orante sulle nubi, mentre gli angioletti le offrono rose e gigli. Il quadro, come è stato sottolineato dalla Rolando Persico, è immerso in una atmosfera di caldo accademismo, privo di reale ispirazione, senza partecipazione e coinvolgimento emotivo.
Nello stesso anno di esecuzione il De Matteis realizzò, per la chiesa di Santa Brigida a Napoli, una tela di identico soggetto.
Il quadro è interamente autografo, senza intervento della bottega, come prospettato da qualche studioso, ed il tocco del maestro lo si avverte nei violenti colpi di luce, che creano una sorta di atmosfera argentea ed irreale intorno al capo della Vergine.
Un'opera di prestigio ad ulteriore conferma della solidità delle committenze isolane, ma soprattutto della considerazione che il De Matteis fosse uno degli artisti più quotati dei suoi tempi.


fig. 1 - Madonna delle Grazie con le anime purganti - 275 - 240 - firmato e datato 1710 - Ischia , chiesa dello Spirito Santo

fig. 2 - Immacolata Concezione - 202 - 155 - Serrara Fontana, Congrega dell'Immacolata Concezione

martedì 16 dicembre 2014

Un ruggito che grida vendetta



L’altro giorno dopo mezzo secolo mi sono recato a visitare lo zoo di Napoli ed ho provato in egual misura rabbia, sdegno e tristezza nel vedere il degrado dei viali, invasi da erbacce e rami caduti, ma soprattutto lo stato delle gabbie in cui sono tenuti imprigionati gli animali, spazi angusti, in stridente contrasto con le normative comunitarie che assegnano, con minaccia di gravi sanzioni, 10 mq ad un maiale da allevamento, mentre una tigre è costretta in uno spazio inferiore. Da bambino rimasi colpito da quello splendido felino che percorreva senza sosta i pochi metri a disposizione fino alla follia. Il suo discendente oggi vi ha rinunciato e staziona apparentemente privo di vita in un angolo, indifferente ad ogni stimolo.    
Identico discorso per tutti gli altri animali, che soffrono l’innaturale stato di reclusione e non hanno nulla da insegnare ai visitatori, se non l’arroganza degli esseri umani, che li privano della libertà.  
Ho pensato alle orche, abituate nell’oceano a percorrere nell’oceano 150 chilometri al giorno, costrette a vivere in una vasca e ricordandomi dei detenuti, stipati come bestie con a disposizione pochi mq, non sono riuscito a trattenere le lacrime.


sabato 6 dicembre 2014

Presentazione del I e II tomo di Quei napoletani da ricordare di Achille della Ragione



Il 14 dicembre dalle 9,30 alle 12,30 presso il teatro dell’Istituto  Denza a Posillipo


L’ultima fatica letteraria di Achille della Ragione è “Napoletani da ricordare”, 4 tomi che descriveranno vita ed opere di 300 personaggi napoletani illustri in vari campi, dallo sport all’arte, dalla politica alla cultura, dal cinema al teatro.
Il I e II tomo volume, attualmente in edicola, saranno oggetto della presentazione che si svolgerà Il 14 dicembre dalle 9,30 alle 12,30 presso il teatro dell’Istituto  Denza a Posillipo, alla presenza di numerosi personaggi di cui si parla nei libri, della stampa e di alcune emittenti private. L’opera va di pari passo con l’uscita dei volumi  ”Napoletanità: arte, miti e riti a Napoli” (ed Clean), consultabili sul sito dell’ autore www.achilledellaragione.it  ed alla fine costituirà un elegante cofanetto per un totale di circa 2000 pagine, una vera e propria Bibbia, alla quale potranno attingere in egual misura studiosi ed appassionati.
La vera chicca è la copertina del I tomo, che ci mostra Sophia Loren in una inedita foto giovanile “poppe al vento”. Gran parte dei personaggi descritti sono stati conosciuti personalmente dall’autore, che ci racconta episodi sconosciuti, a volte divertenti, sempre estremamente interessanti, come nel caso del presidente Napolitano, di Francesco Rosi, Roberto Saviano, Luciano De Crescenzo, Maurizio Valenzi, Antonio Ghirelli, Raffaello Causa, Mirella Barracco, Gerardo Marotta, Max Rosolino, Umberto Scapagnini e tanti altri.

Trascriviamo infine la breve prefazione del I tomo:
«Ho cominciato a scrivere questo libro nel lontano 1994, pubblicando una decina di biografie sulla gloriosa rivista “Scena Illustrata”. Decisi di trattare di personaggi ancora viventi, il trascorrere del tempo ha fatto passare più di uno a miglior vita, per cui decisi di non rispettare più questa distinzione, di conseguenza in piacevole compagnia vi saranno morti e vivi, particolare trascurabile, perché tutti vivono nella memoria imperitura dei napoletani per le loro imprese.
Naturalmente non troverete giganti del calibro di Lauro, Totò o Eduardo, ai quali ho dedicato o conto di dedicare specifiche monografie. Non mi resta che augurarvi buona lettura!»


E del II tomo:
«A differenza del I tomo che ha richiesto una lunga gestazione, iniziata nel 1994 con la pubblicazione delle prime biografie su alcune riviste letterarie per concludersi venti anni dopo tra le tristi mura di Rebibbia, il II è stato realizzato in pochi mesi, sulla base di ricordi e grazie al materiale fornitomi da vari amici, tra i quali ringrazio: Dante Caporali, Ciro Piscopo, Maddalena Pucino, Savino De Rosa e Lorenzo Mazza.
Come per i precedenti 50 personaggi, con molti di loro ho avuto uno o più incontri o una frequentazione, dall’amicizia alla conoscenza.
Ho cercato di riservare una quota rosa, ma vi è una prevalenza di figure maschili.
Non è mia la colpa: amo le donne, ma poche, salvo in campo artistico, sono assurte, almeno a Napoli, a ruoli di prestigio.
Non mi resta che augurarvi buona lettura!»





lunedì 1 dicembre 2014

Maurizio Valenzi, sindaco rosso ed eccellentissimo pittore

01 Maurizio Valenzi

02 Autoritratto

Artista centenario dal pennello smagliante


Maurizio Valenzi (01 - 02) è noto per la sua attività politica, culminata con la carica di sindaco di Napoli, che ha ricoperto dal 1975 al 1983, ma nello stesso tempo è stato un pittore attento alla realtà, ancora poco noto, ma meritevole di essere conosciuto ed apprezzato da un pubblico più vasto  e quale occasione migliore per parlare della sua produzione la concomitanza dell’annuncio del ministero dei Beni  e delle attività culturali e del turismo, il quale ha decretato che la collezione Valenzi, di proprietà della famiglia e della Fondazione,  riveste un eccezionale interesse artistico e va posta sotto tutela.
La collezione in questione non comprende unicamente ritratti, acquerelli, dipinti e disegni del Valenzi , ma anche opere di altri artisti, sia napoletani che tunisini, tra i quali nomi noti, come Carlo Levi e Renato Guttuso, oppure Emilio Notte(03), autore di una Natura morta con limoni, eseguita per suggellare una fraterna amicizia.
Molte opere sono del tutto inedite, mentre altre sono comparse negli anni in alcuni cataloghi in occasione di mostre, divenuti vere e proprie rarità bibliografiche. 
Tra questi spiccano le serie dedicate alla rivoluzione francese del 1789 ed a quella partenopea del 1799, oltre ad una decina di ritratti di noti personaggi della vita politica e culturale della città, come Mario Palermo (04), celebre avvocato, Luigi Cosenza (05), illustre architetto o Paolo Ricci (06), intellettuale animatore di un cenacolo letterario, senza dimenticare l’immortale Eduardo De Filippo(07), per il quale, dopo una decennale amicizia, eseguì i disegni per le vetrate di alcuni interni della sua commedia Uomo e galantuomo, messa in scena da Ugo Gregoretti poco dopo la scomparsa del drammaturgo.
Molti sono anche i disegni e gli schizzi, come la Ragazza(08), caratterizzata da segno deciso e colori solari per tratteggiare la figura di una giovane donna, oppure il Venditore di angurie (09), un dipinto su mattonella od anche un disegno su carta (010), per immortalare Litza, amata compagna di vita, che non si stancherà mai di ritrarre( 011 – 012), al pari della figlia Lucia (013) e del primogenito Marco (014), temibile giocatore di scacchi, col quale ho trascorso e trascorro tanti pomeriggi di aspri combattimenti sulle 64 caselle.
Un quadro patognomonico degli anni trascorsi a Tunisi e del suo impegno, prima che politico, civile, è senza dubbio Ergastolani a Lambaze (015), mentre l’ammirazione verso alcuni indiscussi maestri della pittura è ben espresso nei due omaggi a Garcia Lorca ed a Picasso(016 – 017).
Nell’ambito della sua vasta produzione vanno ricordati altri dipinti dedicati a Napoli: Incubo napoletano (018), il Corpo di Napoli (019) e Regata nel golfo (020).
Per il momento ci fermiamo qui, con l’auspicio che quanto prima la città dedichi alla collezione Valenzi uno spazio adeguato, così che possa essere ammirata da un pubblico più vasto di quello delle occasionali mostre sul pittore, che ricordiamo per inciso ha lavorato e prodotto ben oltre i limiti temporali di alcuni grandi artisti del passato, come Michelangelo, Solimena e Picasso, attivi fino a 90 anni, una bazzecola rispetto a Valenzi, che ha raggiunto i 100.
Per conoscere ora il personaggio prendiamo in prestito ciò che abbiamo scritto su di lui nel nostro libro (consultabile in rete) Quei napoletani da ricordare, nel capitolo “Il primo ed ultimo sindaco rosso della città” 
Sembra ieri, invece sono passati oltre 40 anni da quando a Palazzo San Giacomo si insediò il primo sindaco comunista, destinato a regnare più tempo del mitico Achille Lauro.
Egli voleva governare per il popolo e con il popolo ed inaugurò un nuovo modo di fare politica in mezzo alla gente, che voleva partecipare, discutere, decidere.
E quanto abbia inciso il suo operato sulla storia recente della città è ben compendiato dalle parole del Presidente Napolitano, suo vecchio e fraterno amico, in occasione del suo funerale nel giugno del 2009 davanti ad una folla di migliaia di persone: “Questa partecipazione corale, la città senza distinzione di parte, le Istituzioni, la società civile, ci dicono semplicemente che Maurizio Valenzi è stato una grande persona”.
Egli nacque a Tunisi nel 1909 da una famiglia ebrea di origine livornese e si dedicò sin da giovanissimo alla pittura, aprendo nel 1930 uno studio a Roma. E la pittura assieme alla politica saranno i suoi grandi amori, naturalmente oltre a quello per la moglie Litza Cittanova, sposata nel 1939, vissuta anche lei fino a 100 anni e dalla quale ebbe due figli: Lucia e Marco.
A metà degli anni ’30 aderì al partito comunista tunisino ed iniziò la sua militanza partigiana, oltre a collaborare al settimanale “L’Italiano”, a Tunisi e poi a Parigi alla “Voce degli Italiani”. Fatto prigioniero, venne liberato dagli alleati.
Egli, come ricorda Ghirelli: “Fu un artista ed un militante, la cui esistenza fu proiettata in una dimensione internazionale tra Livorno e Tunisi, Parigi e Napoli.
Nella capitale francese incontrò Giorgio Amendola e aderì al Fronte Popolare, partecipando alla lotta clandestina contro Mussolini ed il governo collaborazionista di Vichy, e fu costretto al carcere ed alla tortura. Il PCI lo inviò a Napoli per preparare l’arrivo di Togliatti e lì rimase, intrecciando un fecondo rapporto con i principali intellettuali; gli scrittori Compagnone e Rea, l’architetto Luigi Cosenza ed il matematico Renato Caccioppoli, con i quali si batté contro la guerra in Corea, per l’interdizione della bomba atomica e per il riconoscimento della Cina Popolare.
Fu intimo amico di Eduardo De Filippo, che gli dedicò una poesia e lo coinvolse in un progetto per insegnare un mestiere ai giovani reclusi di Nisida.
La sua carriera politica, prima di divenire sindaco, fu lunga: prima consigliere provinciale, poi senatore dal ’53 al ’68, consigliere comunale dal ’75 all’83 e poi parlamentare europeo. Chiuse come sindaco in un periodo agitato per la città, segnata dal colera e dal terremoto, ma si batté sempre per riqualificare Napoli attraverso la cultura come collante sociale.
Come tanti altri personaggi famosi descritti in questo libro, anche con Valenzi ho avuto l’onore di una lunga frequentazione, grazie all’amicizia col figlio Marco, abile giocatore di scacchi e conservo gelosamente un suo libro con dedica, che ha un posto d’onore nella mia biblioteca di 15.000 volumi.
Più volte sono stato nella sua splendida casa di via Manzoni, dove si godeva uno spettacolare panorama sul golfo di Napoli, che negli ultimi anni, libero da impegni politici, favorì la sua ispirazione di artista e gli permise di sperimentare nuove tecniche.
In un momento di confidenza mi disse: “Napoli è nel mio cervello dalla mattina alla sera. Il golfo è là dietro i vetri delle mie finestre, ho visto mutare le sue luci, cambiare lentamente il panorama, ma la cosa che più mi attrae è la gioia di una regata. La mattina quando mi alzo e passo davanti alla stanza dove sono i colori e le tele mi viene una maledetta voglia di chiudermi dentro e dimenticarmi tutto il resto”. Nel suo salotto troneggia un quadro dal quale non si era mai voluto dividere a nessun prezzo, perché raffigura il figlio Marco, temibile giocatore di scacchi, intento a risolvere una posizione di gioco ostica ed intricata. Quando licenziai alle stampe la mia biografia su Lauro, mi rammentò la sua dichiarazione fatta al suo funerale:” Un personaggio che ha fatto del male, ma ha saputo dare una certa voce a una città che era nelle retrovie del panorama nazionale, e per questo seppe battersi”. Ho ipotizzato una piazza per lui, il Comandante avrebbe diritto ad un riconoscimento per la sua presenza nella storia della città (“Achille Lauro Superstar”, pagine 116, consultabile in rete).


03 Emilio Notte
04 Mario Palermo
05 Luigi Cosenza
06 Paolo Ricci
07 Eduardo saluta
08 Ragazza
09 Venditore di cocomeri
010 Litza
011 Litza
012 Litza
013 Lucia
015 Ergastolani a Lambaze
016 Omaggio a Garcia Lorca
017 Omaggio a Picasso
018 Incubo napoletano
019 Il corpo di Napoli

mercoledì 26 novembre 2014

Una monografia su Cesare Fracanzano




A ritmo incessante Achille della Ragione sforna libri sulla pittura del Seicento napoletano.
Dopo Andrea Vaccaro e Giuseppe Bonito, usciti a settembre, ora è la volta di Cesare Fracanzano, indagato in profondità, in un corposo volume corredato da oltre 150 foto, la gran parte a colori.
Numerosi sono gli inediti commentati per la prima volta, alcuni di eccellente qualità, i quali, oltre ad allargare il catalogo dell’artista, pongono Cesare almeno sullo stesso livello del fratello Francesco, fino ad oggi considerato dalla critica più avvertita su un gradino superiore.
La trattazione prende spunto dal racconto del De Dominici e si avvale di un corposo repertorio bibliografico di circa 200 titoli, oltre alla consultazione dei documenti di pagamento, puntigliosamente riportati per esteso.
Il capitolo sulla produzione pugliese è stato redatto da un giovane quanto valente studioso, Ruggiero Doronzo, già autore tempo fa di un libro sull’argomento: La bellezza del divino. Le opere pugliesi di Cesare Fracanzano.
Un libro che non potrà mancare nella biblioteca dello studioso o anche del semplice appassionato e che si  può ricevere a domicilio ordinandolo
alla Libreria Neapolis – tel. -  081 5514337 – info@librerianeapolis.it
alla Libro Co – tel. 0558229414 – 0558228461 – libroco@libroco.it
oppure contattando direttamente l’autore tel. 0817692364 -  a.dellaragione@tin.it

lunedì 24 novembre 2014

Al Madre una mostra su Lucio Amelio

Lucio Amelio


Napoli commemora Lucio Amelio, principe indiscusso della transavanguardia, con una grande mostra al Madre, aperta fino al 9 marzo 2015.
Una occasione unica per ripercorrere quanto è avvenuto in città dal 1965 sul palcoscenico dell’arte contemporanea, avendo come protagonista un personaggio al quale tutti riconoscono il merito di aver dato a Napoli una dimensione internazionale.
Il titolo della mostra: Lucio Amelio. Dalla Modern Art Agency alla genesi di Terrae Motus, rappresenta il filo conduttore dell’esposizione, che occupa 19 sale del terzo piano, dove sono collocate le opere degli artisti da lui lanciati sullo scenario internazionale, dai napoletani: Barisani, Clemente, Longobardi, Paladino, Tatafiore ai grandi maestri quali Burri, Fontana, Warhol, Beuys, Twombly, Rauschenberg, Gilbert&George e tanti altri ospitati nella celebre galleria di Amelio, prima al Parco Margherita e poi a Palazzo Partanna.
E speriamo che ritorni attuale l’ipotesi di trovare a Napoli una sede degna per ospitare stabilmente la collezione Terrae Motus, da quasi 30 anni collocata a Caserta.
Ed ora per meglio conoscere il personaggio riproponiamo il capitolo dedicato a Lucio Amelio, sotto lo pseudonimo di L’artefice di Terrae Motus, nel nostro volume “Quei napoletani da ricordare”, I tomo, consultabile in rete.
Nel 1932 nasce a Napoli un poliedrico e vulcanico personaggio: Lucio Amelio, gallerista di successo con spazi espositivi in Piazza dei Martiri ed a Parigi; a Berlino ed a New York; cantante dalla bellissima voce ed attore per divertimento, ma principalmente uomo dinamico e trasgressivo dal carattere bizzarro e dalle solenni incazzature, che con le sue molteplici iniziative ha permesso a Napoli di diventare una delle capitali dell’arte contemporanea ove puoi incontrare più facilmente che a Milano o a New York un «grande» dell’arte moderna.
Questo ieri, oggi vi è il deserto e Lucio Amelio è ingiustamente dimenticato.
Molti napoletani hanno senz’altro incontrato più di una volta Lucio Amelio per strada, pur senza riconoscerlo. Era facile, infatti, vederlo ogni giorno percorrere a passi piccoli e veloci il tratto di strada tra piazza Vittoria e piazza dei Martiri, mentre si recava al suo quartier generale in palazzo Partanna, con il cappotto sempre abbondante, il doppiopetto sempre impeccabile, la camicia e la cravatta ricamata. Lucio Amelio è stato uno tra i maggiori galleristi internazionali di arte contemporanea, ma come tutti i napoletani rimane un gran sognatore per cui si è divertito a fare l’attore cinematografico lavorando con registi di successo, come la Wertmuller o il cantante, incidendo un 33 giri «Ma l’amore no», rivisitando vecchi brani degli anni Quaranta e Cinquanta.
Egli da ragazzo era stato indirizzato agli studi di ingegneria dal padre, costruttore di macchine industriali, ma dopo qualche anno aveva avuto il coraggio di cambiare strada scegliendo un nuovo indirizzo di studi a lui più congeniale: la facoltà di architettura. Nel 1951 lo troviamo nel direttivo della «Corda Frates» un’associazione culturale universitaria che organizza incontri con studenti stranieri tra i quali conosce il pittore berlinese Gunter Wirth. Nel 1953 prende la tessera del partito comunista e comincia a frequentare assiduamente la «Associazione culturale nuova» fondata da Gerardo Marotta.
Comincia poi il periodo dei viaggi ed a Berlino rincontra Wirth, dal quale viene introdotto negli ambienti culturali sia ad Est che ad Ovest della allora divisa città tedesca.
Abbandonati gli studi si stabilisce per un periodo di tempo a Berlino Est ove lavora in uno studio di architettura e frequenta il circolo letterario della scrittrice Anna Segers e l’ambiente che ruota intorno a Berlinere Ensemble. Alcune volte per arrotondare deve fare anche il manovale ed il giardiniere.
Nel 1959 l’improvvisa morte del padre lo spinge a ristabilirsi a Napoli ove lavora nei cantieri metallurgici di Bagnoli come interprete di tedesco. Ma la Germania lo ha ormai stregato e nel 1960 è di nuovo a Stoccarda come rappresentante di una ditta di prodotti chimici. Si rincontra col pittore Gunter With che nel frattempo ha aperto una galleria d’arte d’avanguardia. Nel 1963 organizza a Berlino una mostra di artisti napoletani e quindi l’anno successivo a Napoli un vernissage di artisti tedeschi. Nel cartoncino di invito di questa esposizione compare per la prima volta il «marchio Lucio Amelio».
Durante un’escursione sul monte Tibidabo egli è vittima di un gravissimo incidente, precipitando in una voragine. L’incidente lo costringe a letto per oltre un anno. Ristabilitosi riprende il lavoro all’Italsider, ma siamo giunti ormai vicino ad una data fatidica il 18 ottobre 1965, quando Amelio inaugurava una sua galleria di arte contemporanea con una mostra del pittore berlinese Heiner Dilly. La Modern Art Agency è uno spazio espositivo collocato due piani sotto il livello stradale al n. 85 del Parco Margherita, in un palazzo della buona borghesia, Giuseppe Berto è per i primi anni l’unico collaboratore di Amelio. Il critico d’arte Filiberto Menna stila la sua prima recensione ed effettua il primo acquisto.
Il giovane intellettuale salernitano Marcello Rumma, innamoratosi della galleria dalla prima mostra, sarà negli anni il maggior collezionista ed acquirente di opere.
La galleria che dal 1969 si trasferisce nella famosa sede di piazza dei Martiri 58, presenta nel corso degli anni le più significative tendenze dell’arte contemporanea italiana ed internazionale dal concettuale alla power art fino alla transavanguardia. È Lucio Amelio ad introdurre nei primi anni Settanta in Italia maestri del calibro di Kounellis, Twomblj e Bewys, con il quale vivrà negli anni un vero e proprio sodalizio ideale e culturale, che i maldicenti interpretarono in modo ambiguo.
Tra gli autori italiani è sempre Amelio ad imporre sul mercato e all’attenzione generale artisti come Paladino, Tatafiore e Longobardi presentati assieme in una rassegna dal titolo «Nuova creatività nel mezzogiorno» organizzata in galleria nel 1978 con la presentazione di Michele Buonomo.
Piazza dei Martiri diventa il punto di riferimento dei giganti dell’arte americana da Warhol a Rauschenberg; ma la vera fama culturale della galleria sta nel fatto che essa non si limita a presentare pedissequamente proposte già confezioniate e studiate per un pubblico straniero, bensì tende ad elaborare coerentemente a Napoli una strategia artistica in grado di valicare tutti i confini con la propria forma espressiva, senza tenere in gran conto il risultato squisitamente economico. Nel 1977 con la collaborazione di Raffaello Causa, unico incontro con le istituzioni, organizza una mostra su Carlo Alfano che si terrà a Villa Pignatelli.
Amelio organizza a Napoli l’incontro tra Warhol, l’artista che più vive nel mercato con Beuys l’artista che più vive nell’utopia e con questo connubio si getta il seme ideale che farà spiccare l’ultimo salto di qualità al lavoro della galleria.
E siamo al 23 novembre del 1980 quando un rovinoso terremoto scuote dalle viscere più profonde la Campania provocando lutti ed enormi danni economici.
Lucio Amelio ha un’idea folgorante che su questa catastrofe bisogna ricostruire una nuova idea dell’arte; sorge così Terrae Motus, una rassegna di opere di artisti contemporanei dedicata al cataclisma. All’iniziativa il cui nome è preso da un suggerimento di Giuseppe Galasso, aderiscono subito entusiasti Warhol e Beuys che fanno da traino a tutti gli altri artisti che nel corso degli anni aderiscono al progetto, regalando la propria opera ispirata al terreno alla Fondazione costituitasi nel frattempo nel 1982.
Complessivamente nel corso di dieci anni Terrae Motus si arricchisce di oltre cento opere dovute a 65 artisti appartenenti a 13 paesi. 
La collezione si avvale di opere di Warhol, Bauys, Kounellis, Longobardi, Vedova, Mapplettrorpe, Twombly e tanti altri per un valore commerciale stratosferico.
La mostra non ha mai avuto sedi stabili; le opere restano a Villa Campolieto dal 1982 al 1986, quindi una grande esposizione, sponsorizzata dal Banco di Napoli, al Gran Palais di Parigi, visitata da oltre ventimila persone. Molte città hanno offerto ad Amelio una sede stabile per esporre le sue opere, ma Terrae Motus nata a Napoli può vivere solo in questa città che è l’immagine della catastrofe più che del sole. La nostra patria è una caverna che da tremila anni è in subbuglio, fino a quando il terremoto è stato il catalizzatore di una scelta obbligata, assolutamente naturale.
Alcuni anni fa una sede prestigiosa sembrava pronta ad accogliere Santa Lucia al monte che la fondazione Amelio aveva acquistato per destinarla a sede definitiva di Terrae Motus, affiancando una serie di attività tali da creare un vero e proprio centro di produzione culturale con mostre, dibattiti, videoteche, archivi, biblioteche di settore, editoria specializzata, borse di studio, ateliers per artisti, ecc. 
La Fondazione una volta proprietaria di una sede così prestigiosa deve essere posta in condizione di poter compiere il suo ambizioso lavoro attraverso una feconda collaborazione con le istituzioni: Comune, Regione, Soprintendenze, Accademia di Belle Arti e altre organizzazioni cittadine nazionali ed internazionali.
C’è stato un momento in cui lo Stato, invece di favorire un progetto culturale così ambizioso, ha creato degli ulteriori problemi, riscoprendo un antico diritto di prelazione sull’immobile mai attivato negli anni precedenti e perciò scaduto. Dopo un faticoso tira e molla col Ministero dei Beni Culturali si è riuscito a superare anche quest’ultimo ostacolo ed il 7 gennaio 1991 cominciano i lavori di riattivazione e di restauro del vecchio convento sotto la direzione dell’architetto Pezzullo, una specialista nel restauro dei monumenti, la quale tende sempre in primo luogo al recupero del complesso nel rispetto della sua forma originale.
Purtroppo i lavori che si sperava potessero concludersi in tempi brevi, durarono un’eternità e mai come in questo caso andrebbe bene l’implorazione «Fate presto» che Warhol pose emblematicamente nella sua opera sul terremoto, riprendendola dalle pagine dei quotidiani, che chiedevano a viva voce il soccorso per le zone interessate dal sisma. Nell’ambito della realizzazione di una sede espositiva definitiva per le opere di Terrae Motus, Amelio ha pensato di affiancare anche un progetto europeo che possa rinsaldare un legame di sangue tra la cultura napoletana ed il resto del Sud. Un progetto che tenda a rivivificare tutte le capitali del bacino del Mediterraneo da Barcellona al Cairo, da Atene a Napoli. Città dove è nata la cultura che significa anche terra che bolle e cervelli caldi.
L’importante è che si riesca a creare a Napoli un istituto di cultura contemporanea che non sia in mano ai burocratici ed ai faccendieri politici, seguendo l’esempio di Gerardo Marotta che con il suo Istituto di Studi Filosofici ha creato una struttura privata da far impallidire l’università.
Per meglio conoscere il personaggio riportiamo una breve intervista che Amelio mi concesse tempo fa per un libro che stavo allestendo sui personaggi napoletani da ricordare. L’incontro con il signore dell’arte avvenne nella sua galleria di piazza dei Martiri e davanti a noi vi era un personaggio solare e tagliente che sapeva essere arcigno e conciliante. 
Signor Amelio, come lei sa Napoli riesce a mantenere il suo fascino in Italia e all’estero grazie all’attività di poche persone che si battono tra mille difficoltà, per l’avanzamento civile e morale della città. Ci indichi 15 nomi di concittadini che si sono maggiormente distinti.
«Galasso, Marotta, Villani, De Simone, Buonuomo, Paladino, Compagnone, Tatafiore, Pisani, Alfano, Longobardi, Donatone, Marra e Trisorio».
Non le nascondo signor Amelio che per me, collezionista di dipinti antichi ed amante del ’600 napoletano, scrivere su di lei e sull’arte contemporanea è molto difficile. Mi sa dire cos’è che la spinge ad essere un gallerista di arte moderna.
«La galleria è il punto di aggregazione di idee e di energie creative, che sono nell’aria e che trovano la loro espressione nelle mostre, ove possono raggiungere un pubblico a volte anche molto vasto, chiudendo così il circuito tra gallerista, artista, visitatore e collezionista.
Inoltre è il luogo dove oltre a promuovere e divulgare l’arte vengono eseguite delle ricerche estetiche esaminate in una prospettiva storica».
Dopo il successo di Terrae Motus so che Lei sta dedicando le sue energie ad un nuovo ciclo di lavoro e di ricerca che ha chiamato la Commedia dell’Arte e di cui simbolo è Pulcinella; può dirci qualcosa in merito?
«Dopo l’esperienza di Terrae Motus mi propongo oggi di indagare sulle inquietudini del nostro futuro. Oggi la gente si sente tradita dai mercati d’arte moderna perché l’arte stessa si è degradata ad oggetto di decorazione, così che un vento gelido ha coperto con un sottile strato di ghiaccio tutte le gallerie del mondo.
Così artisti contemporanei dopo aver indicato e denunciato la crisi del mondo moderno ne sono rimasti vittime.
L’arte però non può crollare assieme al mondo e perciò bisogna organizzare una sorta di resistenza estrema come quella degli eroi delle Termopili cantata da Kavafis.
Pulcinella diventa il simbolo di questa resistenza, perché è il personaggio a cui hanno tolto tutto tranne il desiderio, come una specie di Don Chisciotte, che con il suo volto malinconico indica la direzione per uscire dall’ombra.
Noi dobbiamo come gli antichi romani aspettare nel Senato che arrivino i barbari, forse non verranno mai, forse sono già arrivati con la faccia degli stessi artisti. Noi abbiamo il compito di scuotere le coscienze, di far rinascere la consapevolezza della decadenza e delle barbarie. Dobbiamo suonare il nostro tamburo di guerra. Dobbiamo accendere mille fuochi di creatività, nella città e altrove perché solo così l’arte può trasformare e migliorare tutto il mondo.
Parole che rimbalzano dal passato e sono estremamente attuali, soprattutto a Napoli dove il tempo scorre meno velocemente che altrove.
Nel frattempo la città attende ancora la raccolta Terrae Motus, parcheggiata nella provvisoria sede della Reggia di Caserta ed ha dimenticato l’opera e l’insegnamento di Lucio Amelio.

giovedì 13 novembre 2014

Un degrado intollerabile



Piazza Mercato ha rappresentato per secoli il cuore pulsante di Napoli, dove si svolgevano freneticamente le attività commerciali e  la vita civile e religiosa della città. Nel 1647 vi scoppiò la rivolta di Masaniello, l’anno successivo vi è la resa di Napoli a Don Giovanni d'Austria.
Prima di raggiungere piazza Mercato si osservano ad ogni angolo torme di scugnizzi che giocano a pallone, utilizzando come porte degli scalcinati cassonetti della spazzatura, le mura afflitte sono costellate di graffiti sconclusionati, opera di quel moderno flagello ubiquitario costituito dai writers, alternati a manifesti cadenti, alcuni vecchi di anni. Le lancette dell’orologio, uno dei pochi funzionanti in città, ci ammoniscono dello scorrere inesorabile del tempo, ben manifesto nelle minacciose crepe presenti nella maggior parte degli edifici della zona.
Nella piazza, a dovuta distanza, si fronteggiano due fontane, eseguite nel Settecento, formate da un obelisco piramidale poggiante su un robusto basamento con quattro leoni e sfingi agli angoli. Le fontane non avevano solo funzione decorativa, bensì fungevano principalmente da abbeveratoio per le bestie da tiro che trasportavano le merci. Oggi queste superbe fontane, come tutti i monumenti della città, versano in un pietoso stato di abbandono, oltre ad essere a secco, appaiono deturpate da sanguinose scritte in vernice rossa, mentre le teste di donna delle sfingi hanno subito la stessa misera sorte di Corradino e di Fra Diavolo:decapitate.
La folla di oggi, equamente composta da indigeni ed extra comunitari, ci rammenta il furore dei moti scatenati da Masaniello e quasi rimpiangiamo l’assenza del boia e le centinaia di teste mozzate, non solo di incauti rivoluzionari, ma soprattutto di tanti criminali.
Questi flash back che ci compaiono continuamente agli occhi della mente vengono puntualmente e fragorosamente interrotti dalle urla sguaiate dei venditori ambulanti, dagli appiccichi tra vajasse affacciate ai balconi, dagli stereo a pieno volume delle bancarelle, dalla musica neomelodica che straripa dagli appartamenti, ma su tutto domina il rombo dei motori delle infinite auto alla spasmodica ricerca di un parcheggio.
Il colmo del degrado è costituito dalla trasformazione della piazza in stabile campo di calcio con l’istallazione di due porte regolamentari in pianta stabile(foto)
La sera la piazza diventa terra di nessuno, con bande di teppisti che si impadroniscono dei luoghi sotto i fumi dell’alcol e della droga, mentre i radi lampioni proiettano una sinistra ombra a forma di falce. Sembrano impauriti gli stessi obelischi alla vista di tanti ceffi, nonostante ne hanno visti nella loro lunga storia di volti patibolari.
Di notte poi, andati finalmente a dormire balordi e rompiballe, gli unici a girovagare per la piazza sono i fantasmi degli impiccati, molti dei quali morti con l’illusione di migliorare la città, per cui dannati a vederla andare irrimediabilmente verso il baratro.