La fattura a Napoli da secoli è un rituale d’amore/morte, che costituisce uno degli aspetti più affascinanti dell’esoterismo partenopeo.
Essa va distinta in buona e cattiva.
La prima, molto più diffusa, discende direttamente dai filtri d’amore medioevali, viene adoperata per destare l’interesse di una persona amata, che non corrisponde al sentimento.
Le custodi di queste antiche formule sono tutte donne, come donne sono la gran parte delle richiedenti.
Per operare il rituale sono necessari: una ciocca di capelli (oggi sostituita da una semplice fotografia) un pezzo di vestito usato di recente che conservi “l’addore” (l’essenza olfattiva della vittima) ed il sangue mestruale della richiedente.
Poi è necessario far ingurgitare la rivoltante mistura al soggetto interessato e per facilitare questa delicata operazione era indispensabile la collaborazione di una donna di casa, in genere una serva, che convincesse il malcapitato a bere la pozione, spacciandola per un farmaco miracoloso: «tu nun staje buono, pigliate stà medicina, è fetente ma te fa bene».
Appena bevuta, il predestinato avvertiva una strana sensazione di malessere e scopriva all’improvviso l’amore per una fanciulla sino ad allora ignorata o rifiutata.
Se in famiglia qualcuno sospettava della fascinazione cercava un’altra fattucchiera per “tagliare” la prima operazione.
Queste fattucchiere erano denominate “buone” e si tramandavano il segreto da nonna a nipote, alle quali si rivelavano le nozioni segrete durante la notte “d’o chiumme ‘e San Giovanne” (la notte di San Giovanni, quando si squagliava il piombo per gettarlo nell’acqua e si prevedeva il decorso del prossimo anno dalla forma che assumeva l’elemento).
Diverso è il discorso riguardante la “fattura cattiva”, che dal malocchio giungeva sino alla morte dell’individuo destinatario della fattura.
Vi erano stadi intermedi come: rottura di arti, ferite laceranti, paralisi diffuse.
Per queste fatture intermedie si adoperava un limone dalla forma insolita, mentre per indurre la morte era necessaria una sorta di accumulatore in grado di raccogliere le forze del male ed alla ciocca di capelli o a un indumento della vittima si miscelava il sangue di un gallo nero o talune volte di un innocente bambino, che veniva ritenuto il tramite migliore per eccitare le forze demoniache.
La parte più segreta del rito, derivata da quelli in onore di Iside, consisteva nel caricare l’accumulatore di forze mefitiche e di potenzialità negative, le quali agivano in contemporanea sul limone, che lentamente appassiva, assumendo una consistenza lignea, mentre la vittima cominciava ad avvertire i terribili sintomi previsti dalla fattura.
Per rendere più efficace il maleficio si adoperava un’immagine antropomorfa di cera sulla quale si infilzavano sottili spilloni, che inducevano di riflesso atroci dolori nella vittima, fino alla definitiva liquefazione della bambola che veniva gettata nel fuoco, provocando la morte del soggetto.
Solo la fattucchiera che aveva preparato la formula mortale poteva annullare il maleficio ed a volte la si riusciva a convincere, pagando grosse somme di denaro.
Possiamo constatare che nelle fatture “buone” nel rituale sono presenti sempre 4 elementi fondamentali: terra, acqua, fuoco ed aria, mentre la presenza di vittime viventi, siano animali o uomini, dà luogo ad un rito mortale.
Le vecchie fattucchiere sono state oggi degnamente sostituite dalle zingare ed una di queste mi ha rivelato dei segreti resi noti per la prima volta.
Come levare il malocchio
La notte di Natale (il 24 dicembre) c’è una preghiera che la madre dice alla figlia. Prendi un piatto con l’acqua e fai cadere un goccio d’olio. Il malocchio ti è stato lanciato nei modi e dalle persone segnalate come indicato da come scende e si forma la goccia, alla fine lo butti nel water.
Da noi me l’ha insegnato mio padre: Lecchi le sopracciglia: se sono salate hai il malocchio. Lecchi e sputi e dici la preghiera per tre volte e fai il segno della croce. Per gli adulti invece si leva con la candela: squagli la candela in un pentolino, prendi un piatto d’acqua e ci squagli la cera e pensi al malocchio, esce la forma che ti dice tutto, la prendi, la risciogli, finché la forma diventa bianca.
Noi zingari pensiamo che te lo fanno le donne incinte quando hanno una voglia e non la possono soddisfare. Una donna incinta qualsiasi può levartelo strusciando la maglia con il tessuto interno per tre volte. Si usa anche la fede: la riscaldi, la passi sull’occhio per tre volte.
Non possiamo concludere il capitolo senza un cenno alla figura del “sicciaro”, termine adoperato per indicare una figura che porta sfortuna e che ha avuto una magistrale trasposizione cinematografica da parte di Totò nell’episodio dall’afrore pirandelliano della “Patente”. Questi individui vestono sempre di nero il colore del liquido spruzzato dalla seppia, il quale è alla base di un gustoso piatto della tradizione marinare partenopea: “’e linguine c’’o niro ‘e seccia”. E non appena avvistati dal popolino sono oggetto di scongiuri e toccamenti vari, dal ferro alle corna, ma il vero napoletano utilizzerà un qualcosa che mai lo abbandona e crederà di salvarsi strofinandosi energicamente i genitali, memoria ancestrale dei riti priapici e poderosi contenitori di seme vitale.
A Napoli il pesce, oltre a contenere importanti principi vitali (fino agli omega 3, oggi tanto di moda), è il termine con cui si indica anche l’organo sessuale maschile ed è un simbolo del mare da cui per secoli è dipesa la possibilità di mangiare, per la popolazione.
Il dito e il corno |
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