domenica 1 aprile 2012

La lezione di Mattia Preti e di Luca Giordano

30/8/2010

Mattia Preti nasce nel 1613 in un piccolo paesino montuoso della Calabria e da lì percorrerà le tappe culturali più significative della penisola, irradiando per decenni il suo linguaggio pittorico in Italia ed in Europa e divenendo protagonista dei più importanti rivolgimenti artistici. La sua è una famiglia agiata «di padre e madre honorati e che non hanno mai esercitato arti meccaniche», la madre Innocenza Schipani apparteneva ad una delle quattordici famiglie nobili della città.
Non possediamo una documentazione esauriente sulla sua iniziale formazione culturale; il racconto del De Dominici, il cui padre fu allievo del pittore, è infatti l’unico punto di riferimento e ci fornisce le coordinate principali.
Nella nativa Taverna il giovane Preti poteva osservare unicamente gli esempi di tardo manierismo esplicati dalle opere dell’Azzolino, del Balducci e del Santafede, per cui verso il 1630, appena diciassettenne, per progredire, si recò a Roma, ove da due anni era attivo suo fratello Gregorio, anche egli pittore. Probabile una sosta a Napoli, tappa obbligata del viaggio, durante la quale potrebbe aver avuto un primo contatto col luminismo caravaggesco ed il classicismo bolognese.
Nella città eterna non ebbe un vero e proprio maestro, per cui cominciò a frequentare le chiese e ad osservare le opere più importanti, cercando di imparare da sé. In questo comportamento possiamo già percepire la sua somiglianza all’artista moderno e da taluni suoi primi lavori, che tradiscono l’impaccio nella costruzione spaziale delle immagini, capiamo anche il tributo che egli dovette pagare alla sua inesperienza.
Il suo punto di riferimento preferenziale fu il Caravaggio con le grandi tele di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo dallo spiccato luminismo, che arricchirà progressivamente la sua parlata ancora acerba.
Negli anni dal ’30 al ’40 forte fu l’influsso dei caravaggisti nordici specialmente francesi quali Valentin, Tournier, Douffet, operanti intorno a Bartolomeo Manfredi e seguaci della sua «manfrediana methodus», uno stile di retroguardia oramai non più in linea con le nuove esperienze figurative.
Questi artisti possedevano formule consolidate tratte dal repertorio caravaggesco che riproponevano con poche varianti. Son questi gli anni in cui il Preti realizzerà una serie di tele, alcune in collaborazione col fratello Gregorio, che hanno come soggetto i Giocatori o il Concerto. Molto bella quella del museo Thyssen Bornemisza a Madrid, alla quale bisogna associare il suo pendant Partita a carte, passato ad un’asta Semenzato nel 1989; mentre lo splendido Concerto di collezione privata napoletana è di qualche anno successivo, come ben si evince dalla più alta qualità.
Il suo primo cimento in questo genere di rappresentazioni fu senza dubbio la Riunione di musici e letterati conservato a Torino presso l’Accademia Albertina, che il Longhi entusiasticamente intitolò Tasso alla corte di Ferrara, dando luogo ad una chiave di lettura romantica della successiva produzione pretiana.
In seguito i suoi riferimenti culturali vanno ampliandosi e prendono ispirazione dall’ambiente emiliano dai Carracci al Domenichino, dal Lanfranco al Guercino attraverso la cui «macchia» il Preti elabora un originale luminismo. Lentamente nel suo stile penetra la monumentalità del Lanfranco cui egli imprime dinamicità e la severa classicità del Domenichino, da cui trae il decoro delle sue composizioni più solenni; mentre dal Guercino della fase più antica ottiene i rigorosi effetti di luce della sua pittura caravaggesca.
Ma la sua ansia di arricchimento e di assimilazione non gli dà tregua ed ecco una nuova fonte alla quale attingere: il colorismo neo veneto nelle calde e luminose soluzioni cromatiche di Sacchi, Mola, Testa e Poussin, del quale la critica non ha ancora scandagliato a fondo l’influenza, testimoniata anche dall’adozione, sempre più frequente, di tematiche mitologiche. Dalla cultura veneta e dal Veronese in particolare il Preti trarrà poi spunti di carattere compositivo nelle grandi scene conviviali.
Il suo stile eclettico, «plastico luminoso», secondo la felice definizione di Mariella Utili, curatrice della grande mostra napoletana sul Preti, si costruirà sulla luce, l’elemento più caratterizzante del suo linguaggio, una luce che coordina i volumi e lascia affiorare le masse, unificando in una sublime armonia l’alternanza con l’ombra, sotto la regia di una vasta e corposa gamma cromatica.
Naturalmente la sua carriera progredisce a piccoli passi: nel ’33 è iscritto con Gregorio quale praticante nella Congregazione di San Luca. Nel ’40 affrancatosi dal fratello, mette bottega da solo con un assistente, Bartolomeo Dardovini. Comincia anche la sua caccia a riconoscimenti nobiliari ed il suo «cursus honorum» comincia nel ’42 quando, grazie all’interessamento di Olimpia Aldobrandini, il pittore viene nominato cavaliere di Obbedienza dell’ordine Gerosolimitano. Nel 1645 il Preti abita ed ha studio in piazza di Spagna, nel ’50 viene accolto tra i «virtuosi» del Pantheon, nel ’59 ottiene il cavalierato di Grazia ed infine, nel 1661, viene nominato, per intercessione di Alessandro VII Chigi, cavaliere di Giustizia dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, titolo che precede di poco il suo definitivo trasferimento nella «piccola isola dalla grande storia».
La biografia del De Dominici ci fornisce l’idea di un pittore errante che per accrescere il suo patrimonio culturale è in viaggio non solo per l’Italia, ma anche nelle Fiandre ed in Spagna. Allo stato degli studi molte tappe non sono documentate anche se oltre Roma e Napoli, con certezza il Preti è stato a Firenze, Modena e quasi certamente a Venezia.
A Roma l’artista si dedica anche all’affresco lavorando in Sant’Andrea della Valle tra l’ottobre del 1650 e l’aprile del 1651, terminando l’opera incompiuta del Lanfranco e nella chiesa barnabita di San Carlo ai Catinari, dove è attivo nel 1652, data conosciuta grazie ad un documento reperito dal De Vito, che sposta di molto l’esecuzione di quest’opera che prima la critica collocava ai primi anni Quaranta.
Tra l’ottobre del 1651 e la primavera successiva, in soli sei mesi, porta a termine altre due grosse imprese decorative a Modena. Affresca infatti la cupola ed il coro della chiesa del Carmine, oggi San Biagio e la Cappella delle Reliquie nel Duomo, opera della quale, purtroppo, non resta più nulla dopo i restauri ottocenteschi.
In questi affreschi il Preti, oramai maturo artisticamente, manifestò appieno il suo linguaggio pittorico, espresso in un formulario personale, che rappresentò la summa delle sue conoscenze, tutte assimilate e rielaborate in maniera originale. Egli si espresse con una propensione al monumentale, pur senza tradire i cromosomi della sua formazione luministica.
Nelle decorazioni modenesi esplicito è il riferimento al Lanfranco, mentre nelle opere romane è il punto di congiunzione Domenichino Pietro da Cortona a dominare l’attenzione del pittore.
Il Preti è un artista affermato, la sua formula nata dal felice connubio tra naturalismo, classicimo e neo venetismo ha dato luogo al «suo inconfondibile barocco corposo e tonante, veristico ed apocalittico» come fu giudicato con enfasi dal Longhi in una frase famosa, breve ma esaustiva, entusiastica quanto veritiera e definitiva.
Preti nel 1653 è ancora a Roma dove si candida, senza essere eletto, alla carica di principe dell’Accademia di San Luca, il «Senato» dei pittori. La delusione per la mancata nomina fu probabilmente la molla che lo indusse a trasferirsi a Napoli, ma non dovette essere senza peso la considerazione del vuoto che aveva lasciato la scomparsa del Ribera, fino ad allora mattatore nelle committenze pubbliche e private.
Napoli rappresentava una città molto ambita per gli artisti ed il Preti si servì nei primi tempi dell’aiuto della comunità calabrese presente in città, raccolta attorno alla chiesa di San Domenico Soriano, ove sono documentati i suoi primi lavori.
A lungo la critica ha creduto, seguendo il racconto del De Dominici, che il Preti fosse giunto a Napoli nel 1656, durante la peste e vi avesse dimorato per soli quattro anni, per quanto intensissimi. Era difficile pertanto, non possedendo l’artista una bottega con validi aiuti, riuscire a giustificare il numero sempre crescente di dipinti che per caratteri stilistici andavano collocati all’ombra del Vesuvio, fino a quando Clifton e Spike hanno rinvenuto numerosi documenti bancari attestanti la presenza in città del Preti già dal marzo 1653.
Gli anni trascorsi a Napoli rappresentano l’età d’oro per l’arte pretiana, che trasforma la sua tavolozza, dando risalto a taluni colori come il nero cupo, l’azzurro splendente, i riflessi argentei, i grigi bronzei, i toni lividi, cianotici dell’incarnato, creando uno stile originalissimo improntato ad una rigorosa severità di impianto. Una ventata barocca, che giunge in ritardo sugli eventi romani e che innesta un fecondo scambio linguistico con l’astro nascente, all’epoca giovanissimo, Luca Giordano.
A Napoli giunge a maturazione quel legame preferenziale che Preti ha sempre nutrito nei riguardi del luminismo, rivisitato attraverso il filtro guercinesco «giocato su un contrapporsi di zone d’ombra e luce con intenti pittorici e di grande effetto compositivo, ben lontano non solo dallo sperimentalismo ottico di Caravaggio, ma estraneo anche alla cultura della manfrediana methodus» (Utili).
Il Preti privilegia l’uso di gradazioni cromatiche scure folgorate da improvvisi bagliori di luce. Le sue composizioni respirano aria pura, coniugando felicemente impianti lanfranchiani e larghezze veronesiane e restituendoci una «luce più calda ed avvolgente, un senso più vero di spazi dilatati e concreti, entro cui si dispongono salde immagini di florida bellezza» (Spinosa).
I primi lavori napoletani sono un San Nicola di Bari per la chiesa di San Domenico Soriano ove nel 1655 realizzerà gli affreschi per la cupola, oggi perduti, ed il famoso San Sebastiano ordinato dalle monache dell’omonimo convento e da queste rifiutato con sdegno per le «tinte troppo scure» e per le «fisionomie ignobili».
Un destino simile avevano subito a Napoli alcune opere del Caravaggio, rifiutate dai committenti per il loro crudo realismo; fortuna ha voluto che la tela di Preti sia rimasta in città, trasferita dalle monache alla chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori ed oggi a Capodimonte.
Nel 1656 la peste imperversava ed in breve tempo la popolazione fu più che dimezzata. Scompare un’intera generazione di pittori: Cavallino, Guarino, Falcone, Fracanzano, mentre da poco era uscito di scena il Ribera. Ogni giorno migliaia di vittime e solo verso la fine di agosto, dopo una serie di piogge torrenziali si torna lentamente a rivivere. Finito il morbo vi è un moltiplicarsi di rendimenti di grazia e di ex voto; i pochi artisti sopravvissuti sono sommersi dalla committenza.
Gli Schipani, parenti calabresi del Preti, gli richiedono una pala d’altare, la Madonna di Costantinopoli per la loro cappella nella chiesa di Sant’Agostino degli Scalzi. È una delle rare opere firmate e datate (1656), per la quale il pittore non richiede alcun compenso e ci fornisce un pacato esempio di sacra conversazione, un accorato colloquio tra i Santi e la Vergine.
E siamo quindi alla grande commissione sulla quale tanto aveva favoleggiato il De Dominici, intessendola di particolari leggendarî. Il manifesto programmatico del nuovo corso della pittura napoletana.
Il 27 novembre 1656 gli Eletti della città gli conferiscono l’incarico di affrescare le sette porte più importanti con delle immagini di ringraziamento rappresentanti l’Immacolata Concezione ed i Santi protettori.
Nel 1657 vengono eseguiti quelli di Porta San Gennaro, del Carmine e dello Spirito Santo e l’anno successivo si completano le altre quattro porte: Capuana, Nolana, di Costantinopoli e di Chiaia.
Le opere del Preti riscossero un grande entusiasmo e rappresentarono un modo nuovo di fare storia in presa diretta, suscitando grande emozione nella cittadinanza, per la «dinamica spazialità e l’imponenza plastica delle figure e costituirono il manifesto della concezione compositiva barocca a Napoli» (Utili). Esse divennero un’importante fonte ispirativa per il poco più che ventenne Giordano, il quale nel 1660 ritornò sullo stesso tema per la grande tela della chiesa di Santa Maria del pianto.
Già ai tempi del De Dominici gli affreschi si erano rovinati ed in pochi anni scomparvero del tutto.
Solo grazie alla tenacia e caparbietà della Sovrintendenza ai Beni Artistici si è riusciti a recuperare parzialmente ed a restituire alla vista della cittadinanza l’affresco di Porta San Gennaro, che giaceva da secoli sotto una coltre di sudiciume.
Unica testimonianza di tale impresa pittorica erano rimasti i due bozzetti preparatorî conservati al museo di Capodimonte, riferentisi alla Porta del Carmine con il carretto per prelevare gli appestati ed alla Porta dello Spirito Santo, con il nudo della madre morta col figlio al seno in primo piano, prelievo letterale dalla celebre Peste di Azoth di Poussin; un brano di estrema drammaticità e di grande enfasi lirica che sarà replicato da tanti altri artisti, dal Gargiulo al Giordano e che sembra precorrere il celebre Délacroix del Massacro di Scio.
L’altra memorabile impresa decorativa furono le 10 grandi tele per adornare il soffitto della navata e del transetto della chiesa di San Pietro a Majella, una delle più alte realizzazioni della pittura europea del Seicento.
Le tele narrano la storia di San Pietro Celestino salito al soglio papale e da questo, caso unico nella storia, dimessosi e la vita e la morte di Santa Caterina d’Alessandria.
Lo splendido soffitto realizzato in due anni fu inaugurato il 18 maggio 1659 e riscosse un successo senza paragoni. Lo stesso antagonista, Luca Giordano, ebbe ad esclamare «ch’essi sarebbero stati per l’avvenire la scuola della radiosa gioventù». Nel 1913 il nostro più grande critico d’arte di tutti i tempi Roberto Longhi asseriva entusiasta «gli scomparti di San Pietro a Majella diventeranno, speriamo presto, qualcosa di più delle “Stanze” di Raffaello per lo spirito dei migliori». Se questo augurio non si è ancora realizzato la colpa è anche di noi napoletani, che non apprezziamo e valorizziamo i nostri tesori.
L’armonica visione prospettica dell’intera composizione, la novità iconografica che il Preti, da profondo teologo, seppe affrontare con autorevolezza, e «la luce come unico ed essenziale elemento di trasfigurazione e di sintesi lirica» suggellarono l’impresa del Preti con «quegli accenti universali, che faranno di lui uno dei genî del secolo» (Causa).
Nonostante l’impegno di tali cicli decorativi, l’artista, con l’ausilio dei due suoi aiutanti, Domenico Viola e Giuseppe Trombatore, si getta a capofitto ad esaudire commissioni pubbliche e private. Nel ’57 dipinge due tele per i francescani di San Lorenzo Maggiore, ma sono soprattutto i privati a richiedere la sua opera. Dal ricchissimo mercante Roomer riceve due pagamenti nel 1655, mentre per il Van den Eynden realizza una serie di martirî in cui predominano le tonalità fredde e le tinte fosche dal lividore esasperato, purtroppo oggi dispersa nei musei stranieri di Birmingham, Houston e Manchester. Per il duca di Maddaloni Diomede Carafa esegue 5 tele, riunite, dopo secoli, di nuovo assieme nella grande mostra di Capodimonte. 
Sicuramente ascrivibile al periodo napoletano è anche la grande tela della Resurrezione di Lazzaro del museo Barberini nella quale la figura seminuda del resuscitato, dai toni cianotici, esaltati da un sapiente uso del chiaroscuro, domina tutta la scena, incutendo un timore reverenziale ai saggi che lo esaminano inebetiti.
Altre due splendide e meno conosciute tele napoletane, rappresentanti le Fatiche di Ercole, sono conservate in Calabria dalla Pinacoteca Nazionale.
L’Ercole che libera Teseo richiama i grandi nudi dei pestilenti nei celebri bozzetti, trasfusi in un luminismo monocromatico di bollenti metalli sdruccioli nel modellato dei lacerti, mentre nell’Ercole che libera Prometeo il tenebrismo nel passaggio tra luce ed ombra è ancora più accentuato nella tensione drammatica di tutti i muscoli che evidenzia una tempra pittorica degna del migliore Zurbaran.
Celeberrimi sono i due conviti di Capodimonte (di Assalonne e di Baldassarre) dalla grande raffinatezza cromatica, nei quali si respira la cultura veneta veronesiana nello schema compositivo delle tele. Il Rolfs parlò di «un assassinio alla napoletana in un banchetto alla Veronese»; oggi la critica più avvertita da Spike a Ferrari li assegna per affinità stilistiche al primo periodo maltese tra gli anni ’67 - 68.
E giungiamo al 1660, quando sulla piazza napoletana la competitività coll’emergente Giordano giunge al culmine. Il Preti comincia a nutrire dubbi, «davanti ai quadroni grondanti luce, oro, vibrazione atmosferica, esultante vitalità» del suo rivale. Lui che precorreva di secoli la storia della pittura teme di essere antiquato. «Il passato contro il futuro. Il nero della notte contro l’oro della calura meridiana; l’introspezione sofferta e meditata contro l’estemporaneità estrosa e provocatoria. Due mondi inconciliabili, anche se destinati, inevitabilmente ad entrare in una collusione che può anche apparire al segno di reciproche interferenze marginali. Meglio partire. Lo aspettava Malta, una carriera onorata, una escalation sicura nei gradi nobiliari dell’Ordine, un lavoro tranquillo, con tanti assistenti, aiutanti, ammiratori, ed il primato assoluto, e di conseguenza prestigio e commissioni innumerevoli da ogni parte d’Italia e d’Europa» (Causa).
Prima di recarsi a Malta una breve sosta a Valmontone, vicino Roma, tra il 1660 ed il 1661, dove affresca alcune allegorie nel palazzo Pamphily.
Quindi nel mese di settembre il Preti ottiene il titolo di Cavaliere di Giustizia e propone di dipingere senza compenso l’immensa volta e l’abside della Cocattedrale di La Valletta. Un’impresa decorativa titanica incentrata sulla storia della vita di San Giovanni Battista dipinta, grazie ad una caratteristica della pietra maltese, direttamente ad olio. Cinque anni di duro lavoro e nel 1666 l’opera è terminata, con la sua sterminata cultura prodigata in una decorazione che ha pochi paragoni nella pittura del Seicento europeo.
Da Malta per quarant’anni spedisce senza sosta opere in Italia ed in Europa, il talento lo accompagna ancora, ma è il «mestiere» che lo sorregge nei momenti di pausa ispirativa, in cui spesso si rifarà a sue precedenti composizioni di successo, facendo di sé stesso modello.
Nel 1672 ritorna a Taverna per la morte del fratello Gregorio e sarà probabilmente il suo solo ritorno sul continente, perché l’esame attento dei documenti esclude altri viaggi che dovevano sottostare a speciali autorizzazioni.
La mano degli allievi si fa sempre più presente nelle sue opere nelle quali è arduo districare le parti autografe. Unica bussola sono talune caratteristiche peculiari assunte dal suo linguaggio espressivo, come le ombreggiature verdazzurre ed alcuni toni rossicci dell’incarnato facilmente riconoscibili.
Alcuni capolavori da lui realizzati a Malta sono l’immensa Santa Caterina della parrocchiale di Casal Zurrico e la Madonna e Santi della Cappella Verdala a Rabat dai colori schiariti che richiamano il fondo del mare.
Poche le opere documentate da lui inviate sulla terraferma: nel 1674 una pala d’altare per il Duomo di Siena ed a Napoli nel 1684 una Adorazione dei Pastori per la chiesa di Monteverginella ed una Vergine con Simone Stock per il Carmine Maggiore.
Lentamente la gamma cromatica prima così ricca si riduce a pochi colori ed aumenta sempre più il ricorso alla bottega. «Solitudine, malinconia, nostalgia, nel dorato esilio dell’Isola dei Cavalieri che ormai sostituiva la pompa liturgica ai fasti avventurosi delle scorrerie e delle guerre di fede» (Causa). Il 13 gennaio 1699 ad ottantasei anni il Preti si spegne dopo tanto aver dato ad un secolo pur ricco di fermenti e di espressioni figurative.
«Magnum picturae decus» recita il sintetico epitaffio posto sulla sua tomba nella chiesa de La Valletta a Malta ed in questa breve frase è racchiusa la sua sterminata produzione, risultato di un intelligente processo di assimilazione ed elaborazione di culture diverse, sfociato in un linguaggio pittorico originale, al passo con i tempi e con l’avvicendarsi dei gusti e delle mode.
Un pensiero di ringraziamento agli autori che dal Longhi nei primi anni del secolo hanno dedicato il loro studio a farci conoscere un artista così grande e complesso, ed attivo in realtà così lontane non solo geograficamente.
Un grazie perciò al De Dominici ed al Frangipane, al Mitidieri ed alla Recife Taschetta, a Causa ed a Spinosa, a Spike, autore di una completa e tanto attesa monografia ed a Mariella Utili, regista e regina della grande mostra a Capodimonte.
Parlando del Preti si deve ricordare la figura di Francesco Manzini, attivo tra la seconda metà del secolo XVII ed il primo quarto del successivo e morto nel 1733; ricordato dal De Dominici come abile copista del Cavaliere calabrese.
Egli è allievo di Giacomo Farelli e nella sua produzione sono state identificate alcune tele firmate e datate.
Nel museo civico di Castelnuovo è esposta una grande pala rappresentante la Decollazione di San Paolo, copia dell’omonima opera del Preti conservata a Houston, nella quale il Manzini si esprime con una tale abilità che anche il Causa fu tratto in inganno e ritenne il dipinto autografo. Solo il restauro del quadro, che evidenziò la firma dell’autore, valse a ristabilire la verità.

Luca Giordano nacque a Napoli il 18 ottobre 1634, da Antonio, anche egli pittore, pur se modesto, definito dal De Dominici «scolaro di niun grido del Ribera che altro mai non fece che copiare alcuni santi dipinti dal maestro»; il biografo ci riferisce inoltre che Luca dall’età di otto anni frequentò la bottega del Valenzano per lo spazio di nove anni a perfezionarsi nel disegno. Questa notizia, anche se il De Dominici non conosceva l’esatta data di nascita del Giordano, trova conferma negli scritti di altri biografi, tra cui il Sandrat che ne parla nel 1683.
Il suo talento fu precocissimo tanto da permettergli di terminare a soli otto anni due putti, affrescati dal padre, in Santa Maria la Nova.
Negli anni trascorsi nella bottega del Ribera, che si stava liberando della sua fase più cupa e tenebrosa per avviarsi verso un più limpido cromatismo, Luca ripercorse tutte le principali tappe toccate dalla pittura napoletana del tempo, riesaminando con spirito moderno le motivazioni che avevano giustificato il graduale trapasso dal naturalismo al pittoricismo.
Dal grande maestro il Giordano seppe trarre l’impronta pittorica, quella sua capacità di spingere l’espressione dell’immagine fino ai limiti più arditi e questa severa lezione costituirà un imprinting culturale che comparirà più volte nel corso della sua carriera, come la punta di un insopprimibile iceberg che perennemente incombe maestoso.
Dopo il discepolato con il Ribera, Luca trascorse tre anni a Roma, ove fecondante fu l’incontro con gli esiti di Pietro da Cortona, che in quegli anni lavorava a palazzo Pamphily. Nella città eterna si dedicò allo studio delle «opere di Raffaello, di Michelagnolo, di Polidoro de’ Carracci», e disegnò «più e più volte le logge e le stanze di Raffaello e ben dodici volte l’intera battaglia di Costantino dipinta dall’eccellente Giulio Romano ed altrettante la Galleria Farnese» (De Dominici).
È questo il periodo in cui il Giordano acquisisce quei soprannomi che lo accompagneranno per tutta la vita: Proteo della pittura ed il ben più famoso Luca fa presto. Il padre infatti istigava il ragazzo a realizzare senza sosta dei disegni dei monumenti romani, da rivendere con buon profitto ai forestieri.
Il ragazzo, in preda ad una frenetica capacità creativa, «inventò la maniera di tingere la carta con la polvere che cadeva dalla matita rossa lasciando il colore della carta per mezzo tinta e lumeggiandola col lapis bianco, con pochi facili e maestrevoli scuri e in tal guisa in poche ore terminava i disegni» (Vitzhum).
È il momento in cui comincia anche la sua irrefrenata attività di copista e di realizzatore di quadri alla maniera di, che gli valsero la fama di portentoso falsificatore che in parte era la conseguenza della sua innata libertà di intendere la ricerca pittorica al genuino fuoco della sua prestigiosa e prodiga fantasia.
Con le sue esercitazioni… riuscì ad ingannare anche uno scaltro collezionista come Gaspare Roomer, che però, intuita la precoce genialità dell’artista, preferì perdonarlo. Famigerata una sua tela la Discesa dalla croce di S. Andrea dell’Alte Pinakothek di Monaco, che porta la firma falsificata «Josepe de Ribera Espanol F. 1644», uno dei casi più emblematici e nello stesso tempo di ragguardevole fattura, nella lunga serie di quadri in cui il Giordano replica la maniera altrui.
Eclettico e imprevedibile, Giordano spinse più di una volta il suo virtuosismo oltre i limiti del lecito, dando luogo a più di una querelle, di cui si fece portavoce un suo rivale, il Di Castro, che, mosso da invidia, nel 1664 scrisse a Messina a don Antonio Ruffo, uno dei collezionisti più importanti di pittura napoletana dell’epoca, per metterlo in guardia, anche se nella stessa lettera ribadiva che in quel periodo l’unica novità che fosse presente sul mercato era costituita da quei quadri «alla Tiziano ed alla Ribera», che venivano sfornati dal fertile pennello del Giordano, il quale a sua volta affrontava con grande spregiudicatezza l’argomento, se, nel redigere nel 1688 un’importante inventario, non aveva timore ad indicare alcuni quadri con la qualifica «mano di Luca Giordano alla maniera dello Spagnoletto».
Quindi, «non contento di ciò che vedeva» a Roma «del famoso Correggio, di Tiziano, di Paolo Veronese, del Tintoretto e di altri gran pittori della scuola lombarda», proseguì i suoi viaggi di istruzione recandosi a Parma, Venezia e Firenze.
Egli volle attingere personalmente alle fonti primigenie dell’arte consultando i testi là dove erano stati prodotti, percorrendo a ritroso quello che fu lo svolgimento artistico in Italia dal Cinquecento al Seicento. E così, dopo l’incontro con i classici del Rinascimento e della Maniera a Roma, il contatto con il Rubens nella sua dilagante fantasmagoria di colori e di gioia al quale renderà un esplicito omaggio con il celebre Pintando, oggi al Prado, l’ultima tappa fu l’abbeverarsi alla sorgente del cromatismo, radice di ogni novità della moderna pittura da Correggio a Tiziano, dai Bassano al Veronese.
Egli volle gareggiare in una sfida ideale con i grandi maestri del passato e suggere instancabile al potente calice del fermento cromatico: libero ed indifferente alla forma, il suo stile, al contatto con esempi così preclari, diviene aereo e luminescente, affrancandosi dal fardello della ingombrante materia e librandosi lieve e soave nei campi riverberanti della più pura vibrazione.
È la fine ed il superamento dell’arcaico concetto di bottega, o di scuola locale che fonde e ricongiunge in una patria sublime l’intero mondo ideale dell’arte, archetipo verso cui tendono i suoi sforzi, nell’emulazione e nel superamento della lezione di tutti i grandi maestri.
I suoi riferimenti culturali non sono soltanto gli italiani, ma, oltre al Rubens, il Dürer e Luca di Leida, il Greco ed il Velázquez.
Sono anni di studio e di lavoro «matto e disperatissimo» che lo liberano definitivamente dalle strettoie della scuola napoletana, per la quale un mondo di immagini tenebrose e violente, nel quale aveva vissuto per un secolo, si chiudeva per sempre, per aprirsi, eterea ed abbagliante, l’epoca del barocco, che Luca saprà trasfondere in un’atmosfera magica d’oro puro e di polvere iridata che durerà per circa dieci anni fino al 1663. «Un fiume immenso di colore e di luce sommerge gli spazi; è il sogno in cui sfocia il Barocco, invadere di vibrazione e di vita ogni piano, ogni riposo della forma» (Ortolani).
Tornato a Napoli, dal 1654 possiamo seguire adeguatamente il suo cammino artistico grazie alle firme ed alle date con le quali il pittore è uso corredare le sue opere ed attraverso una messe veramente notevole di documenti, che gli antichi banchi napoletani hanno generosamente sfornato su di lui.
In pochi anni un fiume impetuoso di tele e pale d’altare adornerà chiese e collezioni private. Non esiste luogo di culto a Napoli che non possegga una sua opera: da San Pietro ad Aram a Santa Maria del pianto, da San Giuseppe dei Ruffi a Santa Teresa a Chiaia, da San Domenico Maggiore al Gesù Nuovo, da Sant’Agostino degli Scalzi ai Gerolamini, dall’Ascensione a Chiaia a San Nicola a Nilo, da San Gregorio Armeno a Santa Brigida, dal Purgatorio ad Arco al Duomo, dai Santi Apostoli a Donna Regina, da S. Maria dei Miracoli a S. Maria della Sanità, dalla chiesetta di San Giuseppe a Pontecorvo alla Solitaria, a tante altre ancora e, naturalmente, al tempio della pittura napoletana, la Certosa di San Martino. La sua pennellata divenne frenetica, la fantasia senza limiti, l’operosità inesausta; una pittura dove colore e luce acquistavano una nuova dimensione eroica con un irrefrenabile moltiplicarsi delle immagini «è insomma il trionfo, in pittura, di una nuova cristianità controriformata, ricca e potente, che affrontava nella certezza del messaggio terreno, oltre che di quello celeste, il cammino dei secoli a venire, non immaginando, certo, quanto buia, tortuosa e contrastata, si sarebbe presentata, di lì a poco, la realtà che si profilava all’orizzonte» (Causa).
Il suo primo lavoro documentato nel 1654 è costituito dai quadri del coro in San Pietro ad Aram. Nel 1655 la pala di San Nicola di Bari nella chiesa di Santa Brigida dall’invenzione tutta barocca. Nel 1656 all’infuriare della peste sappiamo da una lettera che il pittore si rifugia a Roma dove copia i disegni di Luca Cambiaso, quindi del 1657 è il San Michele dell’Ascensione a Chiaia e la Madonna del Rosario della chiesa della Solitaria, oggi a Capodimonte. Nel 1658 seguono l’Elemosina di San Tommaso di Villanova e l’Estasi di Sant’Agostino a Sant’Agostino degli Scalzi, nel 1660 la Madonna col Padreterno a San Giuseppe a Pontecorvo e quindi nel 1661, un prelievo da Pietro da Cortona, l’Estasi di Sant’Alessandro al Purgatorio ad Arco.
Naturalmente le opere citate sono una piccola miscellanea della produzione del Giordano, che chiude il periodo «dorato» nel 1663, al quale farà seguito un nuovo processo di sedimentazione e d’assimilazione, soprattutto dei modi pittorici cortoneschi, dai quali mutuerà valori cromatici e schemi compositivi ed in alcuni casi veri e propri prelievi fisionomici dai grandi cicli di palazzo Pamphily e palazzo Pitti.
Durante gli anni in cui il Preti è presente a Napoli, dal 1653 al 1660, vi è un fecondo scambio reciproco tra i due artisti, catalizzante per entrambi, che sostanzialmente si chiude in pareggio.
In particolare il Preti dal Giordano recepì, filtrati, gli straordinari esempi di grandiosità compositiva derivati dal Veronese, mentre Luca, dal più anziano maestro, oltre ad una rimeditazione sulla lezione del Lanfranco, colse la convinzione che il gran libro ideale della storia dell’arte fosse un territorio libero, dal quale trarre materiali per sempre nuove esperienze.
Partito per Malta il Preti, il giovane artista si sentì investito da solo di una grande missione: lo svecchiamento della cultura figurativa locale e l’apertura di sempre nuovi orizzonti.
Il barocco oramai trionfava ed il Giordano poteva «dar libero corso alle ragioni del cuore più che della mente, a dar ascolto alle voci varie e mutevoli dell’infinito Universo e a tradurre in fantasie colorate le intense emozioni procurate dall’inarrestabile spettacolo di luci, forme e colori in cui realtà naturale e soprannaturale si manifestava al suo animo irrequieto e sognante» (Spinosa).
La sua pittura con successivi colpi d’ala giunge rapidamente ai più alti livelli qualitativi. Egli è cosciente della varietà dei suoi registri espressivi e della vastità dei suoi mezzi pittorici, animati da un esaltato empito fantastico, che gli permette di esprimersi con le note di una variegata tastiera cromatica in uno spazio illimitato, come ben mise in risalto Roberto Longhi che parlava di «una visione dove la trama inventiva e l’ordine dell’immaginazione si accordano in un continuum di mondo in abbozzo, in effetti quasi senza fine».
Scomparso il Preti, il lungo intervallo tra il 1660 ed il 1675 vede a Napoli l’attività del Giordano come unica espressione artistica di rilievo, con l’artista che dilaga nel suo impegno frenetico a soddisfare le numerose committenze pubbliche e private e mentre il modesto Giacomo Di Castro scriveva, come abbiamo visto, lettere velenose a don Antonio Ruffo, l’avversario più quotato del Giordano, Francesco Di Maria, lanciava la sua famosa invettiva, definendo il rivale come «la scuola ereticale, che faceva traviare dal dritto sentiero con la dannata libertà di coscienza: e ciò diceva in riguardo alla vaghezza del colorito».
Era la ricomparsa dell’antica querelle tra disegno e colore, tra cultura e fantasia, nella quale Luca aveva ben chiaramente espresso la sua opinione.
Nel 1665, dopo una tappa a Firenze ove lavorò per i Medici e per altri mecenati toscani, il pittore si reca a Venezia e licenzia una serie di importanti pale d’altare, che a lungo gli storici avevano collocato cronologicamente in un periodo precedente, intorno al 1654, nonostante la precisione delle fonti letterarie venete. Tra queste realizzazioni ricordiamo la Deposizione della croce, oggi nelle Gallerie dell’Accademia, e la Madonna con Bambino e Santi pervenuta poi a Brera.
A Venezia si trova anche la famosa cona Assunzione della Vergine, nella chiesa della Salute, datata 1667, ma inviata da Napoli.
Il rapporto economico che lo legò per alcuni anni a Venezia, oltre a procurargli nuovi facoltosi committenti come il marchese Fonseca, fu fecondo e stimolante per il contatto con opere di artisti attivi nella città lagunare, come Bernardo Strozzi e Johann Liss; nello stesso tempo la sua arte influenzò in maniera determinante l’attività di artisti veneti ed anche toscani, quali Giovan Battista Langetti e Antonio Zanchi, fino allo stesso Sebastiano Ricci. È la prima volta che un nostro pittore influenza consistentemente lo sviluppo della cultura artistica in alcune delle grandi capitali dell’arte seicentesca, cosa non riuscita in precedenza nè a Battistello Caracciolo, nè a Massimo Stanzione, che, pur soggiornando a lungo in varie città italiane, non ebbero seguaci.
I committenti del Giordano diventano sempre più importanti e la sua maniera si sviluppa in confini sempre più ampi. A Napoli il cardinale Innico Caracciolo gli fa eseguire una lunga serie di figure di santi per la navata ed il transetto del Duomo.
Il marchese Del Carpio gli commissiona un gruppo di grandi tele e lo nominerà in anni successivi coordinatore dei festeggiamenti per il Corpus Domini, che vedranno il Giordano collaborare con i massimi specialisti di natura morta napoletani in alcuni spettacolari teloni, oggi sparpagliati per i quattro angoli della terra, dall’Australia agli Stati Uniti.
Richiestissimo dall’aristocrazia genovese, Costantino Balbi gli acquistò le tre drammatiche tele, soffuse di epos e pathos, raffiguranti Perseo che combatte Fineo e i suoi compagni, oggi alla National Gallery di Londra, La regina Jezabel divorata dai cani in collezione Ambrosio a Napoli ed il Ratto delle sabine, ancora a Genova nella raccolta Cattaneo Adorno.
Anche a Bergamo, per la chiesa di Santa Maria maggiore, vollero una sua testimonianza e Luca li accontentò, inviando l’immensa tela Passaggio del mar Rosso; non potè accogliere l’invito di eseguire in loco decorazioni, ma mandò a tal uopo il suo fedele seguace Nicola Malinconico.
Dopo oltre venti anni di instancabile attività dopo aver realizzato migliaia di tele, Giordano, come colto da folgorazione ispirativa, ritenne che l’affresco costituisse il suo naturale campo di espressione, con le sue vaste superfici, ove il brillante fuoco d’artificio della sua fantasia potesse estrinsecarsi in maniera più libera ed esaustiva ed è in questo campo che in maniera più marcata possiamo cogliere i segni dei suoi principali referenti culturali dal Lanfranco a Pietro da Cortona fino ai principali protagonisti del neovenetismo romano.
Egli giunge a questa forma espressiva nella sua piena maturità e, senza tralasciare la pittura da cavalletto, instancabilmente produrrà chilometri e chilometri quadrati di volte e pareti, come partecipe di un sacro furore creativo, esaltato da una sovraumana vena ispirativa ed avendo come unica preoccupazione quella di «liberare in un processo rapidissimo la rappresentazione dal peso della materia, dalla sua grave essenza realistica ed innazzarla nei campi della più libera epifania e della pura vibrazione luminosa» (Causa).
I principali complessi decorativi ai quali pose mano sono: gli affreschi di Montecassino del 1677, ove ritornò a lavorare nel 1691, purtroppo oggi non più visibili, perché distrutti dal criminale bombardamento che subì l’Abbazia durante la seconda guerra mondiale; nel 1678 esegue la cupola di Santa Brigida; il grandioso ciclo di storie di San Gregorio Armeno per la chiesa omonima si conclude nel 1684; quindi nel 1682 esegue la cupola della Cappella Corsini a Firenze e dal 1682 al 1685 la spettacolare decorazione della biblioteca e della galleria di palazzo Medici Riccardi, sempre a Firenze, capolavoro della sua maturità che «segna un ulteriore sviluppo del suo stile e della sua invenzione narrativa» (Ferrari); del 1684 è la grandiosa controfacciata nella chiesa dei Gerolamini rappresentante Gesù che caccia i mercanti dal tempio. Una tale oceanica superficie decorativa fu possibile, non solo grazie alla sua leggendaria velocità di esecuzione ed alla sua assoluta padronanza del mestiere, ma anche grazie alla compartecipazione di una quantità di allievi che non ebbe uguali.
Il problema delle ampie collaborazioni nelle opere giordanesche è delicato argomento che la critica ha esaminato più volte sotto varie angolazioni. È impresa ardua infatti riconoscere una o più mani nelle tele autografe, ancor più nei vasti cicli decorativi. Oggi, e torneremo sul tema più avanti a proposito dei giordaneschi, riusciamo a discernere alcuni allievi più famosi, a lungo sommersi nella sterminata produzione di Luca e presto, agli occhi più smaliziati, sarà possibile distinguere il pennello di un collaboratore nel rifinire dettagli, più o meno secondari, in un’opera sicuramente attribuibile al Giordano.
Un’altra questione, poco più che un pettegolezzo, è relativa alla favola che il pittore fosse molto legato al denaro ed a seconda della cifra pattuita si impegnasse in proporzione. Quest’ultima diceria è in parte veritiera e la conferma la si può avere con una attenta lettura dei numerosi documenti di pagamento, confrontandoli con la qualità dei relativi lavori. Si può così notare che spesso, a piccoli pagamenti corrispondono opere modeste ed a cospicue elargizioni, dei capolavori!
Nel 1692 il Giordano è al culmine della fama ed il suo nome ha risonanza internazionale: è tempo che per il magistero della sua arte vi sia una cattedra più adeguata, dalla quale possa far sentire con più forza la sua voce per l’Europa e quale sede migliore che Madrid, all’epoca capitale di un impero dove non tramontava mai il sole. Il re Carlo II chiama il pittore a corte e gli assegna le prime committenze, rimanendo impressionato dai risultati della sua sovraumana attività. Per un decennio fino al 1692 «egli è pronto a sbramare con la sua pittura feconda la meraviglia che gli si volge, ansiosa di miracoli, come a un mostro prodigioso» (Ortolani).
Il pittore sessantenne non conosce pause ed esegue superfici sterminate di affreschi e migliaia di tele; solo il Prado infatti ne possiede, in gran parte esposte, più di cento.
La prima impresa è l’Escalera grande dell’Escorial, seguono gli affreschi della chiesa di San Lorenzo, l’immensa volta del Casón al Buen Retiro, la Sagrestia della Cattedrale di Toledo, lavori per la Cappella dell’Alcázar di Madrid, poi andata distrutta, la decorazione della chiesa della Madonna di Atòca, pure distrutta, gli affreschi di Sant’Antonio de Los Portugueses, il Camerin di Guadalupe ed un infinità di altre committenze pubbliche e private.
Il Giordano è ora a suo agio, liberatosi dall’angusta arena napoletana, può irradiare il suo messaggio di un nuovo corso della pittura moderna, imprimendo il cammino di un incalzante processo di aggiornamento formale che giungerà fino a Goya ed agli impressionisti.
La sua miracolosa attività potè contare su di uno stuolo di collaboratori nelle grandi imprese decorative, che superò il numero di cento nei lavori dell’Escorial ed alla Cattedrale di Toledo e ciò gli rese possibile materialmente l’estrinsecarsi della sua fantasia senza freni che lo collocò in una «area culturale ed ideale di sicura ampiezza europea» (Spinosa).
In Spagna spesso i collezionisti richiedevano al Giordano di replicare le sue composizioni che avevano incontrato fama e successo come la Morte di Seneca e la Sacra Famiglia con i simboli della Passione.Il pittore operò in queste numerose repliche autografe una decantazione in senso puristico della sua maniera ed a volte utilizzò un colorismo più contenuto e denso di effetti luministici. Egli era al corrente delle novità che il Solimena stava introducendo nell’ambiente figurativo napoletano, ma non appena ritornò in patria, riconquistò immediatamente l’attenzione generale.
Luca decise di lasciare la Spagna nel febbraio del 1702, dopo la morte di Carlo II, fece tappa a Livorno e quindi appena giunto dilagò come un’immensa iridescente marea, soddisfacendo committenti ecclesiastici e laici e tra questi il nuovo viceré.
Realizzò le grandiose tele, soffuse di empito drammatico, come Storie di Santa Maria Egiziaca per la chiesa omonima a Forcella, quindi il Martirio di San Gennaro per la chiesa dello Spirito Santo dei napoletani a Roma, i grossi teloni per Santa Maria Donna Regina Nuova, che si contrapposero agli affreschi che Solimena vi aveva dipinto circa venti anni prima, l’Incontro di San Carlo Borromeo con San Filippo Neri, nella chiesa dei Gerolamini, mentre le decorazioni della sacrestia di Santa Brigida furono soltanto iniziate e proseguite, sulla guida dei suoi bozzetti, dagli allievi dopo la sua morte.
La ciliegina finale della sua interminabile carriera è costituita dall’affresco nella cappella del Tesoro della Certosa di San Martino, nel quale, rappresentando il Trionfo di Giuditta, evocò il variopinto mondo immaginativo delle decorazioni di palazzo Medici Riccardi a Firenze.
In questa festa della luce e della vita, in questo inno gioioso alla creatività ed alla libertà, il Giordano ci elargisce «la più luminosa e dorata delle sue aeree fantasie, in cui il sogno di levità, di delizia, di rapita eleganza del secolo nuovo s’esprime come in una delicata spuma di veli. Ora il colore è tutto luce, vibrante, aperta, e le forme sono quasi per sciogliervisi, rette appena dal suo palpito.Ora le strutture compositive, le masse d’ogni parte sfogano e si spalancano. In questo rapimento oblioso e felice ogni forma si scorpora, si spersonalizza e come un tenero miele del sole invisibile tutto scorre e bagna» (Ortolani).
«La sua radiosa visione di un mondo infinito e continuo, rilevato dal fluire inarrestabile di una luminosità chiara e dorata e dalla brillante successione di materie cromatiche dai toni delicati e lievi come quelli di teneri pastelli, fu il più appassionato invito del maestro ultra settantenne alle generazioni degli artisti a venire perché salvaguardassero sempre le ragioni dell’arte e della libera fantasia creatrice dai limiti e dalle necessità contingenti del reale e del quotidiano» (Spinosa).
I contemporanei rimasero soggiogati da questa esplosione finale del maestro che costituisce il suggello conclusivo del secolo d’oro della pittura napoletana, ma pur sopraffatti da tanto ardimento, non seppero coglierne appieno le indicazioni ed i significati più pregnanti, che solo nei decenni successivi, variata la sensibilità artistica, furono capiti nel pieno della loro magistrale precognizione, inaugurando, già in pieno Settecento, la stagione del Ricci e del Tiepolo, del Giaquinto e del Fragonard.
Il giudizio critico sull’opera di Luca Giordano ha attraversato varie fasi, da una fama strepitosa e senza riserve presso i contemporanei, che lo idolatrarono e ne decretarono un successo non più eguagliato da nessun pittore napoletano, alla reazione negativa che, cominciata durante la vita dell’artista, da parte della fazione accademizzante facente capo al Di Maria, si acuì per il ritorno in auge delle memorie dell’arte classica, le quali, osteggiando la confusionaria, ridondante e pacchiana moda barocca, diedero luogo ad un ostracismo totale, che si concluse soltanto alla fine dell’Ottocento.
La nuova maniera introdotta dal Giordano nel Viceregno, permise alle arti figurative di aprirsi alla luce, al colore, alla gioia, dopo un lungo cinquantennio di cupo tenebrismo di ortodossa ascendenza caravaggesca.
Un chiaro segnale della variazione di gusto nell’arco di pochi decenni è dato dal parere del conte Shaftesbury, il quale da giovane, intorno al 1686 - 89, considera il Giordano, assieme a Carlo Maratta, il più famoso pittore italiano, per cambiare in seguito radicalmente opinione nel 1712 quando, abitando nella nostra città, egli parla di Luca come di «un pittore plebeo, non soltanto perché dipinge la plebe meglio di qualsiasi altro soggetto, ma anche perché trova egli stesso il suo posto migliore nella massa, nella confusione e nella varietà delle tinte e delle figure stravaganti».
In quegli anni gli studiosi avevano infatti maturato una critica negativa dell’arte barocca, che dal Bellori si trascinerà fino al giudizio espresso da Benedetto Croce.
Il più antico documento critico sull’opera di Luca Giordano è ritenuta la lettera che Giacomo Di Castro indirizzò nel 1664 al famoso collezionista messinese don Antonio Ruffo, nella quale egli si limitò a sottolineare la straordinaria capacità dell’artista a falsificare la maniera altrui: «contraffacendo ora Tiziano ora Paolo Veronese».
Dieci anni dopo torna sull’argomento Marco Boschini, ritenuto dal Longhi «il più grande tra i critici del Seicento», il quale raffigura il Giordano abile «a sugger le poppe delle pitture veneziane nelle scuole di Paolo e di Tiziano», ma gli riconosce un linguaggio pittorico già inequivocabilmente moderno.
Il Palomino, i cui scritti tradotti in inglese nel 1739 ed in francese nel 1749, contribuirono a diffondere in tutta Europa la fama del nostro pittore, ebbe espressioni di viva ammirazione per l’opera di Luca, accompagnate da osservazioni denotanti un giudizio molto sottile, il tutto sull’onda del clamoroso e crescente successo incontrato dal Giordano in Spagna a partire dal 1692.
Un altro biografo che si interessò al Giordano fu il Baldinucci junior, il quale si servì, nell’emettere il suo parere, di una scheda fornita a suo padre dallo stesso artista nel 1690 e di appunti inviatigli da Bernardo De Dominici: due manoscritti «Notizie della vita dello eccellentissimo pittore Luca Giordano napoletano» e «Notizie della vita del cavalier D. Luca Giordano», due quadernetti oggi conservati nel fondo Baldinucci della Biblioteca Nazionale di Firenze.
Il biografo fiorentino non fu avaro di giudizi e frasi lusinghiere «geniale e bizzarra maniera... correttissimo disegno... colorito maraviglioso... veloce e maestrevole mano».
Il De Dominici, sommo biografo delle arti figurative partenopee, scrive le sue «Vite» vari decenni dopo aver fornito le sue informazioni al Baldinucci, sottolineando l’inattualità della fase riberesca del Giordano, del quale apprezza complessivamente l’opera, pur essendo mutato il suo gusto, che ora è molto attratto dallo stile del Solimena, col quale crea una sorta di equilibrio critico.
La fase di giudizio negativo sull’opera giordanesca dura oltre un secolo e sfumerà solo nel tardo Ottocento, quando tutta l’arte barocca subisce un’ampia e duratura rivalutazione da parte degli studiosi che cominciano a rivedere Luca, con il Rubens e Pietro da Cortona, come il campione indiscusso del virtuosismo e dell’esaltazione dei valori cromatici.
I giudizi positivi più importanti furono quelli del Posse, che curò l’ampia voce riguardante l’artista sul prestigioso Thieme Bekers e del Longhi, che tornò più volte sull’artista stimolando ulteriori studi e ricerche.
Già all’inizio del secolo la critica aveva cominiciato a superare le vecchie remore verso il Barocco, sviluppando una nuova sensibilità di completa rivalutazione delle arti figurative napoletane.
Il segnale del cambiamento nel giudizio degli studiosi lo si coglie nell’opera del Mayer, che nel 1908 discerne, con acuto rigore filologico, le opere riberesche di Luca dagli autografi del valenzano e nella monografia del Rolfs sulla pittura napoletana che, nel 1910, dà al Giordano il giusto posto di rilievo nel panorama artistico della seconda metà del secolo XVII.
L’esaustiva monografia su Luca Giordano a cura del Ferrari e dello Scavizzi, nelle due edizioni pubblicate nel 1966 e nel 1992, ha contribuito ad accrescere notevolmente la mole di documentazioni sull’artista, mentre la consacrazione mondiale della sua opera è stata suggellata dalla gigantesca mostra itinerante che la  benemerita Sovrintendenza napoletana ha organizzato nel 2001 e che ha fatto tappa nelle capitali dell'arte di tutto il mondo.

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