nona puntata
decima puntata
undicesima puntata
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tav. 1 - Prima del risanamento |
“Bisogna sventrare Napoli!”. La vera storia del Risanamento
La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto
delle più elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie
del diffondersi nella città di Napoli di disastrose epidemie, che talune volte
hanno falciato quote cospicue della popolazione.
Tra queste il colera è il più diffuso, esplode sempre
d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature raggiungono i loro picchi
annuali e colpisce per primi gli abitanti dei bassi, dove le precarie
condizioni di vita favoriscono la diffusione del contagio.
L’ultimo capitolo di questo dramma infinito si è avuto nel
1973, quando il vibrione del colera, complice la scellerata abitudine di
consumare mitili non cotti, prelevati dal mare cittadino, ridotto da tempo ad
una penosa cloaca a cielo aperto, ha di nuovo dilagato in città e provincia
chiedendo il suo implacabile pedaggio di vittime.
E purtroppo in questa occasione i mass media hanno dilatato
per tutto il globo l’immagine di una città perduta, condannata ed
irrecuperabile, per via anche dei suoi abitanti più rozzi, immortalati dalle
telecamere mentre si pascevano scriteriatamente di cozze appena prelevate dagli
scogli puteolenti di via Caracciolo.
Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e
proprio tumulto scoppiato nel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per
accaparrarsi il vaccino dal quale fui
travolto assieme ai colleghi medici e mi salvai unicamente perché iniettammo
soluzione fisiologica una volta finite le dosi o la delusione patita di vedere
al mio matrimonio, celebrato a settembre col morbo da poco terminato, disertato
dalla totalità degli invitati non napoletani spaventati e perfino da un mio zio
residente a Roma, che doveva fungere da compare d’anello.
Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare
Napoli ad una città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori
ed amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a regolare
la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la sproporzione tra
numero degli abitanti e superficie a disposizione, per cui una quota
significativa della popolazione è costretta a sopravvivere in condizioni
precarie, sia che occupi degli squallidi bassi nei vicoli senza luce del centro
antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a Secondigliano.
Un esempio storico di amministrazione mirata alla
speculazione ed a privilegiare le classi sociali più agiate è fornito
dall’operazione del Risanamento, che seguì all’ennesima epidemia del 1884, la
quale provocò nel solo capoluogo 7000 vittime del colera. Anche allora, come si
è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di ogni risma, politici
corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamento per
sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha
addirittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile,
autorizzata ad agire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.
Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di
ristrutturazione del Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e
scomparvero sotto i colpi di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56
fondachi (fig.1). Prese forma il Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò
letteralmente in due il ventre di Napoli (fig.2), ma non si costruirono come
promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu costretta a
ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto,
dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare
entrò in fibrillazione con aumenti vertiginosi dei prezzi e guadagni stratosferici per i soliti
speculatori, tra i quali si distinsero i piemontesi, che realizzarono una
fortuna tra appalti e subappalti.
Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una
commissione, che mise in luce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non si
riuscì a condannare nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi
risultati, per cui non ci resta che attendere la prossima epidemia, nel
frattempo ci dobbiamo contentare di una diffusione di epatite virale che non ha
eguali nel mondo occidentale.
Lasciamo da parte i ricordi personali e parliamo ora della
gigantesca operazione di speculazione finanziaria che interessò la città di
Napoli dopo il 1884.
Il dibattito sull' urbanistica continua a essere
problematicamente vivo nella città. Tuttavia restano stranamente poco
conosciute o non approfondite alcune vicende come quella del
"Risanamento" nella Napoli della seconda metà dell' Ottocento. Essa
presenta agganci e riflessi con il grande piano di ristrutturazione di Parigi
(1852-1869), realizzato dal barone urbanista Haussmann su commissione di
Napoleone III . Sembra quindi interessante riportare alla memoria le
caratteristiche dell' operazione "Risanamento", che seguì al colera
scoppiato a Napoli nel 1884 e si concretizzò nel primo programma di
sventramento del centro storico di Napoli.
Si può denominare il "quartiere angioino" l'area
costituita dai cosiddetti "quartieri bassi", oggetto dell' operazione
"Risanamento": Porto, Pendino, Mercato e Vicaria. «Bisogna sventrare
Napoli» fu lo slogan che supportò la richiesta al governo del sindaco Nicola
Amore (fig.3) della Legge speciale per Napoli, approvata nel 1885. E lo slogan
ripeteva l' esclamazione del presidente del Consiglio dei ministri, Agostino
Depretis (fig.4), venuto a Napoli assieme a re Umberto I (fig.5) nell' anno
del colera. Essa richiamava il titolo del romanzo della Serao (fig.6): "Il
ventre di Napoli" (fig.7) (1884), che sollecitava a gran voce il salvifico
intervento nel ventre infetto della città. Il programma urbanistico rifletteva
la cultura dell' Ottocento, in cui non era ancora sorto il problema dei valori
ambientali e della tutela dei centri storici. Pertanto i predetti quartieri
malsani e da bonificare - non vi erano né acqua né fogne, quindi le condizioni
igienico sanitarie erano pessime - furono risanati con lo
"sventramento" senza alcuna remora etico sociale circa la sorte degli
abitanti. Questa la classe politica "intelligente e aperta". In
sostanza, la classe dirigente borghese identificava solo nella rendita
fondiaria la più concreta forma di reddito rifiutando la conversione industriale
e commerciale della rendita che avrebbe potuto determinare anche l' evoluzione
sociale. Perciò la distruzione dei quartieri "bassi" assicurava l'
acquisizione dei suoli per lucrare nuove rendite immobiliari. Del resto anche
gli intellettuali sostennero l' intervento (persino Benedetto Croce, che poi a
cose fatte si ricredette). Ma sentite cosa esclama Raffaele D' Ambra
("Napoli antica", 1889, con funeree illustrazioni "a
ricordo" di squarci dei quartieri da sventrare). Egli esorta a espellere
la plebe dal centro storico «perché le evoluzioni sociali e sanitarie lo
esigono irreparabilmente». La sezione di Architettura degli "Scienziati
Artisti e Letterati" giudicò Castel dell' Ovo letteralmente «un rudere che
non ha più ragione di essere in piedi». Per fortuna il Comune non mise in atto
tale ridicolo giudizio. La commissione comunale per la conservazione dei
monumenti si accontentò che venissero trasferiti nel Museo di Donnaregina
dipinti, statue e sepolcri delle 63 chiese e cappelle destinate alla
demolizione (fig.8) sorvolando che erano per lo più di età medievale. Nel 1886
fu approvato il progetto dell' ingegnere capo del comune Giambarba, che
prevedeva una grande e larga strada, il Rettifilo (fig.9): l' asse attorno a
cui ruotava l' intera operazione di sventramento. Era la riproposta del modello
urbanistico parigino realizzato a Parigi da Haussmann, dopo il tremendo
incendio che distrusse quella città. Già l' architetto Alvino aveva proposto un
analogo progetto, ma si levò la voce isolata di Luigi Settembrini (1868), il
quale opponendosi dichiarò che il modello parigino rispondeva al programma del
dispotismo di Napoleone III, che aveva bisogno di strade larghe per sedare i
moti di rivolta popolare e «per caricare il popolo con la cavalleria e la
mitraglia». Proponeva invece «di bonificare i quartieri popolari gradatamente e
diradando man mano quelle affollate abitazioni ». Ma tornando al
"Risanamento" lo stesso Giambarba nel 1887 scrive allarmato: «La
febbre dell' acquisto dei terreni ha invaso gli speculatori, si sono comprati
fondi duplicandone il valore e ciò ha menato a un aumento sensibile nei prezzi
di rivendita delle aree edificabili». Insomma l'operazione si convertì da un
intervento di pubblica utilità a una colossale speculazione edilizia privata. E
il Comune, per evitare di farsi carico della tutela degli abitanti non
abbienti, favorì la nascita della "Società per il Risanamento" che
provvide subito a "gettare sul lastrico" migliaia di famiglie: 87.500
abitanti circa vennero "sradicati". I più fortunati si trasferirono
in periferia, gli altri si ammassarono nei vicoli limitrofi e persino nelle
grotte sul pendio di monte Echia. Con sgomento la Serao pubblicò, dieci anni
dopo, un secondo libro, il "Paravento", e così definì la cortina dei
grandi palazzi borghesi che servivano a nascondere l' accresciuta miseria e l'
abbandono del popolo napoletano. Infine tale tragedia sociale non ha ispirato
alcun romanzo, né dramma teatrale, né opera lirica, che sarebbe potuta essere
rappresentata al San Carlo, a proposito del quale si attende da tempo
un rilancio.
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tav. 2 - Pianta della zona del Rettifilo |
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tav. 3 - Statua di Nicola Amore a piazza Vittoria |
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tav. 4 -Agostino Depretis |
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tav. 5 - Umberto I |
Con il nome di Risanamento ci si riferisce al grande
intervento urbanistico che mutò radicalmente e definitivamente il volto della
maggior parte dei quartieri storici, in alcuni casi (Chiaia, Pendino, Porto,
Mercato, Vicaria) sostituendo quasi totalmente le preesistenze, talvolta anche
di gran valore storico o artistico, con nuovi edifici, nuove piazze, nuove
strade.
L'intervento, ipotizzato sin dalla metà dell'Ottocento, fu
portato a compimento a seguito di una gravissima epidemia di colera, avvenuta
nel 1884. Sotto la spinta del sindaco di allora, Nicola Amore, nel 1885 fu
approvata la Legge per il risanamento della città di Napoli e il 15 dicembre
1888 venne fondata la Società pel Risanamento di Napoli (confluita dopo varie
vicissitudini nella Risanamento S.p.a.): allo scopo di risolvere il problema
del degrado di alcune zone della città che era stato, secondo il sindaco Amore,
la principale causa del diffondersi del colera.
Si decise l'abbattimento di numerosi edifici per fare posto
al corso Umberto, alle piazze Nicola Amore e Giovanni Bovio, alias piazza Borsa
(fig.10), via A. Depretis e alla Galleria Umberto I (fig.11). In realtà alle
spalle dei grandi palazzi umbertini la situazione rimase immutata: essi infatti
servirono a nascondere il degrado e la povertà di quei rioni piuttosto che a
risolverne i problemi.
Nonostante gli studi e i progetti per una risistemazione
urbanistica della città, e nonostante il colera fosse scoppiato ben tre volte
in meno di un ventennio (nel 1855, nel 1866 e nel 1873) una nuova epidemia si
diffuse nel settembre 1884 con estrema violenza nei quartieri bassi e
propagandosi in misura minore anche nel resto della città. Per la prima volta, sulla scorta
dell'emozione provocata nell'opinione pubblica nazionale dalla tragedia, si
delineò quindi un intervento governativo che risolvesse definitivamente gli
annosi mali della città. Agostino Depretis, presidente del Consiglio, dichiarò
allora solennemente che era necessario "Sventrare Napoli" (fig.12),
coniando così il neologismo sventramento (ispirato dalla lettura della prima
edizione de "Il Ventre di Napoli" di Matilde Serao) che si applicò da
quel momento alla principale operazione di bonifica da effettuare; termine che
poi fu esteso a tutte gli interventi urbanistici simili compiuti in Italia in
quegli stessi anni.
In occasione della visita di Umberto I ai cittadini colpiti
dal morbo, si parlò della bonifica dei quartieri bassi. Fu allora che si
delinearono i principali interventi da realizzare, tra cui la creazione di
un'efficace rete fognaria per eliminare il pericolo dell'inquinamento del suolo
per le infiltrazioni delle acque infette. Era inoltre necessario ottenere
un'abbondante erogazione d'acqua attraverso l'esecuzione dell'acquedotto del
Serino e pianificare lo sventramento e la bonifica dei quartieri bassi, da
ottenersi mediante una strada principale dalla stazione centrale al centro
cittadino e una rete viaria minore ad essa afferente che favorisse la
circolazione verso l'interno della brezza marina; inoltre si auspicava la
creazione di un quartiere di espansione a nord della città.
Si trattava, come si è visto, del rilancio di temi
ricorrenti da decenni, questa volta imposti dalla gravità cui era pervenuta la
situazione igienica. La necessità inderogabile di una bonifica della città e in
particolare dei quartieri bassi era avvertita dalla classe dirigente, ma,
purtroppo, ogni soluzione al problema era rimasta, per tutte le amministrazioni
che si erano susseguite, allo stato di enunciato programmatico, essendone la
fase esecutiva perennemente impedita da difficoltà di carattere politico ed
economico. La situazione economica era d'altra parte gravissima, dato che il
Comune era stato costretto, dopo l'Unità d'Italia, a farsi carico di tutte le
spese precedenti al 1860, compreso il passaggio dall'illuminazione ad olio a
quella a gas e le spese di esproprio dei terreni di Corso Vittorio Emanuele e
Corso Garibaldi. Il problema della sistemazione della rete fognaria non era mai
stato adeguatamente affrontato.
Il 19 ottobre 1884 Adolfo Giambarba (futuro responsabile
dell'elaborazione dei progetti) presentò al sindaco un progetto accompagnato da
relazione e computi metrici, nonché da dati statistici circa lo stato dei
fabbricati, la destinazione del suolo e delle abitazioni, per il risanamento
dei quartieri bassi e l'ampliamento ad oriente della città. Il progetto di Giambarba polarizzò
l'attenzione del Consiglio comunale e dell'opinione pubblica: in esso, la
bonifica era perseguita attraverso una strada rettilinea - che sventrava i
quartieri Porto, Pendino e Mercato - con inizio in via Medina, al suo incrocio
con via San Bartolomeo, ove si creava una piazza ottagonale da cui partiva una
strada verso via Toledo. Lungo il suo percorso erano previste sedici strade ortogonali
ed altre parallele ad esse, dando luogo ad una trama viaria che incideva su
buona parte del tessuto urbano preesistente; si prevedeva, inoltre, un
ampliamento della zona portuale tramite colmate.
Per le strade afferenti a Piazza Garibaldi era prevista
un'ampiezza di 30 metri e una fascia di esproprio di 50 metri mentre per le
traverse del Rettifilo una larghezza di 12 metri; il livello del piano stradale
era innalzato di 3 metri e mezzo, adoperando il materiale delle demolizioni,
onde costruire una nuova rete fognaria. A completare il disegno del nuovo
piano, il Corso Garibaldi era prolungato sino all'Albergo dei Poveri.
Altre polemiche nacquero poi circa la ristrutturazione del
sistema fognario, ma finalmente, nel giugno del 1884, la proposta di Giambarba
fu approvata e, il 17 febbraio 1885, confermata. Il 10 maggio dello stesso anno
si ottenne un altro importante risultato ai fini del risanamento cittadino, con
l'inaugurazione dell'acquedotto del Serino.
Il 27 novembre 1884 il presidente del consiglio Agostino
Depretis presentò alla Camera dei deputati un disegno di legge in quindici
articoli costituenti i "Provvedimenti per Napoli", che fu promulgata
il 15 gennaio 1885.
Fu quindi denunciato, per la prima volta e già prima
dell'inizio dei lavori, l'effetto della legge 1885: essa aveva provocato a
Napoli una speculazione sui suoli fino ad allora sconosciuta. Il consigliere
Enrico Arlotta enfaticamente dichiarò: "Dopo l'invasione colerica e
l'iniziativa del Municipio per combattere le cause di tanta sciagura, la
speculazione di tutta Italia si è riversata sulla Città di Napoli. La
speculazione che a volte ha colpito i valori dello Stato, altre il debito
pubblico, oggi ha preso di mira i suoli edificatori". E il Giambarba
confermando, aggiunse: "La febbre dell'acquisto dei terreni su larga scala
ha invaso gli speculatori, si sono comprati fondi decuplicandone il valore e
ciò doveva menare ad un aumento sensibile nei prezzi di rivendita delle aree
edificabili".
La speculazione e la possibilità di imponenti lavori avevano
del tutto trasformato il mercato edilizio napoletano: grosse società
immobiliari avevano, infatti, intuito la possibilità di proficui investimenti,
generando negli amministratori cittadini il timore di superare le spese
previste, dal momento che gli espropri costituivano la voce passiva di maggiore
entità.
Essendo stati i cento milioni previsti dalla legge
dilazionati in dodici rate annuali, sarebbe stato logico considerare il valore
delle espropriazioni al momento dell'erogazione delle rate: ciò era però
improponibile, a causa del continuo aumento di valore dei suoli. Era
impossibile avere elementi certi di valutazione, né d'altra parte, si poteva
contrarre un nuovo prestito che anticipasse la sovvenzione da parte dello
Stato, poiché una simile situazione avrebbe comportato il pagamento di
interessi che avrebbero gravato con nuove tasse sui contribuenti napoletani.
Era dunque necessario un solo concessionario che si
assumesse i tre punti essenziali dell'opera (espropriazioni, proprietà dei
suoli, nuove costruzioni) con tutti i rischi che comportavano: le
espropriazioni potevano superare i cento milioni (senza contare i lavori per le
fognature); era richiesto un rapido svolgimento, poiché il rimborso era previsto
in 10 anni; era necessario, evidentemente, cedere al concessionario i suoli di
risulta per le nuove costruzioni, al fine di consentirgli di ricavare un utile
dai lavori.
Il concessionario prescelto doveva inoltre coincidere con
una società anonima "potente e vigorosa", di cui si sperava facessero
parte finanziatori locali, che possedesse il capitale iniziale di 30 milioni
necessario per cominciare le espropriazioni. Un rigoroso capitolato avrebbe
cautelato i rapporti tra il Comune e la società, al fine di salvaguardare gli
interessi dei proprietari dei fabbricati da espropriare.
Per evitare che il concessionario costruisse prima nei nuovi
quartieri, dove il guadagno era certo e non vi erano fabbricati da espropriare
(nella realtà si verificherà proprio l'opposto, costruendo nelle zone centrali
e trascurando le aree di ampliamento), il Comune si impegnava a controllare che
fossero edificate abitazioni economiche nel quartiere orientale, secondo quanto
già previsto da Ferdinando II.
Si giunse così al capitolato in 40 articoli approvato dalla
giunta comunale il 2 marzo 1887, sindaco era ancora Nicola Amore.
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tav. 10 - Piazza della Borsa |
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tav. 11 - Galleria Umberto I |
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tav. 12 - Piazza della Selleria |
Vediamo ora come interpreta la vicenda Angelo Forgione, un
giovane quanto preparato napoletanista, a cui diamo la parola. Egli parte da
lontano.
LA SPECULAZIONE
EDILIZIA
Il passaggio di consegne del 1860 cambiò l'ottica
urbanistica di Napoli, dando inizio a un modo di costruire che valutava i metri
cubi unicamente in funzione dello sfruttamento dei suoli edificabili e di ciò
che essi rappresentavano in termini di rendita fondiaria.
Paradigmatica la questione del lungomare di Chiaja che,
subito dopo l'Unità, perse la sua spiaggia e tutto l'ambiente naturale fin lì
celebrato, per far posto, tra feroci polemiche, a una colmata su cui fu
costruita l'ampia e pur elegante strada di via Caracciolo e gli edifici sulla
riviera. Le spese dell'opera se le accollò l'imprenditore privato belga Ermanno
Du Mesnil, in cambio di suoli edificabili e di un consistente sussidio. Corse
il rischio di essere demolito persino il Castel dell'Ovo, lasciato all'abbandono
(fino al 1975) e minacciato dal delirio della Sezione di Architettura degli
Scienziati, Letterati ed Artisti di Napoli, operante in consiglio comunale, che
indicò le linee guida dell'intervento generale senza alcun rispetto per le
testimonianze del passato. Il maniero sul mare fu definito "brutto e ormai
inutile…, un rudere che non ha più ragione di essere in piedi". Così
scrissero i tecnici nel progetto generale del 1873 con cui proposero anche la
cancellazione di un simbolo storico identitario, il luogo dove la città ebbe
origine, per far spazio a un nuovo rione. Fortunatamente, al proposito non fu
dato seguito, pur restando emblematico della nuova "sensibilità" in
materia di tutela dei beni culturali. I nuovi palazzi sorsero dirimpetto, su
un'ulteriore colmata che annientò anche la spiaggia di Santa Lucia (fig.13). La
naturale morfologia costiera della città che aveva affascinato l'Europa fu
completamente cancellata, senza alcuna valutazione di impatto ambientale.
L'identità andò via con i controversi lavori sul lungomare e
quelli più ampi del Risanamento di Napoli, un'operazione governativa per la
soluzione dei problemi igienico-sanitari che avevano causato una violenta
epidemia di colera di provenienza francese nel 1884; un complesso intervento
urbanistico che donò alla città un più sicuro sistema fognario, il
completamento dell'acquedotto del Serino, nuovi quartieri, eleganti e più
agevoli strade e palazzi signorili, ma dietro il quale, in realtà, si
nascondeva il pretesto per una colossale speculazione edilizia privata d'epoca
umbertina. Da spartire c'era una torta di denaro pubblico da più di centotrenta
milioni di quell'epoca, tutti e subito. E allora, al grido di «bisogna
sventrare Napoli», si trovò il modo per allontanare circa novantamila persone
meno abbienti dai suoli pregiati. Il piano iniziale di "pubblica
utilità", che prevedeva la bonifica dei quartieri bassi a ridosso
dell'area portuale con la realizzazione di nuove costruzioni popolari, fu
indirizzato verso abitazioni più costose, stravolto in corso d'opera con una
variante di progetto senza alcun vantaggio per il Municipio, approvata su forte
pressione delle società immobiliari e finanziarie piemontesi e romane: la
Società Generale di Credito Mobiliare Italiano, la Banca Subalpina e la Società
Fratelli Marsiglia di Torino; la Banca Generale e l'Immobiliare dei Lavori di
Utilità Pubblica ed Agricola di Roma. Senza dimenticare la Banca Tiberina, di
Torino (fig.14), che si era assicurata i terreni e la costruzione del nuovo
rione residenziale del Vomero, nell'ambito della stessa legge. Il capitale,
completamente esterno alla città, prima fece da parte il Municipio,
strappandogli il controllo della città, e poi attuò solo in parte la bonifica.
Tutto si
rivelò come occasione per una pura operazione di
sfruttamento dei suoli, che non si fermò neanche di fronte al preventivo
obbligo scritto di denunciare il ritrovamento di reperti di interesse
storico-artistico che avrebbe causato la sospensione dei lavori. Tutte le
testimonianze del passato presenti nelle aree dei lavori ne fecero le spese,
tra cui una sessantina di chiese anche d'epoca medievale e il notissimo teatro
San Carlino a largo del Castello (fig.15). I vecchi inquilini furono costretti
a sovraffollare i rioni degradati a ridosso delle nuove abitazioni, eleganti e
inaccessibili, allargando un'atavica caratteristica del tessuto sociale
cittadino e creando una diversa criticità in quei luoghi: ricchi e poveri negli
stessi quartieri ma separati da strade di demarcazione sociale, a Santa Lucia
come al nuovo "Rettifilo". Le polemiche sugli appalti portarono alle
dimissioni del sindaco Nicola Amore, già discusso questore nei fatti luttuosi
di Pietrarsa dell'agosto 1863, che dovette difendersi dalle accuse di aver
favorito le banche torinesi nei lavori di bonifica e la società svizzera
"Geisser" nell'acquisto di suoli edificabili della città. Ulrich
Geisser aveva scalato l'alta finanza grazie ai solidi legami stretti con Cavour
e controllava le azioni della Banca Tiberina di Torino, istituto proprietario
di alcuni suoli a Chiaja, oltre che al Vomero, che speculò anche a Roma nello
sviluppo della nuova capitale del Regno d'Italia. In un momento di crisi
economica, il trasferimento di ingenti capitali nelle due importanti città,
l'eccessivo sfruttamento dei terreni in tutto il Paese, l'affarismo sfrenato e
la disinvolta concessione di prestiti agli speculatori edilizi generarono una
crisi del sistema bancario che culminò nel crollo del settore edile e nel
fallimento degli istituti di investimento ai quali la Banca Romana aveva
elargito prestiti a lungo termine. Per coprire le enormi perdite, l'istituto di
credito capitolino forzò l'emissione di moneta senza autorizzazione e stampò un
ingentissimo quantitativo di banconote con un numero di serie identico ad altre
emesse precedentemente, riservandone una parte per pagare politici e
giornalisti. L'iniziale insabbiatura non servì a scongiurare uno scandalo di
dimensioni enormi, uno dei primi della storia d'Italia, che svelò un'alleanza
strategica tra aristocratici proprietari terrieri e banche settentrionali
catapultate su speculazioni a breve termine. Una colossale truffa in cui furono
implicati Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e una ventina di parlamentari,
nonché, seppur indirettamente, il re Umberto di Savoia, fortemente indebitato
proprio con la Banca Romana. Il processo farsa del 1894 produsse un colpo di
spugna con cui fu salvata l'alta politica del Regno italiano dei Savoia. I
giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la
colpevolezza degli imputati. Stessa fine avevano fatto gli incartamenti di una
Commissione d'inchiesta che nel 1864 aveva indagato sulle grosse speculazioni
attorno alla costruzione e all'esercizio delle reti ferroviarie meridionali,
cedute dal governo di Torino alla compagnia finanziaria privata Bastogi,
torinese, che le aveva subappaltate vantaggiosamente e clandestinamente,
sostituendosi al governo nell'approvare un contratto con destinatari diversi da
quelli indicati dal ministero. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord,
con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Il politico e
industriale livornese Pietro Bastogi, amico del Cavour, era stato l'ispiratore
della manovra che gli aveva fruttato un grossissimo margine. Costretto a
dimettersi, fu "premiato" col titolo di conte da Vittorio Emanuele II
e continuò la sua attività di guida dei grandi banchieri settentrionali,
rendendosi abile tessitore anche nella descritta speculazione edilizia di
Napoli, Roma, Milano e altre città. Le ferrovie meridionali restarono al palo:
sparirono i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adriatico e,
per spostare le merci, furono unite verticalmente a quelle settentrionali che
nel frattempo si svilupparono intensamente con la regia di un'altra guida delle
banche del Nord, un altro amico di Cavour, quel Carlo Bombrini per cui il
Mezzogiorno non avrebbe dovuto più essere in grado d'intraprendere. Fu lui,
comproprietario dell'Ansaldo, a coordinare le famigerate banche nel finanziamento
delle imprese settentrionali. Una di queste, il Credito Mobiliare di Torino,
finanziò il piemontese Francesco Cirio nell'ascesa della sua industria
conserviera, cui fu concesso un contratto agevolato dalle Società Ferrovie Alta
Italia per la spedizione all'estero di migliaia di vagoni di alimenti. Cirio
rastrellò pelati e prodotti della terra nelle zone agricole del Napoletano, del
Casertano e del Salernitano ed ebbe piena disponibilità della rete ferroviaria
a costi irrisori e contro ogni norma di concorrenza leale, divenendo un caso
discusso ripetutamente in varie sedute di un'altra specifica Commissione
parlamentare d'inchiesta del 1878 sull'esercizio delle ferrovie. Bastogi e
Bombrini, questi erano gli amici di Cavour che inaugurarono le fortune imprenditoriali
del Nord; e non c'è da stupirsi delle parole che Vittorio Emanuele II pronunciò
al plenipotenziario inglese Augustus Paget:
«Ci sono due modi per governare gli italiani: con le
baionette o con la corruzione.»
Usò le une e l'altra il "re galantuomo" che, alla
sua morte, lasciò debiti personali per quaranta milioni di lire (circa
quarantacinque milioni di euro di oggi) e molti scheletri nell'armadio. Con
questi ed altri scandali, al sorgere dell'Unità, fu inaugurata l'esecrabile
commistione tra finanza e politica. Così è nata l'Italia delle tangenti; come
poteva diventare un Paese diverso?
Napoli, intanto, iniziava a collassare, colpita dal costo
della vita triplicato, in un Mezzogiorno che, producendo un reddito pari al 22%
di quello complessivo italiano, versava il 36% del relativo gettito tributario.
Nel 1898 si registrarono tumulti per il caro vita, cartina di tornasole di una
ex capitale che veniva messa in ginocchio dalle politiche del Regno d'Italia e
che iniziava a registrare il fenomeno sconosciuto e progressivo
dell'emigrazione. Nel dicembre dell'anno seguente, il settimanale socialista La
Propaganda denunciò la corruzione e il clientelismo dell'amministrazione
cittadina nell'ambito degli interminabili lavori del Risanamento. Fu istituita
la già citata Commissione Saredo, che fece luce sugli intrecci tra
amministrazione locale e "alta camorra", mettendo a nudo il
disinteresse dei governi di Torino, Firenze e Roma per la città e per il Sud
nei primi quarant'anni di Unità.
La speculazione edilizia e la cattiva amministrazione
inghiottirono alcune anticipatrici proposte urbanistiche di straordinario
valore, su tutte quelle di Lamont Young (fig.16), architetto eclettico e
urbanista napoletano di origini scozzesi, talmente fervido da partorire
progetti innovativi e pionieristici mai realizzati. Lui sì che idealizzò un
vero abbellimento della città, sfruttandone le potenzialità e non i suoli. Già
nel 1872, presentò i disegni della metropolitana di Napoli che prevedevano la
costruzione di una strada ferrata sotterranea, con strutture sopraelevate in
alcuni tratti, di connessione tra Bagnoli, Posillipo, Vomero, San Ferdinando e
Capodimonte. Di cultura fortemente progressista, stimolò uno sviluppo
sostenibile del turismo e propose i disegni del "Rione Venezia", un
nuovo quartiere che da Santa Lucia, lungo la costa di Posillipo avrebbe dovuto
collegare Napoli con i Campi Flegrei attraverso un canale navigabile con
battelli, sfociando a Bagnoli in un quartiere residenziale a scarsa densità
abitativa fornito di stabilimenti balneari e termali, alberghi, un giardino
zoologico, giardini, zone terrazzate, ville degradanti verso il mare, negozi e
un palazzo di cristallo con un lago e delle isolette. Le sue intuizioni
avrebbero modificato il corso della storia urbanistico turistica di Napoli, ma
tutti i suoi progetti, a parte quelli di alcuni noti edifici cittadini,
rimasero su carta. Entrò in un violento contrasto con la Banca Tiberina di
Torino, che avviò la realizzazione delle funicolari di Chiaia e di Montesanto,
in conflitto con i prospetti dell'urbanista, e gli espropriò nel 1886 un suolo
di proprietà tra i tanti confiscati per costruire la stazione di via Cimarosa.
Per l'atteggiamento contrario all'affarismo che poco apportava alla città,
Young fu completamente boicottato dall'imprenditoria operante, che poco stimava
e che gli diede amare delusioni, conducendolo al disperato suicidio, seppur a
vecchiaia sopraggiunta, nella sua Villa Ebe alle rampe di Pizzofalcone. I
progetti della ferrovia Cumana, del passante ferroviario tra Gianturco e
Pozzuoli e delle successive gallerie cittadine verso la zona flegrea sarebbero
stati ispirati alla sua "utopia"; a Bagnoli, il cui nome indica i
trascorsi turistico termali, sarebbero poi sorte a inizio Novecento le acciaierie
che avrebbero annullato e deturpato una grande risorsa turistica del
territorio.