domenica 24 novembre 2013

I napoletani perdonano Vittorio Sgarbi

Dipinti di Cavallini

Qualche anno fa Sgarbi in un suo libro: L’Italia delle meraviglie fece una stupenda cavalcata attraverso le bellezze artistiche italiane, avendo come bussola la sua non indifferente cultura, ma anche una sfrenata fantasia.
Infatti scrisse su villa Fersen imprecisioni macroscopiche, descrivendo la celebre dimora caprese del barone teutonico dai gusti particolari, come un cumulo di macerie con al centro del salone una voragine senza fondo.
Fortunatamente ero tra il pubblico alla presentazione del libro in un lussuoso albergo di via Veneto a Roma e lo colsi in fallo, chiedendogli se la famosa scala che porta al piano superiore era rimasta intatta. Egli non seppe rispondere, arrossì, dimostrando che nella villa non entrava da decenni o forse, più probabile, non vi era mai entrato.
Premetto, per chi non lo sapesse, che il corrimano delle suddette scale, ogni 20 centimetri, presenta un fallo di varie fogge e dimensioni, sul quale il barone si appoggiava nella salita e che la villa era stata completamente restaurata dal Comune, come ebbi modo di constatare di persona anni fa in occasione di una “mostra di foto di Van Gloden” altro gay dell’epoca.
Informai in Sindaco dello “svarione di Sgarbi” (entrambi gli articoli tra virgolette sono consultabili sul mio sito www.achilledellaragione.it), il quale andò su tutte le furie, asserendo che voleva chiedere un risarcimento, ma nello stesso tempo temeva di inimicarsi un personaggio importante ed iracondo.
Decisi allora, a titolo personale, da strenuo difensore dei beni artistici meridionali, di informare la stampa con una lettera ai giornali, che venne pubblicata dai principali quotidiani del paese.
Dopo questo preambolo dobbiamo dire che l’eclettico Vittorio nel suo libro “Il tesoro di Italia” si è fatto perdonare, perché ha descritto magistralmente i dipinti di Cavallini nella chiesa di Santa Maria Donnaregina vecchia ed una scultura raffigurante Sigilgaida, conservata a Ravello. Diamogli la parola.
Del grande pittore romano Pietro Cavallini, come di Giotto, abbiamo testimonianza anche a Napoli. E anzi, uno dei rari documenti essenziali per la sua biografia è conservato all’Archivio nazionale di Napoli ed è pertinente alla sua attività. Infatti, Carlo II d’Angiò il 10 Giugno 1308 accredita un pagamento annuo di quaranta once d’oro a Cavallini, «de Roma pictor». La sua statura artistica, come abbiamo visto, è stata diminuita dal pregiudizio vasariano che vuole l’arte moderna nata a Firenze. Così Vasari considera Cavallini discepolo di Giotto. Queste fonti o pseudo fonti contrastano con l’evidenza. Imponente, infatti, è l’opera di Cavallini, manifesto il suo superamento della tradizione bizantina attraverso l’esaltazione di elementi classici. Non con spirito archeologico, ma come viva ispirazione di una nuova humanitas in coerenza con Arnolfo di Cambio e i Cosmati. L’impegnativa opera di modernizzazione delle chiese romane – a San Paolo, a santa Maria in Trastevere e a Santa Cecilia e anche a San Pietro e a San Francesco a Ripa – si interrompe nel 1305 con l’esilio avignonese dei papi. Ed ecco allora cominciare la stagione napoletana di Cavallini, chiamato per chiara fama da Carlo d’Angiò. 
In uno dei principali monumenti angioini, Santa Maria Donnaregina, ricostruita per volontà di Maria d’Ungheria a partire dal 1307, Cavallini con la sua scuola dipinge sulla controfacciata il Giudizio universale e gli Apostoli e i Profeti nella parte alta del presbiterio. In questa imponente impresa, egli fu certamente regista, appassionato e appassionante insegnante di giovani allievi che ne trasferirono il magistero anche nel Duomo di Napoli (Cappella degli Illustrissimi), in Sant’Antoniello e ancora a Ravello e ad Amalfi. Quella che Pietro cavallini impagina nel coro delle monache è, infatti, una parete insieme didattica e didascalica: racconta storie, ma insegna anche come esse debbano vivere nello spazio e contribuire alla definizione dell’architettura secondo uno schema strutturale che pochi anni prima Giotto aveva esemplificato nella Cappella degli Scrovegni, a partire dal basamento in finto marmo con le Virtù e i Vizi. Architettura dipinta. In diverso modo, anche la scansione delle storie di Donnaregina è architettura, è uno spaccato narrativo come se ci fosse consentito di vedere dall’esterno gli ambienti interni di un’architettura razionalista. Cavallini imposta la griglia, lo schema compositivo entro il quale si esercitano gli allievi. Da Roma Cavallini porta a Napoli quello che Giotto da Padova porta a Firenze.

Sigilgaida Rufolo
 
 - Emblema d’Italia
Qui non è questione d’arte medievale in Meridione. Sigilgaida, come Uta, è una delle donne più fascinose di tutti i tempi, in uno dei luoghi più belli del mondo: Ravello. Se dovessimo riconoscere l’emblema dell’Italia rappresentato in un’opera d’arte, forse dovremmo scegliere lei, la regale Sigilgaida. Ma sarà proprio lei? Di una Sigilgaida abbiamo notizia nel 1179 per aver donato con il marito Sergio Muscettola il portale centrale, a formelle bronzee, di Barisano da Trani per il Duomo di Ravello. Ma la Sigilgaida che abbiamo davanti è più giovane, oltre a essere sempre giovane, e meglio si accorda con l’ambone del Vangelo nello stesso Duomo opera di Niccolò di Bartolomeo da Foggia, circa cento anni dopo. E’ difficile dirla di un secolo piuttosto che di un altro. Verrebbe da immaginarla un’opera federiciana esempio di protorinascimento. Ma la sua compiutezza la fa pienamente rinascimentale con la ieraticità di un idolo bizantino e la perfezione di un busto neoclassico. Insomma, Sigilgaida è di tutti i tempi, ne sentiamo il corpo caldo sotto la leggera veste di lino con la decorazione di un ricamo sbalzato intorno al collo e sull’abbottonatura. I lunghi orecchini a strascico, d’oro e di pietre preziose (la scultura era policroma), scendono sulle spalle. Sulla testa una corona d’oro, e mirabile, l’acconciatura dei capelli arricciati e ordinatamente pettinati. Chiunque sia, Sigilgaida è regina. Domina. Soltanto Federico II potrebbe starle al fianco. Intanto domina il Museo di Ravello, conservando intatto tutto il suo mistero. E’ Sigilgaida Rufolo, moglie di Nicola, gentiluomo di corte di Carlo d’Angiò? E’ un’allegoria della Chiesa? O è una personificazione della città di Ravello, in forma di Fortuna? Nessuno scultore di quel tempo, neanche tra i più grandi, non Nicola né Giovanni Pisano e neanche Marco Romano Tino di Camaino, ci ha lasciato un’immagine così viva e vera di una donna di potere che esprime un’analoga e autentica vitalità. Un carattere forte. Come, se da un momento all’altro, dovesse parlare, lusingarci o rimproverarci. Niccolò di Bartolomeo, se ne è l’autore, ha con lei concepito un archetipo che, sul versante dell’espressione del potere, compete con Ilaria del Carretto; co la Dama del Mazzolino di Andrea Verrocchio, con la Paolina Borghese di Antonio Canova. Espressioni tutte di un eterno femminino che la pietra rende resistente al tempo. Se si sggiunge che, nella scultura federiciana, l’artista non vuole perdere la fedeltà fisiognomica, possiamo dire di essere di fronte a una persona anche, nel controllato, severo distacco. In realtà Sigilgaida è perduta, regina nella nostra mente di un regno senza confini. Possiamo immaginarla a casa sua, nello spazio infinito di Castel del Monte. Ma va bene anche qui, a Ravello, poco lontano da villa Rufolo, rapita dalla musica di Wagner.

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