8/4/2009
La tradizione del Carnevale risale ai tempi lontani della Serenissima, quando era famosa in tutta Europa, ma riprese in grande stile a partire dal 1980, quando riempì del suo eco il mondo intero.
Soltanto Venezia, una città senza futuro, può rivivere pienamente il passato, dove il bello è a diretto contatto con la fine. Dietro l’essere nel suo pieno fulgore c’è solo il fantasma della morte. Se le persone indossassero sempre maschere in un luogo che vive più di passato che di presente sarebbero il tragico specchio di essa.
Eppure Venezia la senti sotto pelle quando ne indossi il passato. Da quando celebrò lo Sposalizio col Mare sul regale Bucintoro, essa si legò ad un destino superiore e dai fasti splendori iniziò a decadere progressivamente. Alcuni dipinti ed affreschi ricordano nostalgicamente la sua maestà trascorsa: il Canaletto, il Guardi, il Bellotto, ne hanno magistralmente immortalato la bellezza. E niente è ridicolo, trasgressivo, impossibile nelle vie dove gli insetti ti pungono, o lungo i canali dove i topi galleggiano e i mendicanti, prima di morire, magari ubriachi, tendono ancora la mano perché sanno che la vita è generosa, mentre loro sono ormai sul triste ponte, dove la Signora vestita di nero con la falce in mano li attende.
Venezia a prima mattina è ancora un po’ dormiente, va svegliandosi gradualmente verso l’imbrunire come se nel tempo l’uomo “gaudens” l’avesse abituata al proprio ritmo circadiano. Dopo il crepuscolo incomincia a rianimarsi, ma soltanto a cena consumata le sue energie sono pronte e disponibili. Allora i vizi escono dalla prigione e si liberano in tutte le direzioni, dal gioco d’azzardo del Casinò alle cortigiane notturne, che hanno solo cambiato abitudini rispetto al passato, in cui famose ad ogni angolo erano le belle veneziane che desideravano il piacere e ad esso si offrivano. Le maschere diventano provocanti e la città rivela la sua indole più pagana che cristiana.
In passato partecipare alle favolose feste in maschera al Cipriani era un’impresa impegnativa, non solo per il costo del biglietto, proibitivo, per la necessità di indossare un costume in sintonia con il tema prescelto, ma soprattutto perché bisognava prenotarsi con un anno di anticipo.
Rammento nel 1984, quando per la prima volta decidemmo di trascorrere il Carnevale a Venezia e sentimmo parlare di queste feste favolose, la mia ricerca spasmodica per procurare gli inviti. La direzione alla mia richiesta sorrise perché i biglietti erano esauriti da mesi e potevo eventualmente acquistare quelli per il 1985. Era l’anno di un gemellaggio tra Venezia e Napoli e mi venne l’idea di telefonare a nome di un personaggio influente per ottenere in extremis la possibilità di partecipare ad uno dei veglioni in maschera.
Scelsi di spacciarmi per l’onorevole Gava e nel ristorante dove cenavamo assieme ai nostri amici Vittoria e Gino chiesi dove fosse il telefono (erano gli anni preistorici prima dell’invenzione dei cellulari). Il cameriere mi disse che non dovevo alzarmi perché avrebbe portato a tavola l’apparecchio ed infatti, munito di un interminabile filo, comparve un elegante telefono bianco. Imbarazzato per la presenza di tanti occasionali ascoltatori composi il numero e, fingendo prima la voce femminile di una segretaria, mi feci passare il direttore del Cipriani, al quale, qualificandomi per il vegliardo senatore, chiesi un paio di biglietti per una coppia di ospiti importanti ed influenti che desideravano, pagando regolarmente, ardentemente partecipare alla festa; non li avrei accompagnato perché molto stanco.
Il direttore si mise a disposizione, ma volle per forza fornire dei biglietti omaggio, che purtroppo non potetti utilizzare, timoroso, una volta scoperto di essere accusato di truffa, mentre se avessi potuto averli pagando non vi sarebbero stati problemi, dato che a Carnevale ogni scherzo vale. Vidi con malinconia la lancia con un impiegato con i biglietti dirigersi verso l’albergo che avevo indicato come dimora di questa coppia importante alla quale non si poteva dire di no.
Per l’anno successivo ci preparammo in tempo acquistando i biglietti con grande anticipo e preparando i travestimenti per le tre feste che avevano temi diversi: la prima, il venerdì, la lunga notte indiana Achille maragià, Elvira odalisca, la seconda, il sabato, il grande circo, io pagliaccio, la mia consorte domatrice, l’ultima, il martedì, di tendenza trasgressiva, prete e coniglietta; abbigliamento talare che adoperai anche per la serata di domenica quando ci recammo al casinò, dove all’ingresso volevano vietarmi di accedere, perché privo della cravatta; evidentemente avevano scambiato un luogo di vizio e perdizione per il Parlamento. Io indossavo una giacca rossa con il collo chiuso e non si vedeva che da sotto vi era l’abito da prete.
Protestai vivacemente per il divieto che volevano impormi:” Giovanotto, ma cosa vuole, che indossi una cravatta sulla mia divisa?” Fu chiamato un dirigente che, per quanto meravigliato dal fatto che fossi in compagnia di due signore, giovani, belle e scollacciate, mi autorizzò ad entrare ed a sedermi ai tavoli da gioco. Feci prima un giro nei vari locali, alternandomi al braccio delle mie accompagnatrici, tenendole strette ed accarezzandole appassionatamente tra lo stupore generale. Mi sedetti poi ad un tavolo di roulette e cominciai a vincere una cifra considerevole. Il mio stato laicale fu scoperto soltanto quando, fatta una cospicua puntata sul 28 ed uscito il 29, bestemmiai vigorosamente le principali divinità delle religioni monoteiste.
Attirati dal fascino misterioso del Carnevale negli anni successivi ci recammo altre tre volte a Venezia negli anni Ottanta, naturalmente approfittando dell’occasione anche per visitare mostre e rivedere palazzi, musei, campi e campielli. Ed inoltre Tintoretto e le Procuratie Vecchie a Piazza San Marco così suggestive quando c’è il fenomeno delle acque alte, le quali si specchiano su quella ingannevole superficie che raddoppia in un fallace rimando all’infinito i portici e gli archi già così numerosi. Il richiamo delle attività culturali così intense a Venezia è poi cosa nota in ogni luogo: dal Festival del Cinema alle Biennali di Arte e di Architettura, dalle anteprime teatrali a tavole rotonde sugli argomenti più disparati, ma l’attrattiva irresistibile era sempre costituita da quelle feste magiche in maschera che si tenevano in uno degli alberghi più esclusivi del mondo: il Cipriani.
di Achille della Ragione ed Elvira Brunetti
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