19/1/2006
Il circuito espositivo napoletano, nonostante la cronica carenza di turisti e la svogliata partecipazione degli indigeni, si è arricchito di un nuovo prezioso tassello con l’apertura del nuovo museo dell’Opera di San Lorenzo: uno sguardo sugli ultimi 2500 anni di storia della città e sulle sue sbalorditive stratificazioni. Prima agorà greca e foro romano, quindi basilica paleocristiana, trasformata poi in gotico francese, un luogo dove si è svolta frenetica la vita sociale, artistica e civile, durante molteplici dinastie dai Normanni e gli Svevi, agli Angioini ed agli Aragonesi.
Un percorso a ritroso nel tempo per ritornare al punto di partenza, in un eterno presente, dal suono melodioso del flauto di Antigenide ai canti delle popolane, sostituiti negli ultimi anni da nenie cingalesi e da violini zigani provenienti dall’est.
Ci troviamo nella piazza più antica di Napoli, dove per 20 secoli si sono svolti i commerci, il passeggio elegante e si sono decisi i destini dei cittadini. A due passi cantava Nerone, applaudito da folle oceaniche, Boccaccio intravide la sua Fiammetta, che gli infiammò il cuore, mentre austeri saggi, nel Parlamento voluto da Alfonso d’Aragona, emanavano leggi tra le sale della torre, che oggi ospita i reperti del nuovo museo.
Sculture, affreschi, sarcofagi, ceramiche, dipinti, paramenti sacri, pastori, ve ne è per tutti i gusti nei 4 piani del museo e tutto il materiale è corredato da pannelli esplicativi, che conducono per mano il visitatore in questo lungo viaggio, dissipando dubbi ed allietando occhi e spirito.
Nella prima sezione sono esposti i reperti recuperati nei sottostanti scavi archeologici, che rappresentano da tempo uno dei percorsi più affascinanti per il visitatore che voglia esplorare le pulsanti viscere della città. Segue poi una raccolta di anfore, puniche greco italiche, corinzie che testimoniano la vivacità dei traffici commerciali della città nell’antichità con tutto il bacino mediterraneo. Vino, olio, carne essiccata ed altre merci transitavano per raggiungere località della terraferma. Al secondo piano vi sono reperti provenienti dal convento e dalla chiesa. Sono i pezzi più interessanti per gli appassionati di arti figurative.
Si va da una spettacolare tempera su tavola di Montano di Arezzo, raffigurante la Madonna col Bambino in trono ad un affresco staccato di ignoto giottesco napoletano, che rappresenta san Francesco che dà la regola ai Frati minori ed alle Clarisse. Superba è la lastra tombale dei componenti la famiglia Barrile, misteriosi i sarcofagi dei Cavalieri dell’Ordine del Nodo.
Tra i dipinti segnaliamo una Madonna col Bambino e san Francesco, proveniente da una cappella della chiesa, di estenuante dolcezza, a lungo riferita a Stanzione dalle antiche guide e, viceversa, da assegnare al virtuoso pennello di Giuseppe Marullo, un minore del secolo d’oro ingiustamente dimenticato. Senza trascurare una tavola di Francesco Curia, dai colori squillanti ed una replica autografa di minori dimensioni dell’Immacolata del Finoglio, che si può ammirare in chiesa nella cappella Bonaiuto.
Infine al quarto piano sono conservati arredi e paramenti religiosi. In eleganti e ben illuminate vetrine si susseguono pissidi, reliquari, ostensori e calici, alternati a messali e cartegloria, mentre in altre sono esposti i segni esteriori della Chiesa trionfante post tridentina: pianete, mitrie, stole e dalmatiche. Fa compagnia agli oggetti sacri una nutrita collezione di pastori, del Settecento e dell’Ottocento, tutti di legno e terracotta e con glaciali quanto espressivi occhi di vetro.
Re magi e mendicanti, floride contadine e vecchierelle gozzute, artigiani e saraceni, una folla di volti e di atteggiamenti che ritroveremo immutati una volta ridiscesi per strada lungo il presepe vivente che da secoli anima i decumani, gli stessi volti patibolari o eduardiani, che erano in prima fila durante l’assalto della torre al tempo di Masaniello o tra le truppe sanfediste che impazzarono dopo il 1799. Un crogiuolo di popoli e di culture, ieri: cartaginesi, greci, romani, spagnoli, austriaci e francesi; oggi: cingalesi, ucraini, capoverdiani, rumeni e nigeriani.
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