sabato 24 marzo 2012

Uno strenuo cantore della propria terra: Umberto Ciletti

9/2/2009


Niccolò Umberto Ciletti è stato un genuino interprete di un mondo bucolico, che il progresso ha spazzato via per sempre, ma che si può ancora gustare nelle sue tele, nelle quali  i contadini, semplici e rudi sono in lotta continua con gli elementi e con una società egoista, un  mondo in cui matura nel silenzio il dramma doloroso della donna considerata come una schiava, un universo di miserie e di dolori, una tragedia cosmica che si perpetua immutata da secoli e che soltanto gli animi semplici sono in grado di comprendere e glorificare in dipinti come gli Umili o il Vento (01 – 02). 



Egli nasce a S. Giorgio La Molara, in provincia di Benevento, il 9 marzo 1883  ultimo di nove figli di una famiglia di commercianti in preziosi e morirà nella sua città natale nel 1967 (03). 


Nel 1900 si iscrive all'Istituto di Belle Arti di Napoli dove è allievo di Michele Cammarano e Stanislao Lista ed esordisce  nel 1903 al Circolo Artistico Partenopeo dove è notato non solo dal grande pubblico, ma anche dai principali maestri contemporanei.
Il pittore decide poi di andare a New York, dove rimarrà quattro anni ed avrà modo di conoscere la nascente arte moderna Americana (04). Tornato a Napoli nel 1915, si inserisce autorevolmente nel contesto della prestigiosa cultura napoletana, partecipando a numerose esposizioni personali e collettive, frequenta assiduamente artisti, caffè e ritrovi alla moda ed il suo nome si ritrova spesso nelle cronache dei giornali contemporanei.

Nel 1916 compare tra i pittori e gli scultori napoletani a cui Boccioni indirizza il Manifesto dei Pittori Meridionali, mentre l’anno successivo una sua tela è acquistata dal Re Vittorio Emanuele III, quindi si trasferisce nello studio che fu di Domenico Morelli, dove convocava nelle prime ore del mattino una specie di Corte dei miracoli partenopea: vecchie, pezzenti, ragazzi laceri e mocciosi, donne scarne e lattanti affamati e queste miserie egli ammucchiava in un groviglio di cenci per riportarle sulla tela con i rabbiosi contrasti d'una luce artificiale ch'egli otteneva a mezzo di fumose "garcelles".
Alla sua produzione si interessarono molti critici, tra i quali Biancale,  Di Giacomo,  Quintavalle e Scarfoglio.
Durante gli anni del fascismo, mentre trionfava il verbo di Marinetti, Ciletti ebbe difficoltà ad esprimere la sua arte e nel 1932 dopo l'inaugurazione di una sua personale nelle sale della Permanente del Circolo Artistico nella Villa Comunale di Napoli le minacce di un gruppo di facinorosi lo indussero ad abbandonare la città partenopea. Ritiratosi a Benevento tiene corsi  di Disegno e Pittura, diviene poi sindaco del suo paese natale, carica che conserverà a lungo. Terrà numerose esposizioni non solo nella città sannita, ma anche a Napoli ed a Roma.
Temperamento artistico indipendente e ribelle alle correnti di moda, fu osservatore acuto ed interprete di una cruda realtà materializzata con una pennellata grassa di stupefacente luminosità. Per quanto abbia conosciuto presto il successo, il più caloroso ed unanime, fin dal lontano 1906, quando, giovanissimo, alla Quadriennale di Torino, venne salutato come il miglior rappresentante del Mezzogiorno, preferì ritirarsi  nella sua terra (05), in quel brullo Val Fortore, ispiratore delle sue opere più belle, quelle che soprattutto lo immortalano artista originale, per il quale l'Ottocento napoletano è stato solo un’esperienza formativa. Ritornato a vivere nella pace  del suo paese nativo, egli comincia a ritrarre  soggetti agresti: aratri, bifolchi, portatrici d'acqua, pastori, monaci, lavandaie, mulattieri chiesuole e casolari sperduti tra le insenature dei monti coperti di neve o di chiaro di luna (06 – 07).



Cominciò allora col preferire i cenci al damasco, le fiamme dell'aspra forgia agli alari del pacifico caminetto, le piaghe umane al bel sorriso delle donne (08). Qualche anno di feroce scapigliatura napoletana e molti di bassi quartieri d'una metropoli americana gli avevano dato della vita e del colore un senso plumbeo e tetro.
La severità della pennellata ed il suo impianto chiaroscurale solido e sostanzioso sono conquiste personali, che solo un forte temperamento poteva realizzare. E le realizza appieno, quando, abbandonati i toni plumbei e tetri ispiratigli dagli anni trascorsi a Napoli ed a New York, ritrova finalmente, nella sua terra, la luminosità abbagliante del sole che dardeggia le zolle arse ed abbacina i volti abbronzati dei contadini  o la chiarità malinconica del raggio lunare, che illumina la facciata solenne di una chiesa e le piccole case grigie di una stradina tortuosa o infine il barbaglio della fiamma che arde nel camino a ristorare la sua gente stanca di un fatica secolare. 

Una autentica celebrazione della gente del Sannio (09 -010), che non lo ha dimenticato (011). 



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