17/5/2009
Capodanno del 1989, mentre caduto il muro di Berlino il mondo conosceva una nuova era, il sottoscritto, con la sua famiglia, assaporava il fascino esotico di una vacanza al mare, al sole dei tropici, quando in Italia imperversava il vento e la pioggia.
La meta prescelta il villaggio Valtur Les Palativie in Costa d’Avorio, un posto da sogno dove passammo quindici giorni indimenticabili tra bagni in acque incontaminate, pranzi pantagruelici con annesse libagioni, balli sfrenati fino all’alba e quotidiane gare sportive, dal nuoto al calcetto, dalle bocce al braccio di ferro. Ed è proprio di queste ultime due competizioni che voglio brevemente raccontarvi.
Io partecipavo a tutte le competizioni, unica eccezione miss topless per mancanza di attributi. Nel nuoto venivo costantemente superato da giovani siluri ed anche, a volte da avvenenti ondine, nel calcio inesorabilmente dribblato e nel tennis surclassato, unica soddisfazione un secondo posto nella gara di bocce miste in coppia con una valchiria, che mirava al bersaglio con teutonica precisione.
Grande attesa vi era poi per la sfida di braccio di ferro, che si svolgeva dopo cena nell’anfiteatro tra una folla plaudente, un tifo da stadio e le note del film di Stallone Over the top.
Vi era una competizione tra ultra quarantenni ed un trofeo assoluto. Scelsi di tentare la sorte nel torneo principale dotato di un cospicuo premio in denaro, rinunciando ad una coppa sicura, ma a casa, vinte a scacchi o a poker, ne ho talmente tante da non avere più spazio.
Facevo affidamento non tanto sulla residua forza dei bicipiti, che da tempo si era affievolita, quanto su un’abilità tecnica di vecchia data e sulla notevole lunghezza del braccio: il trucco infatti consiste nel creare una leva più alta dell’avversario, cercare di fargli ruotare la mano verso il basso e poi il più è fatto.
Tra i concorrenti all’alloro vi erano numerosi palestrati, ma in particolare incuteva timore un gigante di oltre due metri con 48 di bicipite, la misura di Steeve Reeves quando prestava ad Ercole il suo corpo statuario per interpretare le leggendarie sette fatiche.
Ognuno di questi energumeni poteva contare poi su una claque di fanciulle scatenate, le quali urlavano a squarciagola speranzose nella vittoria del loro idolo, mentre io potevo fare affidamento, oltre che su mia moglie Elvira e sulle mie figlie Tiziana e Marina, su poche signore attempate che mi lanciavano languidi sguardi di incoraggiamento.
Rimasi sorpreso dalla facilità con la quale superai lo scoglio delle prime prove e mi trovai, quasi senza accorgermene, alla finalissima con il temuto avversario che aveva scelto il nome d’arte di Attila.
Dopo un doppio zambaione rinforzato al rhum ed aver posto sulla testa un cappellino affrontai senza paura l’ultimo ostacolo, al suo cospetto mi accorsi che al di là della massa muscolare egli possedeva in un alito pestifero, la sua arma segreta.
Mi rivolsi a lui spavaldo, girando all’indietro la visiera alla Sylvester Stallone ed esclamai:”Ti torcerò il braccio”. Quindi gli piegai la mano e cercai di tenere la mia al di sopra. Resistetti al suo impeto disordinato per alcuni minuti, fino a quando, spompato fu alla mia mercé e cadde come una mela fracida.
L’applauso che salutò il mio trionfo fu interminabile, tutte le ragazzine che puntavano su di lui ora erano pazze per il mio successo, inclusa miss topless, incaricata di premiarmi, che oltre alla fascia mi gratificò con un bacio saporitissimo.
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