venerdì 29 novembre 2013

Dalla confindustria ai cavalieri del lavoro

Antonio D’Amato


Antonio D’Amato, nato a Napoli nel 1957 guida un gruppo leader in Europa nel settore dell'imballaggio per alimenti (il suo prodotto più popolare sono i bicchieri di cartone con cui al bar viene servita la Coca Cola), quartier generale ad Arzano. Nel 2000 divenne presidente della Confindustria (non gradito a Cgil e Ds) battendo il candidato Fiat Carlo Callieri. Elezione vista come una svolta a destra dell'associazione che si andava posizionando sull'arrivo di Silvio Berlusconi (vincitore delle elezioni l'anno successivo). 
Si sgolò in favore dell'innovazione di «processo e di prodotto» e per una politica di liberalizzazioni e maggiore flessibilità del lavoro. Nel 2004 l'elezione al suo posto di Luca Cordero di Montezemolo ne sancì la sconfitta.
«Sono cresciuto in azienda, sotto gli occhi di mio padre. Lui aveva cominciato dal nulla. Proveniva da una famiglia della media borghesia, ma era rimasto orfano quando aveva appena sei mesi, nel 1930. La famiglia aveva vissuto di quello che aveva fino alla guerra, dove poi perse tutto. Papà cominciò a lavorare che aveva appena 15 o 16 anni. Fece molti mestieri finché non provò a vendere bicchieri di carta fabbricati da una piccola azienda napoletana. Era un prodotto nuovo su un mercato che si apriva e fu la chiave di volta del suo successo» 
«Sono e resto liberale. Lo ero fin da ragazzo quando, al ginnasio, dirsi tali significava essere guardati come alieni». 
Nel 2008 ha rifiutato la candidatura offertagli dal PdL: «Non vedo l'impegno riformista e la determinazione a cambiare». 
Molto importante la compagna, Marilù Faraone Mennella (1968), bionda, anche lei imprenditrice, conosciuta nel 1990 proprio in Confindustria. 
E ora una nuova sfida: la guida per i prossimi tre anni dei Cavalieri del Lavoro, la federazione nata nel 1923 che ha come soci gli imprenditori insigniti dell'alta onorificenza dal Capo dello Stato. Per Antonio D'Amato, che con una nomina all'unanimità è il nuovo presidente, sarà sicuramente qualcosa di più di un impegno a margine. Chi lo conosce bene - napoletano, classe 1957, leader di Confindustria dal 2000 al 2004 presidente del gruppo Seda, azienda leader mondiale nella produzione dell'imballaggio alimentare con 13 stabilimenti sparsi tra Europa e Usa e oltre 2.500 dipendenti - sa che quando accetta una responsabilità, poi ci si tuffa dentro con determinazione e passione. Le sue prime dichiarazioni, sono un programma e un obiettivo chiaro: concorrere «con un contributo decisivo» alla ripresa e allo sviluppo del Paese. «Siamo in un momento in cui occorre ridare fiducia, mettere insieme le energie più vitali perché il Paese progredisca verso il futuro, giorno dopo giorno, con azioni coerenti» dice D'Amato, che fu insignito dell'alta onorificenza di cavaliere nel 2005 (ha già guidato la parte Mezzogiorno della federazione). Aggiungendo: «In questo senso i Cavalieri del Lavoro contribuiranno con impegno al rilancio del tema della competitività, strada maestra per riprendere a crescere, creare lavoro e aprire nuove opportunità». La promessa dei 586 Cavalieri del Lavoro è, quindi, quella di «creare lavoro», disegnare un futuro meno cupo per i tanti giovani italiani protagonisti mese dopo mese di statistiche deprimenti a cominciare da quel 40% di disoccupazione che li riguarda. 
«Credo che chi rappresenta il 30 del Pil abbia il diritto ed il dovere di essere impegnato per il bene di questo Paese. E noi questa responsabilità l'abbiamo sentita molto» 
ricorda a sua volta Benito Benedini, che ha passato il testimone a D'Amato dopo aver guidato per 6 anni i Cavalieri.
Se si chiede ad Antonio D'Amato, già presidente di Confindustria e da pochi giorni alla guida della Federazione nazionale dei Cavalieri del Lavoro, qual è la cosa che da imprenditore lo fa arrabbiare di più, la risposta è secca e pungente: «L'accettazione passiva, quasi rinunciataria, che il declino dell'Italia, come dell'Europa, siano ineluttabili. E invece no, l'Italia è ancora un grande Paese con grandi opportunità: serve però molto più coraggio e ben altra visione per realizzare i cambiamenti necessari e impedire che la deriva diventi inarrestabile». 
A cominciare dalla manovra, sulla quale anche Confindustria è stata subito molto critica? 
«La legge di stabilità e gli altri interventi di questi mesi sono come dei cerotti del tutto insufficienti per le ferite e le lacerazioni che affliggono l'Italia sul piano della competitività e dell'equità sociale: occorre una forte discontinuità con il passato e questo vuol dire mettere mano a riforme strutturali non più rinviabili, sul piano economico, sociale e istituzionale». 
A partire da ... 
«Dal mercato del lavoro: cosa dobbiamo ancora aspettare perché le parti sociali si confrontino su una riforma che è nella loro disponibilità? E oltre tutto non costa denaro, particolare non costa denaro,particolare non trascurabile per un Paese privo di risorse. Con la riforma Fornero sono aumentati i disoccupati perché si è voluto puntare ad una controriforma delle novità introdotte dalla legge Biagi. Occorre andare oltre e completare la riforma del mercato del lavoro all’insegna della flessibilità». 
Perché più flessibilità? 
«Dobbiamo creare nuove opportunità dì lavoro per i giovani, per le donne e per i cinquantenni espulsi dai processi di ristrutturazione. L'incertezza e l'instabilità dei mercati ci impongono più flessibilità in ingresso ed in uscita. Solo così si genera una dinamica di opportunità che possa riportare in alto il tasso di attività del Paese. E solo creando lavoro si può creare più reddito familiare per rilanciare i consumi e rimettere in moto il circuito virtuoso dello sviluppo». 
Torniamo alle riforme: oltre a quella del lavoro quali quelle, secondo lei, più urgenti da realizzare? 
«La ristrutturazione della spesa pubblica, unica risposta agli sprechi che purtroppo continuano. E la detassazione, perché il peso fiscale su imprese, lavoratori e famiglie è inaccettabile. Mercato del lavoro, spesa pubblica e riduzione della pressione fiscale sono. le tre leve indispensabili per rilanciare lo sviluppo del Paese. A queste devono accompagnarsi la riforma della legge elettorale, la semplificazione amministrativa, la riforma della giustizia, il ridisegno delle autonomie locali e del titolo 5° della Costituzione».
Un programma molto ambizioso? 
«Questa l'agenda minima per un ceto dirigente che non si accontenti del piccolo cabotaggio ma che abbia una visione del Paese e delle sue opportunità. E sia quindi in grado di restituire fiducia e prospettive agli italiani. C'è bisogno di una leadership politica, ma anche di un ceto dirigente che sia determinato ad operare con forte discontinuità e che non si rassegni al declino del Paese che continua proprio per la nostra incapacità di mettere finalmente mano alle riforme necessarie. Come ho detto, l'Italia è un grande Paese, con grandi opportunità. Bisogna esserne tutti consapevoli, ciascuno di noi assumendosi le proprie responsabilità». 
Sembra un sogno considerato il momento politico del Paese ... 
«L'alternativa è che l'Incubo che stiamo vivendo diventi realtà. Sul piano della politica l'attuale maggioranza di governo è sopravvissuta ad una crisi uscendone rafforzata. Proprio per questo mi aspetto più coraggio e più determinazione. Di sicuro, chi avrà il coraggio di operare nella direzione che ho indicato darà anche un segnale di leadership al Paese che nel tempo non potrà non essere premiato». 
La sfida del cambiamento ha prodotto però anche movimenti ed estremismi: preoccupato? 
«Guardi, gli italiani vogliono un futuro diverso per se stessi e per i loro figli. Sotto le incrostazioni delle corporazioni e consociazioni che bloccano ogni cambiamento c'è un fermento di giovani e anziani, dal Nord al Sud, che vogliono voltare pagina. È questa la pancia del Paese». 
C'è chi dice che alla fine anche stare fermi produce effetti positivi sui mercati: la pensa anche lei così? 
«Stare fermi? Ma qui c'è uno sconquasso dopo l'altro. I casi Alitalia e Telecom sono solo gli ultimi e dimostrano che si stanno perdendo pezzi importanti del Paese, o addirittura che si stanno svendendo. Sulla Telecom in particolare il governo farebbe bene a recuperare l'iniziativa: io sono favorevole alla riforma della legge dell'Opa, alla riduzione della soglia del 30%» . 
Ma c'è ancora tempo per rimettere in piedi il Paese e restituirgli quella prospettiva di cui lei parla? 
«Non c'è più tempo da perdere. Si deve e si può avviare subito un reale cambiamento dell'Italia a condizione che ci sia una leadership all'altezza di questa sfida. Il vero problema è che non vedo emergere con chiarezza maggioranze a destra, al centro o a sinistra che abbiano una visione del Paese, in grado di ragionare seriamente di prospettive e non di continuare a navigare a vista accontentandosi del possibile perché non si riesce a fare il necessario». 
Le piace Renzi? 
«In questa esigenza di discontinuità e di rottura di schemi, chi apre un dibattito aiuta comunque il Paese a fare un passo in avanti. Renzi l'ha fatto a sinistra e mi auguro che sia per quella componente politica l'opportunità di un confronto sulle prospettive del Paese, piuttosto che sugli equilibri interni del partito. Così come mi auguro che accada anche per il centrodestra». 
Più falchi o più colombe? 
«Mi basterebbe qualche buon cervello e un po' di coraggio». 
Come possono contribuire i Cavalieri del Lavoro a questa prospettiva di risanamento del Paese, la situazione è davvero molto complessa? 
«Fanno parte dei Cavalieri del Lavoro le più straordinarie figure imprenditoriali del Paese: uomini e donne che rappresentano una quota molto significati del Pil italiano e che si confrontano tutti i giorni sui mercati mondiali. Questo formidabile serbatoio di energie è al servizio dell'Italia e di un percorso ambizioso di crescita economica, sociale e civile. Per ridare fiducia agli italiani e voglia di misurarsi con le sfide del presente e del futuro occorrono valori saldi, consapevolezza delle proprie possibilità tanta grinta e un buon progetto. E su questo terreno i Cavalieri del Lavoro possono dare e daranno nelle loro imprese e nel Paese un contributo di impegno e di ingegno». 
Lei è uomo del Sud: i recenti dati dello Svimez proiettano il Mezzogiorno sempre più nel baratro, in una crisi davvero gravissima. Ci dobbiamo rassegnare? 
«Assolutamente no. Per rimettere in moto l'Italia bisogna ripartire dal Sud. E' qui che ci sono le più grandi opportunità di sviluppo e di crescita per costruire un'Europa competitiva l’Italia deve svolgere un ruolo da protagonista e può farlo solo con un Mezzogiorno pienamente integrato nella prospettiva di Sviluppo. Sono pienamente d'accordo con il presidente Napolitano: serve un piano nazionale per far ripartire il Paese e quel piano non può che muovere dal Mezzogiorno». 
A proposito di discontinuità: deluso anche lei dal sindaco di Napoli, De Magistris, sul quale aveva comunque puntato? 
«Avevamo sperato che potesse segnare un elemento di discontinuità con il passato: purtroppo rischiamo di rimanere ancora una volta nella continuità di un processo di degrado, disoccupazione ed emarginazione di una città straordinaria che ha un patrimonio ambientale, culturale e artistico che il mondo le invidia».
Ho avuto più volte occasione di incontrarmi con il personaggio. A Capri, quando era presidente della Confindustria ad un convegno d’imprenditori ebbi la possibilità di porgli una domanda su cosa fare per risolvere i problemi del Sud. La sua risposta fu talmente cogente che mi venne spontaneo chiedergli perché non entrasse in politica «E’ una cosa sporca!», fu lapidaria la risposta.
D’Amato è un collezionista di pittura napoletana del Seicento. Alcuni anni fa era un neofita e durante una mostra dell’antiquariato nella Reggia di Portici si innamorò di una tela e stava per comprarla. Riuscii a chiamarlo in disparte e a segnalargli che quel dipinto non era autografo. L’acquisto non si concluse ed io senza farmi un amico mi feci un nemico: L’antiquario.

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