18/2/2011
Ferdinando IV Borbone, quando ordinò nel 1778 all’architetto Carlo Vanvitelli di ideare e costruire la Villa reale fu categorico: “Deve essere una passeggiata da Re”.
Ed il Vanvitelli prese l’ordine alla lettera, profondendo il massimo impegno nell’opera che, grazie all’indefesso lavoro delle maestranze, fece nascere nella zona di Chiaia il Real passeggio, oggi Villa comunale.
L’apertura al pubblico nel 1781 coincise con la fiera annuale, che prima si teneva al Largo di palazzo, l’attuale piazza del Plebiscito e mostrò al numeroso pubblico accorso un luogo da sogno, improntato al raffinato gusto francese, rispettoso dei principi di simmetria e assialità prospettica tipica dei giardini transalpini. A cagione di questa somiglianza i napoletani più eruditi coniarono il vezzoso nomignolo di Tuiglieria a ricordare i prestigiosi giardini parigini.
Essa accolse tra i suoi viali fontane ed opere d’arte, come le celeberrime statue della Flora, dell’Ercole e del Toro Farnese, posto quest’ultimo nel mezzo del vialone centrale, dove fece a lungo bella mostra di sé, fino a quando venne sostituito dalla fontana con gran vasca di granito proveniente dagli scavi di Paestum sorretta da quattro leoni, opera dell’architetto Pietro Bianchi, e denominata amorevolmente dai napoletani “delle paparelle”.
La villa illuminata di notte costituì il più ricercato luogo di svago, di divertimento e di tranquillo riposo per l’aristocrazia napoletana e solo per essa, perché infatti l’ingresso era vietato ai servitori, ai poveri, agli scalzi, ai malvestiti ed ai malintenzionati. Se queste regole severe fossero in vigore ancora oggi la Villa comunale sarebbe una landa deserta.
Soltanto una volta l’anno, l’8 settembre, l’accesso era libero a tutta la popolazione, che poteva assistere al pomposo corteo reale che si recava alla chiesa di Piedigrotta.
Nel 1807 Giuseppe Bonaparte decise di prolungare il tracciato della villa, le dimensioni aumentarono notevolmente e si creò un’area boschetto, mentre anche nella zona vanvitelliana venivano sistemate numerose statue copiate da originali romani, greci e rinascimentali dagli scultori Tommaso Solari e Giovanni Violani.
Nel 1834 venne completato l’ultimo tratto della villa. Che per un tempo assunse la denominazione di Villanova, ad opera del Gasse, il quale raggiunse l’odierna piazza della Repubblica, seguendo l’ispirazione dei giardini all’inglese. Negli stessi anni venne allestito un galoppatoio, che contribuì a conferire un carattere internazionale ed aristocratico ai giardini reali, che divennero comunali in epoca post unitaria, quando furono eseguiti amplissimi interventi lungo il litorale con la costruzione di via Caracciolo, che mutò la fisionomia originaria della villa, trasformata così da passeggio reale ad insula parco chiusa tra due grosse arterie viarie.
Alla fine dell’800 risale la costruzione della stazione zoologica, un classico edificio che richiama il carattere delle fabbriche rinascimentali fiorentine.
L’acquario fu un’istituzione propugnata da Anton Dohrn, celebre scienziato, convinto assertore delle teorie evoluzionistiche del Darwin.
Essa non è soltanto un’opera pregevolissima sotto il profilo scientifico, ma riveste notevole interesse per la storia dell’arte, non solo napoletana ma europea, perché costituisce il punto di coagulo di un gruppo di artisti stranieri: Fiedler, Hildebrand ed il più noto Von Marèes, che realizzò i grandi affreschi a tempera, ancora oggi perfettamente conservati “Scene marine ed agresti di vita meridionale”.
Un esempio diretto di pittura sviluppato secondo cadenze del tutto inedite per la nostra cultura. L’acquario, dotato della più ricca biblioteca scientifica del sud Italia, è uno dei più importanti laboratori scientifici a livello internazionale.
Alla fine del secolo la villa fu arricchita da numerose strutture architettoniche quali la Casina pompeiana utilizzata dalla società di Belle arti e la grande Cassa armonica, stupenda struttura in vetro e ghisa, preziosa testimonianza del Liberty partenopeo, tempio della musica, costruita da Enrico Alvino in fondo al grande viale centrale, di fronte alla severa statua di Giovan Battista Vico.
Il grande giardino ospita rare specie vegetali e splendidi e rigogliosi esemplari di lecci, pini, palme, aruncarie ed eucalipti.
Nel corso del Novecento la villa è decaduta giorno dopo giorno. Priva di recinzioni e di sorveglianza è divenuta, salvo durante il Ventennio, regno incontrastato di perdigiorno e filonisti, con torme di scugnizzi sempre pronte, con eguale solerzia al gioco del pallone, come ad infastidire i tranquilli visitatori.
Il punto più basso lo si raggiunse durante l’occupazione anglo americana, quando la villa, divenuta ostello di sbandati e terra di nessuno, fu a lungo recintata con filo spinato per impedire alle tante sciagurate signorine di appartarvisi per i loro turpi convegni.
Il recente recupero della villa è storia di oggi ed è uno dei meriti dell’amministrazione comunale che, con formule sbrigative che pur hanno fatto discutere, ha assegnato ad un celebre architetto del nord, Francesco Mendini, il compito di restituire ai giardini un respiro ed una dimensione europea.
La villa è stata così illuminata in maniera originale, le statue sono state nettate (ma quanto resisteranno?) dalle scritte blasfeme e demenziali, apposte dai nuovi barbari, le aiuole ridisegnate, le piante vecchie e malate sostituite; inoltre sono stati predisposti parchi giochi ed eleganti chioschi di generi di conforto. Oggi è possibile, grazie a questi benemeriti interventi, passeggiare con serenità in un ambiente confortevole, beandosi della vista del mare e perché no colloquiare con le memorie del nostro passato, effigiate nelle tante statue, ritornate all’antico splendore, con l’aiuto di un aureo ed economico libretto sull’argomento, scritto da un valente studioso: il professor Nicola Della Monica.
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