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tav. 1 - Domenico Gargiulo - Pastorello -
Napoli, collezione privata |
In un panorama ricco di personalità di rilievo internazionale, dal Caravaggio a Luca Giordano, dal Ribera a Solimena, quale è quello rappresentato dal Seicento napoletano, la figura di Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro, non assurge certo al ruolo di protagonista assoluto, ma il suo percorso artistico è quanto mai interessante abbracciando più filoni iconografici, in alcuni dei quali è da considerare più che un innovatore un vero e proprio caposcuola, la cui attività troverà epigoni ed imitatori ben oltre i limiti temporali del XVII secolo, come nel caso delle scene di martirio o dei quadri di storia e cronaca cittadina, oltre che nella pittura di paesaggio, come nel caso del dipinto (fig.1) che illustriamo in questo articolo, che riporta sul retro della tela un’antica attribuzione (fig.2). Inoltre Domenico Gargiulo è un napoletano “doc”, nato e morto nella nostra città, dalla quale non si è mai allontanato.
Con occhi curiosi ed uno stile da narratore paziente ed attento,
Micco Spadaro praticò tutti i generi. Raccontò la Bibbia e i miti con
quel suo facile linguaggio rigorosamente descrittivo, tra immagini e
argomenti appropriati per le sue favole, in un connubio artistico
letterario denso di contenuti. Fotografò fatti storici e di cronaca
documentandoli, descrisse palazzi e luoghi del passato poi
sventuratamente scomparsi, delineò ritratti, costumi sociali, squarci
urbani ed appunti di vita cristallizzandoli e donandoli alla storia
dell’umanità. Oltre a questo genere di tele, egli ha eseguito notevoli
paesaggi, sull’onda dell’insegnamento di Salvato Rosa e per venire
incontro alle richieste di una committenza laica e borghese, che non
amava i soggetti devozionali.
Quasi sempre nei suoi dipinti
appaiono figurine di piccolo formato, ma talune volte, come nel
pastorello (fig.3) che compare nel nostro quadro, la figura predominante
assume dimensioni adeguate, mentre all’orizzonte si intravedono le
patognomoniche nuvole bianche orlate di rosa ed una montagna in
lontananza. La definizione del fogliame, che copre tutte le tonalità del
verde, è di ottima fattura, un altro dettaglio che rinvia al pennello
di Micco Spadaro.
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tav. 2 - Domenico Gargiulo - Pastorello -Retro del quadro -
Napoli, collezione privata |
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tav. 3 - Domenico Gargiulo - Pastorello - (particolare)
Napoli, collezione privata |
Il secondo dipinto che esaminiamo, di grandi dimensioni e di altissima qualità, raffigurante San Bonaventura che riceve il cappello cardinalizio (fig.4–5) in un primo momento non irradiava quell’afrore caratteristico di “napoletanità” che riescono a cogliere gli specialisti di quel periodo, tra cui il sottoscritto ed il motivo mi è stato chiaro dopo che il celebre studioso di pittura bolognese, il professor Pietro Di Loreto, lo ha attribuito al Domenichino, durante gli anni trascorsi all’ombra del Vesuvio, quando, pur impegnato nella Cappella del tesoro di San Gennaro, trovava il tempo per soddisfare delle committenze private di prestigio. Domenico Zampieri detto il Domenichino, è infatti presente a Napoli per 10 anni, dal 1631 fino alla morte, avvenuta il 6 aprile del 1641.
Egli fu, assieme ad Annibale Carracci e Guido Reni, uno dei grandi pittori bolognesi del Seicento appartenente a quella scuola pittorica che rinnovò il linguaggio artistico del XVII secolo.
Tutta la sua carriera è dedicata alla rievocazione della luminosa stagione del pieno Rinascimento, rivisitato alla luce di una consapevolezza critica e intellettuale aggiornata e tutto comincia nel clima della Galleria Farnese, palestra ed esempio imperituro per generazioni di pittori, saturo di cultura classica e ammirazione per Raffaello, ma anche di inquietudine e di sensualità, ove maturava il seme da cui sarebbe sbocciato lo stile, significativamente aborrito dai classicisti, che in pochi decenni avrebbe guadagnato l’intera arte europea, ossia il Barocco.
La sua fama ha oscillato per tre secoli tra l’ammirazione e il disprezzo: osannato dai contemporanei, che lo ritennero secondo solo al Raffaello, nel Settecento ebbe un momento di oblio, per ritornare in auge con la critica moderna, che è pervenuta ad una più chiara valutazione dell’età barocca e del suo primo momento classico.
Egli tese a fissare in immagini di statuaria evidenza le passioni fondamentali dell’uomo, piegando a volte le regole del più puro classicismo ed accostando i modelli di bellezza idealizzati alle corde più impalpabili degli umani sentimenti. Dopo tanti anni di successo, il Domenichino, quando giunse a Napoli si impegnerà per il resto dei suoi anni nei lavori per la decorazione della Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli.
Il compenso stabilito fu da record: 18.000 scudi che riuscirono a stemperare gli indugi e le perplessità del Domenichino, timoroso di lavorare nella difficile realtà napoletana, dove gli artisti stranieri non erano ben accolti dall’entourage dei pittori locali, come testimoniavano l’agguato a Guido Reni e le storie di avvelenamenti, associate alle minacce, più o meno sottili, che venivano propinate ad ogni occasione. Ma infine, l’ambizione per l’esecuzione di un’impresa che si annunciava colossale prevalse sulle paure e sulle riluttanze ed il pittore giunse a Napoli dove visse anni difficili per la rivalità dei colleghi e per un senso di solitudine ed isolamento che aumentarono nel tempo.
Egli si buttò anima e corpo nell’esecuzione degli affreschi e delle pale d’altare, certo di divenire l’artefice di una grande impresa: l’intera opera consisterà di quattro pennacchi, tre lunette, dodici riquadri nei sottarchi e cinque pale d’altare, una delle quali non completa, mentre la cupola, che egli riuscì appena a cominciare, fu lasciata incompiuta e quel poco che aveva fatto a tempo a dipingere fu «buttato a terra» come ci ricorda il biografo Giovan Battista Passeri e la decorazione ricreata interamente dal suo acerrimo antagonista Giovanni Lanfranco.
Costretto a lavorare senza sosta dai suoi committenti che gli vietano di assumere qualsiasi altro incarico, tentò per qualche tempo la fuga, rifugiandosi presso la famiglia degli Aldobrandini, suoi antichi protettori, a Roma. Ma dopo poco fece ritorno, anche se di malavoglia, a Napoli, dove, sempre sotto le forti minacce fattegli dai suoi colleghi continuò pigramente a lavorare fino al 1641, quando morì, forse avvelenato, lasciando incompiuta la sua impresa, che fu proseguita dal Lanfranco, al quale si deve la realizzazione della splendida cupola e, per le pale d’altare, a Massimo Stanzione, cui spetta il vigoroso e drammatico Miracolo dell’Ossessa ed a Ribera artefice del celebre e spettacolare San Gennaro che esce illeso dal fuoco della fornace, un immenso rame che, restaurato per l’occasione, fu il gioiello della mostra sulla Civiltà del Seicento ed il cui dramma miracoloso si compie sotto un cielo azzurro come da sempre è quello napoletano.
Achille della Ragione
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tav. 4 - Domenichino (e bottega) - San Bonaventura che riceve il cappello cardinalizio - Napoli collezione privata |
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tav. 5 - Domenichino (e bottega) - San Bonaventura che riceve il cappello cardinalizio - (particolare) - Napoli collezione privata |