giovedì 29 marzo 2012

Chiude la chiesa di San Carlo alle Mortelle

1/10/2009

Per una chiesa che parzialmente riapre, quella dei Girolamini, un’altra, anche se meno famosa, chiude col rischio di venire letteralmente inghiottita da una voragine: San Carlo alle Mortelle, della quale sui giornali si è letto che al suo interno non contiene opere di particolare pregio, viceversa conserva l’intero ciclo carolino eseguito da Antonio De Bellis, che fu molto apprezzato dal Causa, il quale, nel suo monumentale saggio sulla pittura napoletana del Seicento, annusò nel De Bellis la stoffa del pittore di razza, «sivigliano» a metà strada tra il Velázquez e lo Zurbaran delle Storie di San Bonaventura. Egli esaminò i quadri della serie con le storie del santo, nella chiesa dei Barnabiti di San Carlo alle Mortelle. 
Credette, sulla falsariga del racconto dedominiciano, che i dipinti fossero stati realizzati durante la peste, per il crudo realismo di alcune scene quasi da reportage fotografico e per la constatazione di alcune tele lasciate incompiute: «non tutti siano di una stessa perfezione, perciocché, alcuni di essi non furono terminati ma dipinti alla prima, così restarono per sua immatura morte» (De Dominici). Il Causa ritenne di grande livello il San Carlo che comunica gli appestati e il San Carlo che visita gli infermi. Stupendi brani di pittura tra i documenti più icastici della peste e tali da poter gareggiare con i celebri bozzetti del Preti eseguiti per le porte della città. «Una figura, un ritratto, un gioco compositivo che rivela l’indipendente di gran classe, punto zenitale di una continuità di grande cultura locale» (Causa).

L’iconografia della serie è nuova ed originale ed alcuni episodi sono stati interpretati solo grazie al contributo conoscitivo che fornì Boris Ulianich, indiscusso pontefice degli studi agiografici. Alcune immagini sono straordinarie e soffuse da una struggente aria di malinconia e di tristezza, come il San Carlo in preghiera con una caterva di cadaveri alle spalle, che rendeva ridicolo al confronto l’analogo soggetto «caramelloso e azzimato», dipinto quarant’anni prima dalla pittrice Fede Galizia per l’altare maggiore. E che dire del dipinto ove il santo dà in carità il suo oro per sfamare i poveri, nel quale «il ritratto del prelato col sacchetto di scudi d’oro entra a buon diritto tra i personaggi più incisivi della pittura seicentesca» (Causa).
Speriamo che per rivedere tali dipinti, per il momento messi al sicuro nei depositi della sovraintendenza, non si debba attendere decine di anni.

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