12/10/2010
La napoletanità nella storia dell’arte
Raffigurata infinite volte dal pennello virtuoso degli artisti piazza del Plebiscito, la più grande di Napoli è tra le più belle del mondo ed oggi tra le più famose, dopo che ha fatto da passerella ai potenti della Terra in quella memorabile riunione dei «G7» di alcuni anni or sono, dalla quale l’immagine della nostra città ha tanto guadagnato. L’antico spazio, in passato chiamato Largo di Palazzo, è il risultato di uno sviluppo armonico e graduato nel tempo, scandito dal succedersi di grandi eventi e dalla presenza di tanti illustri personaggi che hanno fatto la nostra storia nel bene e nel male.
Essa nasce con l’origine della città, nello stesso spazio ove sorgevano le mura della greca Palepoli e quelle del romano Castro Luculliano, vecchie fortificazioni scomparse tra il XIII ed il XIV secolo per fare posto a monasteri e chiese.
Nel 1503 all’inizio del dominio vicereale spagnolo nacque la necessità di una reggia, per cui, per volontà di don Pedro da Toledo, fu costruito quel grande edificio, denominato Palazzo Vecchio, ai bordi del quale trovò posto un favoloso giardino reale nel quale largheggiavano piante rare, magnificenze più varie e persino animali feroci in stato di libertà, i quali vissero indisturbati per decenni fino a quando furono allontanati dal viceré don Giovanni d’Austria, dopo che un leone aveva divorato un paggio particolarmente “caro” al suo padrone.
Nel 1600, prevedendosi un lungo soggiorno in città di Filippo III re di Spagna, il viceré conte di Lemos pensò di far erigere una nuova reggia per meglio ospitarlo. Fu chiamato l’architetto Domenico Fontana, la cui opera fu completata e migliorata nel secolo successivo da Luigi Vanvitelli.
Re Filippo III per un disguido non fu a Napoli ed il palazzo per ospitare un re dovette attendere il 1734 con la salita al trono di Carlo di Borbone.
La piazza visse il suo periodo aureo nel Seicento e nel Settecento per le memorabili feste chi vi si svolsero, spesso allietate dalle famigerate «cuccagne», che permettevano alla plebe il saccheggio di cibi di ogni genere. Memorabili e sfarzose furono quelle per festeggiare la nascita del figliolo di Filippo IV con giostra e gran sarabanda di torri o quella in occasione dell’arrivo a Napoli delle acque del Serino, quando fu creato uno zampillo artificiale alto oltre trenta metri, che irrorò per giorni e notti il popolo accorso in gran copia.
A lungo nel Seicento ha troneggiato sulla piazza un’enorme statua mutila delle gambe e delle braccia, che gli furono sostituite con membra posticcie, la quale ribattezzata Gigante di Palazzo divenne presto l’equivalente napoletano del Pasquino di Roma e del Gobbo di Rialto di Venezia. Alle sue estremità, nonostante l’assidua sorveglianza, i napoletani affiggevano lazzi e satire di ogni sorta tra cui ne ricordiamo una che rendeva pubblica una manfrina del viceré, duca di Medinaceli, che possedeva per amante una splendida artista di teatro di nome Giorgina:
Se n’è ghiuto lo mbroglione
è benuto lo cuglione
che se tene la Giorgina
e nun pensa alla farina.
La piazza che fino al 1817 si chiamò Largo di Palazzo fu ampliata durante il decennio francese da Murat, che fece abbattere i vari conventi che soffocavano lo spazio, perché sognava la realizzazione di un grande anfiteatro naturale con le gradinate ricavate nella collina di Pizzofalcone. Fu così edificato un grande colonnato semicircolare che fu battezzato Foro Murat.
La caduta del suo breve regime pose fine al suo faraonico progetto, ma l’ampio colonnato non rimase inutilizzato perché Ferdinando IV di Borbone ritornato a Napoli dall’esilio e desideroso di sciogliere un voto di ringraziamento: volle erigere un tempio rigorosamente neoclassico, intitolato a San Francesco di Paola, memore di una vecchia profezia e sfruttò il preesistente colonnato semicircolare per fargli assumere una dimensione più maestosa e regale.
L’idea ispiratrice fu il Pantheon, il tempio degli dei, un modello più vicino alla politica che all’architettura, un tangibile simbolo del potere religioso che rinforza la monarchia ritornata in auge dopo la ventata napoleonica e ne restaura l’immagine nell’adempimento di un voto che è ad un tempo un’autocelebrazione.
La piazza ebbe un nuovo periodo di fulgore tra il 1890 ed i primi decenni del Novecento quando due caffè dirimpettai: il Gambrinus ed il Turco con le loro orchestrine all’aperto richiamavano i napoletani desiderosi di divertirsi e di trascorrere serenamente all’aperto le serate primaverili ed estive.
Alle spalle di piazza del Plebiscito nell’Ottocento il riempimento della zona verso il mare ha dato luogo ad una serie di eleganti edifici, molto ambiti dalla buona borghesia napoletana, che fanno da corona a via Santa Lucia, a lungo sede del Palazzo della Regione e dove si affacciano due piccole ma significative chiesette: Santa Maria della Catena eretta nel 1576, che conserva le spoglie del glorioso (ma non facciamoci sentire dai neo borbonici) ammiraglio Francesco Caracciolo e Santa Lucia a Mare, alla quale sono devotissimi gli abitanti del sovrastante Pallonetto.
Sotto lo sguardo protettivo del poderoso muraglione di contenimento di Pizzofalcone, si entra in via Chiatamone, che prende il nome sin dall’antichità dal greco Plantomon, indicante una roccia scavata da numerose grotte. Queste erano frequentate da pescatori e contrabbandieri e furono spesso teatro di efferati episodi di sangue e di violenza, tanto da indurre le autorità del tempo a murarne gli ingressi. In epoca pre cristiana vi si svolgevano raffinati riti orgiastici con spreco di giovani vergini, che rispettavano precisi cerimoniali, in contrapposizioni a quelli più “a buon mercato” che avevano luogo nella grotta di Piedigrotta, dai quali derivò la celebre festa popolare. Negli anni Cinquanta la festa che durava sette giorni e culminava nella notte tra il sette e l’otto settembre, era dedicata alla canzone napoletana, come una sorta di festival, con sfilate di carri allegorici, fuochi di artificio ed altre manifestazioni di tripudio popolare, come i famosi coppoloni sulle teste di poveri malcapitati e la “mano morta” sulle prosperosità femminili, che per alcuni giorni, duranti i grandi assembramenti di folla, erano, se non la regola di comportamento, la consuetudine più osservata non solo dalla plebe, ma anche dalla migliore borghesia napoletana.
Molto famosa la vecchia fonte di acqua ferrata situata all’inizio della strada, venduta per secoli nelle caratteristiche «mummarelle» fino agli anni Cinquanta, allorquando la costruzione di un grande albergo ha fatto sprofondare le vene della sorgente, privando i napoletani di quelle salutari acque dall’effetto taumaturgico. La strada era tra le più eleganti già nel Settecento e tra i personaggi che vi abitarono ricordiamo la pittrice Kauffmann, Dumas padre e l’erudito Bartolomeo Capasso.
Alla fine del Chiatamone via Morelli è l’indiscusso tempio degli antiquari e sceglierne qualcuno tra i tanti è impresa quanto mai improba.
La passeggiata per via Morelli, che sfocia in piazza dei Martiri è per molti napoletani un rito da compiere nel rispetto di alcune regole fondamentali, tra cui la serenità d’animo è la conditio sine qua non, soltanto allora, quando riusciamo a liberarci delle ansie quotidiane e dalle preoccupazioni che ci affliggono costantemente, possiamo godere veramente della bellezza dei luoghi e camminando lento pede, grazie alla vista delle cose belle esposte nelle vetrine librarci in un mondo ideale governato dalla perfezione e dalla bellezza.
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