25/2/2011
L’universo è il frutto della vanità di Dio, una qualità da taluni ritenuta un difetto, ma che rappresenta una preziosa virtù, perché è il motore che muove le più nobili attività dell’uomo: l’arte, la poesia, la scienza, la politica, la stessa santità non esisterebbero senza la prepotente molla della vanità.
Vanità è il piacere di farsi conoscere, ma anche la triste consapevolezza della caducità di tutte le cose.
Senza di essa l’uomo si spegnerebbe ad un livello inferiore al mondo vegetale e minerale, perché i fiori dai colori smaglianti, non possiamo forse immaginarli vanitosi e i rubini, gli smeraldi, i diamanti non si beano forse nell’essere ammirati?
Il desiderio disperato di sopravvivere alla morte fisica è il sogno pietoso della vanità, di rubare un istante al flusso dell’eternità, un anelito disperato che ci trasforma in fratelli minori di Cioran ed in discendenti umorali di Leopardi.
L’illusione di resistere al disfacimento della morte rende nobile un sogno fragile, che infiamma l’operosità dell’intelletto.
Tutta la nostra cultura è dominata dal segno di questo agitarsi dello spirito, dall’Ecclesiaste con il suo vanitas vanitatum, alla Gnosi con il suo mondo creato da un demiurgo funesto.
Siamo figli inconsapevoli di un sogno malizioso, non il piacere narcisistico di piacersi, ma l’inesausto esercizio dell’intelligenza per rimanere nella memoria collettiva.
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