giovedì 22 marzo 2012

AL CINEMA


4/2/2010

A single man, una triste meditazione sulla solitudine

Tim Ford, alla sua opera prima ricavata dal libro di Ischerwood, centra subito il bersaglio con un film intenso e ricco di spunti di meditazione, non tanto sul mondo dei gay, quando sul dramma della solitudine dell’uomo moderno, sulla crisi della famiglia, sull’ipocrisia della società. 
La storia è ambientata a Los Angeles nel 1962, al tempo della crisi con Cuba, ed è imperniata su un docente universitario che si ritrova solo dopo la morte per incidente del suo compagno e pensa di mettere fine ai suoi giorni, dopo aver ripercorso le tappe fondamentali della sua vita, tra le quali anche un’attrazione, ben più di un’amicizia, per una donna, interpretata alla grande da Julianne Moore.
Solitudine, malinconia, lo scorrere inesorabile del tempo, l’inutilità del nostro affannarsi quotidiano sono i pensieri che si affollano nel suo cervello e gli fanno trascurare le numerose profferte sessuale di baldi giovanotti, che subiscono il fascino perverso della sua bellezza e della sua intelligenza.

Un decor trascolorato, una musica avvincente, dei primi piani da manuale fanno da cornice ad una storia di solitudine e di sconfitta, nonostante l’apparenza dei vacui obiettivi raggiunti: una cattedra universitaria, una bella casa, una posizione sociale rispettata.
Un film da vedere, anche se bisogna sopportare ripetute visioni di corpi nudi maschili(consigliabili ad un occhio femminile o gay) ed una serie di baci omosessuali da far venire il voltastomaco.

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2/2/2010

Baciamo ancora: l’epicedio dei quarantenni

Muccino nella sua nuova opera Baciami ancora  riprende i personaggi del suo film cult e dopo dieci anni li confronta con la difficile soglia dei quaranta anni, periodo di crisi di crescita, di valori, di sogni che diventano sempre più irrealizzabili.
Il successo al botteghino, sin dal primo giorno di programmazione è lusinghiero, perché il pubblico in genere premia le commedie gradevoli, intrise in egual misura di romanticismo, cinismo ed esistenzialismo, anche se la pellicola è forse troppo lunga e dà l’impressione di essere troppo didascalica e pomposamente sentenziosa; in ogni caso, ambientata a Roma, fotografa impietosamente una classe sociale medio alta che non rappresenta sempre in egual misura la nostra traballante società, nella quale, persa la bussola della certezza, si naviga a vista e si resiste solo quando, raramente, è presente l’amore, un sentimento che per il regista è ancora frequente e prorompente.
Gli anti eroi che interpretano le storie sembrano girare a vuoto e cercano tutti disperatamente di recuperare ciò che incautamente hanno dissipato, si accavallano disoccupazione, droga, corna, gelosia, ma su tutto sembra troneggiare l’amore, l’unica ancora di salvezza per una generazione allo sbando. 
Gli attori sono bravi come le attrici, i dialoghi a volte scontati, la musica azzeccata e più eloquente delle parole, soprattutto nel leit motiv di Jonanotti  che funge da ballata per un’analisi della quotidianità, nella quale il dovere del compromesso e la speranza della riconciliazione si inseguono continuamente durante i 140 minuti di uno show di anime mucciniane più scomposte che disperate.

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17/1/2010

La prima cosa bella: un film d’autore

Uscire in contemporanea con Avatar, destinato a frantumare ogni record di incasso era una sfida impossibile, invece Paolo Virzì con La prima cosa bella regge il confronto alla grande, riempiendo le sale ed ottenendo alla fine della proiezione un lungo applauso da parte del pubblico.
La storia è una serie continua di flash back dal 1971 ad oggi, un omaggio ad un maestro come Fellini, che con il suo Amarcord ha tracciato un solco, ripercorso infinite volte, in ultimo da Baaria e da L’uomo nero.
Con un racconto corale si narra la saga familiare di una giovane donna, madre di due figli, bella e vanitosa, destinata ad una vita dolente ma allegra, libera e marcata sempre dall’amore.
Gli attori sono superbi da Micaela Ramazzotti a Valerio Mastandrea, senza parlare di Stefania Sandrelli, la quale, incurante di apparire vecchia e brutta, lei che è stata bellissima, ci regala una interpretazione da antologia.
Anna, la protagonista, viene eletta in uno stabilimento balneare miss mamma più bella, un piccolo trionfo che scatenerà prima il pettegolezzo e poi la furente gelosia del marito, il quale finirà per cacciarla da casa e scatenerà un lunga lotta per il possesso dei figli. Divenuti grandi la femmina rimarrà a Livorno, sposando un uomo squallido e noioso, mentre il maschio, fuggirà a Milano, dove cercherà di dimenticare i traumi infantili, fino a quando la sorella lo va a cercare per comunicargli che la madre, affetta un cancro, è vicina alla morte. Ma Anna ha conservato immutata la voglia di vivere, in maniera gioiosa ed inconsapevole, che il figlio da bambino non riusciva né a comprendere, né a giustificare. Comincerà allora un faticoso recupero del passato, ripercorrendone gli orrori rimossi e riscoprendo però profondi legami, soffocati, ma sempre vivi e pronti ad esplodere.
Gli ultimi venti minuti del film con il matrimonio in articulo mortis ed il ritorno degli affetti al capezzale della moribonda si vede con le lacrime agli occhi e si ricorderà a lungo.


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11/1/2010

Avatar, un capolavoro epocale

Mentre una folla di vip sgomitava scompostamente per poter partecipare all’Auditorium di Roma all’anteprima di Avatar per l’Italia, per me è bastato comprare il biglietto al cinema Embassy di Parigi e rendermi conto di aver assistito ad un film epocale, di quelli come la Corazzata Potemkin o Via col vento che hanno scandito la storia del cinema.
Ed infatti in appena venti giorni di programmazione la pellicola si è posizionata per incassi al secondo posto di tutti i tempi alle spalle di Titanic, altro capolavoro di Cameron, al quale oramai non resta che battere se stesso. Anche la critica internazionale plaude entusiasta, cosa inusuale per un film apparentemente commerciale e soprattutto di fantascienza.
Avatar e Titanic hanno molti dettagli in comune: entrambi sono imperniati su una storia d’amore tra protagonisti appartenenti a mondi diversi, differenze sociali profonde per Jack e Rose, spaziali per l’umano Jake  e l’aliena Neytiri. E mentre il povero ma bello insegna alla ricca borghese ad amare la vita, l’indigena cosmica riesce a far vedere al rude soldato l’universo con occhi diversi.
Viaggiando nel passato e nel futuro Cameron evidenzia l’eterna arroganza dell’umanità, convinta di poter dominare la natura con una montagna d’acciaio miseramente naufragata al primo cozzo con un iceberg o con i prodigi della tecnologia asserviti ad un piano di sfruttamento criminale delle risorse naturali.
Sfruttando il 3D in maniera superba Avatar rappresenta una meditata metafora del razzismo, del colonialismo di rapina, dell’egoismo sconfinato della nostra specie.
Esso ci rammenta la sanguinosa conquista dell’America, la devastazione dell’Amazzonia, le rovinose guerre dei nostri giorni, dal Vietnam all’Afganistan.

Le tre dimensioni sono il futuro del cinema in lotta con la pirateria informatica e con la pigrizia dei pantofolai incollati sul divano di casa a guardare la televisione ed Avatar si configura prepotentemente come l’inizio di una nuova era, che fa affidamento non solo sulle risorse della tecnica, ma anche su una storia forte in grado di entusiasmare lo spettatore, costellata da donne con la forte personalità, dalla scienziata che decide di tifare per le fragili creature oggetto dei suoi studi a Neytiri, un’eroina antica e moderna allo stesso tempo, guidata da saggezza e profonda spiritualità.


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3/1/2010

Amelia, la dea della luce

Il film racconta l’epopea di Amelia Earhart, la prima donna che trasvolò l’Atlantico, conquistando la celebrità ed il cuore di una nazione per il suo audace sogno di volare e divenendo una vera e propria eroina, al punto da essere ancora oggi considerata, a distanza di 80 anni dalle sue imprese, tra le 10 donne più famose d’America.
Per il ruolo della spericolata aviatrice è stata scelta Hilary Swank, vincitrice di due Oscar e somigliante come due gocce d’acqua alla protagonista, Richard Gere è suo marito, mentre il tenebroso Ewan Mac Gregor interpreta lo scrittore Gore Vidal, il grande amore di Amelia.
La pellicola più che fare riferimento alla vita privata di Amelia, rende conto delle sue scorribande nel cielo e di tutte le difficoltà economiche per organizzarle, compito degnamente affrontato dal valido consorte. 
Visionaria, sognatrice, combattiva, appassionata, Amelia è giustamente entrata nella leggenda per il suo smisurato coraggio, che la condusse alla morte appena quarantenne, quando si inabissò nell’oceano, mentre era intenta a compiere il giro del mondo.
La sua vita è stata un esempio per tutte le donne, che negli anni Trenta occupavano un posto subalterno nella società e la sua determinazione a sfidare il pericolo ed il continuo desiderio di porsi obiettivi ardui da raggiungere nell’alto dei cieli, sorvolando oceani tempestosi, le hanno meritatamente conquistato il soprannome di dea della luce.

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1/1/2010

Sherlok Holmes rivisitato, novello 007

Il celebre investigatore come non l’avete mai visto. Non più l’ingessato gentiluomo edoardiano, ma una sorta di 007 ottocentesco,  pronto all’azione e perfino a menare le mani in un chiassoso ring proletario,  è lo Sherlok Holmes presentato sullo schermo da Guy Ritchie, il quale si è preso più di una libertà nel ricostruirne la figura, a partire dal fido dottor Watson, non più spalla e confidente, bensì alter ego protagonista, assieme al quale  deve fronteggiare un terribile nemico.
Il celebre detective londinese, padre di tutti gli investigatori privati, creato nel 1887 dalla penna di Arthur Conan Doyle, che per la sua fertile fantasia fu insignito del titolo di sir,  è stato ripetutamente interprete di film, a partire dagli anni Trenta, ma sempre con difficoltà,  perché non è semplice dare forma alle sue caratteristiche più pregnanti: la suspence e gli intrecci misteriosi del ragionamento logico, che porta a risolvere brillantemente i casi polizieschi più intricati.
Nella versione di Ritchie, Holmes è più trasandato, ai limiti della sporcizia, che depresso, mentre Watson, seguito a vista da una graziosa fidanzata, ha cancellato dal personaggio ogni sospetto retaggio di omosessualità, grazie alla statuaria bellezza di Jude Law, il quale diventa complementare a Scherlok, facendo per lui tutto ciò che egli non riesce a fare.
La storia è imperniata su una serie di omicidi e su una setta di satanisti decisi a prendere il potere, abbattendo lo stesso parlamento britannico. Un caso particolarmente complesso per l’ispettore Lestrade, il quale si vede costretto a chiedere l’aiuto della coppia di investigatori, ai quali si affiancano due splendide fanciulle Irene, l’unica donna che sia riuscita ad intenerire l’indomabile Holmes e Mary, di cui è follemente innamorato Watson, che non desidera altro che impalmarla.
Il cattivo di turno, arrestato nella prima scena e dopo poco impiccato, novello Gesù, resuscita e dotato di stregoneschi poteri terrorizza una Londra, sapientemente ricostruita e nella quale sono sottolineate con abilità le stridenti contraddizioni tra una diffusa povertà e l’ardente spirito positivistico di quegli anni, durante i quali si costruisce il London Bridge e si assiste agli straordinari progressi della chimica e della fisica.
I colpi di scena si susseguono a ripetizione per un finale imprevedibile, che non riveliamo, scopiazzato da Angeli e demoni, il cui successo planetario ha tracciato una bussola per chi vuole creare una trama in grado di avvincere lo spettatore.
In America la pellicola sta ottenendo un vero trionfo e si parla già di nomination, siamo certi che anche in Italia il botteghino sarà felice.

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27/12/2009

Natale a Beverly Hills, una vittoria annunciata

La sfida tra cinepanettoni, tra le truppe capitanate da Pieraccioni e quelle del prode Christian è stata vinta da De Sica, il cui film, tra lo scandalo generale, è stato anche insignito della qualifica di elevato interesse culturale, potendo così godere di numerose agevolazioni fiscali.
La formula alla base di questi tipici prodotti natalizi sta mostrando i segni del tempo ed ha bisogno di opportune modifiche, perché non è più né il trionfo delle risate e del lieto fine, né il caustico ritratto di una borghesia arricchita e cafona. 
Beverly Hills non vuole essere una satira ridanciana di una società crapulona e sessuofobica, ma un semplice canovaccio di equivoci, doppi sensi e sguaiate parolacce tra le quali, come marionette telecomandate, si muovono volti più o meno noti. Manca l’unghiata d’autore tra tanti giochi di parole, che conducono ad una piatta volgarità che tutto sommerge. Ma nonostante queste critiche si ride a crepapelle.
Le storielle che vedono protagonisti oltre a De Sica tanti altri validi comprimari sono come sempre ad intreccio: Cristina(Ferilli) incontra fortuitamente a Los Angeles Carlo(De Sica), che l’aveva abbandonata 17 anni fa quando era incinta ed ora fa il gigolò di una tardona e coglie l’occasione per presentargli il figlio Lele ed il padre putativo Aliprando (Ghini), mentre Serena(Hunziker) e Marcello(Gassman) sono in procinto di sposarsi ed organizzano una festa per dare addio al celibato, ma vi sarà un terzo incomodo(Tognazzi).
Sarà un natale a stelle e strisce, nell’ambito di una comunità italiana affamata di sole e spaghetti, un festival della risata con un’ondata di gag travolgente, sparate a brucia pelo, due ore di sano divertimento per dimenticare le tristezze del quotidiano, di una crisi economica che ci ghermisce, ma della quale, almeno per il tempo della proiezione, vogliamo dimenticarci.


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25/12/2009

A serious man, un flop di autore

I fratelli Coen sono registi cult, abituati a sfornare capolavori, come il recente Non è un paese per vecchi, ma l’ultima loro fatica: A serious man lascia perplesso lo spettatore, perché intriso da una sottile ironia yiddish, troppo lontana dai gusti di un pubblico come quello italiano abituato ai cinepanettoni e ad un umorismo di bassa lega.
La pellicola lanciata dal festival di Toronto e riciclata da quello di Roma ha avuto grande successo oltre oceano, ove alcuni fan ne citano alcuni dialoghi a memoria e potrebbe essere ambientato in un kibbutz o anche in un angolo del Mid West, del quale è un inesorabile spaccato. 
La storia, preceduta da un prologo in lingua ebraica sottotitolato di dieci minuti, la cui fine viene avvertita come una liberazione, racconta un periodo di crisi della vita di Larry Gopnik, professore universitario di fisica, di origine ebraica, il quale si trova a dover fronteggiare simultaneamente numerose situazioni imbarazzanti: la moglie che vuole lasciarlo preferendo le avance di un rabbino, suo fratello disoccupato, che vive di espedienti accampato sul divano di casa, una figlia bruttissima impegnata continuamente a lavarsi i capelli, un figlio con preoccupanti problemi relazionali ed in crisi mistica. E se non bastasse un tentativo di corruzione non accettato che si trasforma in calunnia.
Il film riproduce una comunità ebrea, nella precisione dei suoi riti tradizionali e nella pedissequa osservanza di superati schemi comportamentali, che ad un occhio laico appaiono ipocriti e fuori luogo.
Il protagonista assume le vesti di un moderno Giobbe per la pazienza con cui affronta le tante traversie che gli capitano, dalle più banali, come la persecuzione telefonica di venditori truffatori, all’ultima ciliegina costituita da una ferale notizia sul suo stato di salute, a dimostrazione che il nostro destino è legato al filo del caso, che gioca a dadi con le nostre esistenze, una verità che il mite Larry cercava da tempo di dimostrare ai suoi allievi attraverso astruse formule di matematica.
Un film difficile, problematico, del quale sconsigliamo vivamente la visione non solo ai depressi, ma anche a tutti coloro che intendono trascorrere un paio di ore serene di svago senza inutili arrovellamenti ed elucubrazioni intellettuali.


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25/12/2009

La principessa e il ranocchio

Per Natale la Disney ha prodotto un vero capolavoro in grado di far passare un pomeriggio lieto non solo ai bambini, ma anche ai genitori che li accompagnano. 
La principessa e il ranocchio è una delicata favola senza tempo e senza luogo, anche se è ambientata a New Orleans, nel pieno dell’età dell’oro del jazz e la protagonista è una bella fanciulla di colore, che riesce a coronare i suoi sogni dopo numerose peripezie con un’avventura a lieto fine.
Il tema dominante è quello classico della bella e la bestia, anche se in questo caso, si tratta di un innocuo ranocchio che la principessa deve baciare, a ritmo di jazz, per permettergli di acquisire sembianze umane ed essere condotta all’altare.
Le immagini della pellicola sono animate da colori sfavillanti resi ancora più allegri da una musica piena di vita. Si susseguono una quantità di trovate, stregoni voodoo dai riti segreti, alligatori strimpellanti e lucciole ingenuamente sognatrici, gospel malinconici e desideri romantici; il tutto con la magia del disegno Disney, un marchio che non conosce crisi.
Il Time in una classifica dei migliori film del 2009 ha collocato la Principessa ed il ranocchio al primo posto assoluto, non solo tra i film di animazione, tra i quali impazza la moda del 3D.
Il consiglio è di andare a vederlo tutti assieme adulti e bambini. Sarà una festa gioiosa.

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9/12/2009

Cado dalle nubi, una piacevole sorpresa
Sono capitato nella sala dove si proiettava Cado dalle nubi per via del traffico infernale del centro di Milano di questi giorni: il taxi non ha fatto in tempo a condurmi in tempo per assistere ad un’altro film che desideravo vedere. Ma l’inconveniente mi ha permesso di godermi una pellicola briosa e spumeggiante e soprattutto di ridere dal primo all’ultimo minuto, grazie agli sproloqui ed alle gag di un nuovo personaggio, che dopo le sue performance televisive a Zelig, è sbarcato sul grosso schermo.
Cado dalle nubi rappresenta l’esordio alla regia per Gennaro Nunziante, apprezzato sceneggiatore, il quale ha puntato dritto su uno dei più eclatanti fenomeni televisivi degli ultimi tempi: Checco Zalone, squinternato cantante neo melodico alla ricerca del successo strimpellando una chitarra e componendo testi demenziali da esibire durante matrimoni e battesimi o il sabato in squallide balere di periferia.
Ho letto un’intervista al protagonista che, con rara modestia, riteneva di non valere un’unghia del mignolo di Totò, ma possiamo affermare che vale certamente il Villaggio degli esordi e fa ridere più dei gettonatissimi cinepanettoni di Boldi e De Sica.
La trama prevede il trasferimento di Checco dalla natia Putignano, una ridente cittadina pugliese, dove il mare è ancora blu, alla nuvolosa Milano, capitale della Padania. Lì, ospite di un cugino gay, finirà per dare lezioni di chitarra in una parrocchia a ragazzi difficili, ma soprattutto si innamorerà di una spigliata ragazza della buona borghesia lumbard.
Canterà melodie calabresi in riunioni di scriteriati leghisti, farà divenire giallognola la sacra ampolla con le acque del dio Po, scambierà l’outing con l’outlet, ma soprattutto riuscirà a sfondare vincendo un trasmissione del tipo X- factor, impalmando Margherita e tornando al suo paese.


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27/11/2009

Parnassus, sulle ali della fantasia

Un film da godere per la sbrigliata fantasia e per l’abbacinante fotografia è senza dubbio Parnassus, la storia di un uomo che voleva ingannare il diavolo.
Egli girovaga per le strade di una Londra ottocentesca, resa con grande verosimiglianza, con il suo carrozzone in grado di trasformarsi in palcoscenico, in compagnia di un giovane, di sua figlia Valentina e di un nano. Dove si ferma mette in scena uno spettacolo che ha al suo centro uno specchio, chiunque lo oltrepassa si trova in un mondo in cui può realizzare i suoi desideri più bizzarri. 
Il dottor Parnassus e' immortale, ma ha conquistato questa dote grazie a una scommessa vinta con il diavolo che ha assunto le sembianze del perfido Mr. Nick. Sono trascorsi i secoli e, nel momento in cui ha trovato il vero amore, il dottore ha stipulato un nuovo patto con satana, il quale,  però, vuole che Valentina sia sua, al compimento del sedicesimo anno di età, la data è ormai prossima.
e bisogna affrettarsi a trovare una soluzione, perché il furbacchione non anela tanto all’anima dell’acerba fanciulla, quanto alla sua preziosa verginità.
(La sorpresa maggiore per noi è stata ammirare l’inglese Lily Cole, già vista come interprete nel film Parnassus, dove interpreta la parte di  Valentina, una quindicenne vergine e casta, destinata a divenire preda prelibata del diavolo e soprattutto dove per qualche attimo compare completamente nuda con delle forme appena accennate, mentre nel prossimo calendario Pirelli sfodera un seno alla Sophia Loren, di debordanti proporzioni. Non contenta di questa metamorfosi pare abbia chiesto ai giornalisti presenti di non pubblicare la sua foto a petto in fuori, per il timore che l’università che frequenta, Cambridge, molto tradizionalista, abbia a prendere qualche provvedimento disciplinare).
Durante le riprese è morto Heath Ledger, l’interprete principale, ma il regista non ha voluto ricorrere a trucchi digitali per risolvere l’inconveniente ed ha preferito moltiplicare le fattezze del protagonista chiamando Johnny Depp, Colin Farrell e Jude Law  a sostituirlo nella contesa faustiana. Il risultato è stato superiore alle aspettative.
Gilliam ha saputo fare, come si dice, di necessità virtù riuscendo a realizzare un omaggio davvero particolare all'attore scomparso. Perché questo suo film è un inno alla vita e all'immaginario che debbono poter vincere nonostante tutto e, spesso, anche nonostante i lati oscuri delle fantasie che ci pervadono. È un gioco di alto equilibrismo sulla corda tesa della fantasia quello a cui il regista ci propone di partecipare. Gilliam è da sempre Parnassus. Non sarà immortale, ma la sua inesauribile voglia di immagini che, al contrario di quanto troppo spesso accade, non ottundano la fantasia, ma la provocano ad aprirsi a nuovi orizzonti è rimasta intatta con il trascorrere degli anni e, grazie agli sviluppi della tecnologia, ha trovato nuovi materiali su cui esercitarsi. 
Il bambino che è in Terry è più vivace che mai, conosce la luce e il buio, la felicità e la paura e aspetta che passiamo a trovarlo. Vive sul carro del Dottor Parnassus. 


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16/11/2009

2012, una catastrofe planetaria

Il mondo va male, l’umanità ha il fiato grosso, per cui le pellicole catastrofiche che escono periodicamente incontrano sempre un notevole successo di pubblico, il quale inconsciamente teme che gli eventi apocalittici raccontati nei film possano da un momento all’altro verificarsi realmente.
2012, realizzato da uno specialista, Roland Emmerich, regista di  Indipendence Day e The day after tomorrow, per 158 minuti avvince gli spettatori e li tiene col fiato sospeso con una serie di disastri squassanti, terremoti devastanti e voragini senza fondo.
La trama parte da un’antica leggenda Maya, che prevede da millenni la fine del mondo il giorno 21 dicembre 2012, circostanza che trova conferma nei calcoli matematici di alcuni giovani scienziati, i quali incontrano difficoltà insormontabili nell’essere ascoltati dai potenti della Terra, impegnati nelle loro beghe quotidiane e solo in extremis, quando già le prime avvisaglie dell’imminente apocalisse si stanno manifestando, cercano disperatamente un piano per mettere in salvo un gruppuscolo di uomini e donne per non far estinguere la nostra specie.
Vengono approntate alcune gigantesche arche in grado di ospitare qualche migliaio di eletti, oltre ad una coppia dei principali animali. Né più né meno ciò che fece Noè un po’ di tempo fa.
La temperatura comincia a salire, la crosta terrestre si sfalda, mentre giganteschi meteoriti si divertono a giocare al bersaglio con grattacieli e celebri monumenti che vanno in briciole. Gli effetti speciali sono veramente superbi e ci mostrano Manhattan che sprofonda nel mare, mentre cadono in rovina la Casa Bianca, il Cristo di Rio de Janeiro e la torre Eiffel. Tutti i governanti si pongono in salvo, ad eccezione del premier italiano, l’inossidabile Berlusca, che decide di passare gli ultimi minuti in preghiera con il pontefice, nella speranza di ricevere il perdono per i suoi peccati di gioventù, ma soprattutto di vecchiaia. Questa scelta imprevedibile viene accolta dal pubblico con una sonora risata scompisciante.
Nel globale cataclisma i cellulari continuano imperterriti a funzionare, permettendo saluti strazianti e commoventi confessioni.
La conclusione è a lieto fine con la salvezza di pochi sopravvissuti, che in qualche generazione ricostruiranno il nostro mondo infelice.
Il film è eccessivamente didascalico e politicamente corretto, con il presidente americano negro, i politici che cercano di salvar solo ricchi e potenti, ma faranno una brutta fine e l’eroe di turno che salverà dio, patria e famiglia. Un’americanata, spettacolare, iperbolica e convulsivante in grado di esorcizzare le nostre paure e le nostre angosce contemporanee.


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7/11/2009

Oggi sposi, una divertente commedia

Luca Lucini, un giovane regista, che ha al suo attivo commedie di successo come Tre metri sopra il cielo e Solo un padre, ci offre nel suo ultimo film Oggi sposi una esilarante indagine sullo stato di salute odierno del matrimonio, un’istituzione che mostra le sue crepe, ma anche una prorompente vitalità.
Il risultato sono due ore di divertimento con acmi di risate come da tempo non eravamo abituati, grazie ad una girandola di gag, equivoci, espedienti satirici ed exploit farseschi.
La trama si basa su quattro matrimoni in preparazione, che si intrecciano e si scompigliano tra di loro, anche se per tutti vi sarà un finale lieto.
Il cast è sapientemente assortito con un scelta di attori giovani quali Luca Argentero, Filippo Nigro, Carolina Crescentini e l’israeliana Moran Atias e facendo affidamento su collaudati veterani come Pozzetto, Placido e Pannofino.
Nicola è un poliziotto pugliese, immarcescibile don Giovanni, che deve impalmare Alopa, figlia dell’ambasciatore indiano e la vera difficoltà sarà come celebrare un matrimonio con rito indo-pugliese; Salvatore e Chiara, precari e senza denaro, in attesa di un figlio devono contentare le aspettative dei genitori che si attendono una fastosa cerimonia; un finanziere d’assalto ed una soubrette gossipara si apprestano ad un evento da favola da celebrare in un antico castello con centinaia di invitati, ed infine Fabio, Pm imbranato e misogino, che cerca di ostacolare il matrimonio del padre settantenne con una giovanissima massaggiatrice senza scrupoli.
I temi trattati sono alquanto seri, ma a differenza di celebri registi americani, in grado di fare della crisi del capitalismo, un morboso documentario didascalico privo di mordente, Lucini riesce a farci meditare col sorriso sulle labbra su temi di scottante attualità come l’invadenza dei Pm d’assalto, la difficoltà dei matrimoni misti, le difficoltà economiche di tanti giovani, la vacuità di un jet set autoreferenziale, l’eterna ricerca di avanzamento sociale attraverso delle nozze adeguate e tante altre problematiche antiche e moderne che al momento del matrimonio si acuiscono e richiedono tanta pazienza e saggezza per essere affrontate.


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19/10/2009

Lo spazio bianco, colorato di rosa

Un film fatto da donne, dalla regista Francesca Comencini alla protagonista Margherita Buy, dalla scrittrice Valeria Parrella alla sceneggiatrice Federica Pontremoli, che piacerà alle gerarchie vaticane, perché rappresenta un vero e proprio inno alla vita: invocata, protetta, anelata con le donne che creano attorno ad essa uno spazio sacro da tutelare con la foga delle antiche vestali.
La storia vede Maria, interpretata con notevole efficacia dalla Buy, insegnante di italiano in una scuola per adulti a Napoli frequentata da extra comunitari e poveracci, la quale, a seguito di una fugace relazione si trova gravida ed abbandonata dall’occasionale compagno. Una sorpresa per la donna, alle soglie della menopausa, che rischia di cambiare la sua vita, libera quanto modesta, fatta di sveglie antelucane, di lavoro appassionato, di cinema pomeridiano e di incontri serali con gli amici.
L’attesa per la nascita si protrarrà dopo la nascita stessa, avvenuta prematuramente, in quello spazio bianco, che dà il titolo al film, durato cinquanta giorni fatto di paure e speranze, di urla e silenzi, mentre la neonata staziona in incubatrice e senza che nessuno sappia, inclusi i medici, se comincerà a respirare, affacciandosi alla vita, o se miseramente morirà.
Tutto è sospeso, come in un’interminabile apnea, con Maria che riesamina la sua esistenza nelle interminabili ore trascorse vicino a quel delicato involucro fatto di vetro e tubicini, a quell’incubatrice che tiene appesa ad un filo la vita della piccolissima Irene.
La storia è ambientata a Napoli e la città viene disegnata in maniera delicata, lontana anni luce dai comuni stereotipi, anzi la regista, generosamente, ci descrive un ospedale, gli Incurabili, come dotato delle più moderne attrezzature per le cure dei prematuri. 
La pellicola reduce da Venezia, dove è stata lodata dalla critica, è la dimostrazione che si può realizzare un buon film senza spendere cifre folli, purché si abbiano idee e si possa contare su attrici di livello come Margherita Buy, che ci fornisce un’interpretazione di rara intensità.

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13/10/2009

L’artista, una pungente parodia dell’arte contemporanea

L’artista è un film che per il primo quarto d’ora di proiezione, realizzato con la macchina da presa quasi sempre fissa, la quale sembra incorniciare le immagini e spesso lascia fuori da essa cose e persone induce lo spettatore a rivolgersi al botteghino per avere dietro i soldi del biglietto, ma per chi resiste, spinto dalla curiosità, si dimostra un film originale che fustiga il mondo dell’arte contemporanea e ne mostra incongruenze, falsità ed il vuoto culturale che la circonda. 
L’artista… è un infermiere di un ospedale geriatrico, dove tra i suoi assistiti vi è un paziente autistico, che passa parte della giornata ad eseguire scarabocchi senza senso su  fogli di carta. Egli decide di presentarli come suoi ad una famosa galleria, che incautamente li scambia per capolavori e trasforma il taciturno giovanotto in un idolo della comunità artistica di Buenos Aires, con relative mostre personali, giudizi positivi dei critici ed acquirenti desiderosi di appendere nei loro saloni il frutto di un genio dell’arte contemporanea.
Il racconto continua con critici che descrivono estasiati le sue opere anche davanti ad innocenti studenti di corsi universitari, studiosi che le storicizzano elaborando risibili teorie, curatori di mostre pronti ad esporli in primo piano e mercanti in grado di venderle a peso d’oro. E tutto avviene senza mai mostrare allo spettatore un disegno dell’artista, probabilmente per non disgustarlo.
Alla fine il film si rivela un film spassoso ed interessante dove tutto si svolge tra i silenzi imbarazzati del protagonista ed il torrente di inutili parole degli esperti provocando effetti comici dirompenti ed una salutare sferzata ad un mondo gravitante intorno all’arte contemporanea prolisso, stolto ed autoreferenziale.

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11/10/2009

Basta che funzioni, l’ultima prova di uno sferzante Woody Allen

Dopo quattro film ambientati in Europa Woody Allen ritorna a Manhattan per  raccontare se stesso nella  storia  di un anziano professore, geniale quanto insopportabile, che si innamora di una fanciulla giovane e svampita, in grado però di insegnargli a  vedere la vita con occhi nuovi ed a saper cogliere un frammento di felicità dalle situazioni più strane, basta che funzioni(la situazione non altre cose come potrebbero intuire i mal pensanti).
Fallito come marito e dopo un tentativo di suicidio, il re dei petulanti Boris Yellnikoff, trascorre le giornate in lotta con il mondo, irritando gli amici che ancora gli restano con le sue lunghissime disquisizioni sull’inutilità del tutto, non c'è nulla che consideri positivo e anche le lezioni di scacchi che impartisce a giovani allievi divengono un'occasione di scontro.
Ex professore alla Columbia University, autoproclamatosi genio candidato al premio Nobel per la Meccanica Quantistica, una notte mentre sta per rientrare nel suo appartamento viene avvicinato da una giovane fuggiasca, Melody, che lo prega di lasciarla entrare nel suo appartamento. Melody è un’ingenua ragazza del Mississippi, che prende alla lettera ogni commento sarcastico fatto da Boris, il quale non fa che ripeterle che è solo una stupidella senza cervello, troppo fragile per vivere a New York. Ciononostante acconsente a farla restare per qualche notte. Col passare dei giorni però, la giovane si sistema in casa sua ed anzi riesce addirittura a calmare Boris durante uno dei suoi soliti attacchi di panico invitandolo a guardare con lei un film di Fred Astaire alla televisione. Alla fine nonostante quaranta e più anni di differenza si sposeranno.
Ascoltando Melody, Boris comincia a considerare positivamente e inaspettatamente il fattore fortuna e da allora si intrecciano nel film le situazioni più inaspettate: la mamma della ragazza riesce a raggiungere la figlia ed invece di convincerla a tornare a casa viene inghiottita dalla logica della grande città ed assume abitudini sessuali ultra moderne, prediligendo il rapporto a tre, mentre il padre, anche lui sopraggiunto, confessa la sua latente omosessualità e diventa felice solo grazie ad un vigoroso compagno.
Lo stesso Boris si ritroverà becco, perché Melody cede alle avance di un giovane di bell’aspetto, ma dopo aver ritentato il suicidio troverà una maggiore serenità tra le braccia di una medium. 
Nel film Woody non diventa  buonista e le dosi di cinismo che ci regala anche in questa occasione non sono certo poche, però questa volta ogni personaggio è visto nella sua debolezza, a dimostrarci che l’uomo è un coacervo di pulsioni e sentimenti.
Il regista, divenuto vecchio, supera l'incapacità di provare piacere di un tempo per suggerirci, novello Lorenzo De' Medici, che non è solo “la giovinezza che si fugge tuttavia”, è la vita stessa. È allora fondamentale catturare tutta la felicità che può venircene. Unico principio da rispettare: non nuocere agli altri. Unica regola valida: guardarsi dentro per capire cosa per noi è davvero importante. Senza falsi moralismi e, in qualche caso, credendo anche in un dio gay (e arredatore) per sperare in un aldilà su misura. 

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5/10/2009

Bastardi senza gloria, un film d’autore

Premetto che il film di Quentin Tarantino mi ha creato fastidio nel rivedere per l’ennesima volta tante scene di stupida violenza ambientate nel corso dell’occupazione nazista della Francia durante la seconda guerra mondiale. 
Dopo decenni trascorsi e due o tre nuove generazioni alla ribalta uccisioni più o meno di massa, condite da sangue e violenza, producono il voltastomaco, anche se bisogna sempre rammentare che, chi non vuole conoscere la propria storia, è condannato a riviverla.
La pellicola è stata preceduta da elogi a scatola chiusa da parte della critica, per rispetto del regista, del quale tutti ricordano indimenticabile Pulp fiction e come sempre è infarcita da un pirotecnico gioco di citazioni e rimandi per la gioia dei cinefili. In Bastardi senza gloria questa spavalda esibizione di conoscenze diventa lo stesso motore propulsivo della narrazione, che scorre veloce, grazie alla bravura degli interpreti, sui quali si estolle un vigoroso Brad Pitt nei panni di uno spietato giustiziere di nazisti.
La storia si impernia su una doppia vendetta, quella di un gruppo di soldati ebrei americani paracadutati dietro le linee nemiche ed alla ricerca di scalpi germanici e di una fanciulla, unica sopravvissuta al massacro della propria famiglia e proprietaria, per eredità, di un cinema a Parigi, nel quale si svolgerà una presentazione di gala con la partecipazione dei capoccia nazisti, incluso lo stesso Hitler.
Il regista farà precipitare gli eventi in maniera clamorosa, che non riveliamo e travolgerà con la sua irrefrenabile fantasia la stessa storia che abbiamo appreso sui manuali.
Con scioltezza egli mescola i generi dal western al film di guerra, dalla commedia al melodramma, senza trascurare il documentario e passa  disinvolto da Ford a Hawks, da Pabst a Fassbinder ed è sempre divertente e drammatico nello stesso tempo, dandoci una lezione di vero cinema, il quale potrà vivere solo sulla forza delle idee e non certo sugli effetti speciali.

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2/10/2009

Il Grande sogno

Il grande deluso di Venezia è Baaria che esce a mani vuote dalla competizione dopo tanto clamore mediatico, ma dalla mostra esce sconfitta soprattutto una certa idea  di cinema italiano incapace di rivaleggiare per ambizione, mezzi e di conseguenza incassi con il cinema europeo ed a distanza siderale da Hollywood. Un popolo che non riesce a far circolare all’estero le proprie idee, che non ha proposte da portare avanti e dar conoscere, è destinato ad un’inevitabile decadenza.
Anche il Grande sogno, diretto da Michele Placido ed interpretato da Scamarcio, si è dovuto accontentare del modesto riconoscimento alla Trinca di miglior attrice esordiente, il quale assegnato ad una veterana che da otto anni calca le scene suona come una beffarda presa in giro. 
La pellicola è un viaggio nella memoria storica del nostro Paese con le sue gioie ed i suoi dolori; una rivisitazione puntuale di quel grande sogno che nel ’68 accomunò più generazioni, i giovani in prima linea, gli anziani  ad osservare sbigottiti epocali cambiamenti dopo i quali niente sarà più come prima, anche se affioreranno più dubbi che certezze.
Il racconto è corale con varie storie che si intrecciano: vi è il poliziotto che vuole divenire attore, vi è la ragazza cattolica di buona famiglia che vede le ingiustizie del mondo, vi è l’operaio venuto da Torino capo del movimento studentesco e tante altre vite  con ognuna  qualcosa da raccontare.
Il film è pensato per i giovani, non certo per coloro che parteciparono alla grande contestazione, i quali, delusi, dopo aver creduto di poter cambiare il mondo, sono malinconicamente ridotti a cambiare i canali televisivi.
Alla fine i protagonisti prenderanno ognuno la propria strada, molti abbandoneranno il grande sogno, solo pochi continueranno a combattere, nelle istituzioni o nella lotta armata.
Un film da vedere, anche se non è un capolavoro, che squarcia un periodo ancora controverso del nostro recente passato e del quale è sempre difficile parlare, come dimostrano le accese contestazioni che si sono svolte in concomitanza con le prime proiezioni in varie città italiane.

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29/9/2009

La ragazza che giocava col fuoco
Seconda avvincente puntata della celebre trilogia Millenium

Dopo il successo di Uomini che odiano le donne torna sullo schermo Noomi Rapace, che ancora una volta veste i panni dell’hacker Lisbeth Salander, la dark-lady eroina dei romanzi polizieschi dello scrittore svedese Stieg Larsson. Stavolta la protagonista femminile in La ragazza che giocava col fuoco, secondo capitolo della stravenduta trilogia, dovrà confrontarsi con quello che le è successo da piccola.  
Il film ruota intorno ad un triplice assassinio, un avvocato e  due giovani giornalisti della rivista Millenium, la stessa diretta in precedenza dal protagonista maschile, alla vigilia di clamorose rivelazioni sulla tratta delle moderne schiave del sesso in Svezia. Sull’arma del delitto vengono rilevate le impronte di Lisbeth Salander, che però sembra scomparsa nel nulla. A cercarla sarà Mikael Blomqvist, che scopre il passato doloroso e misterioso che la ragazza non gli aveva voluto rivelare, fatto di violenza e sopraffazioni subite dal padre. 
Egli sfida coraggiosamente pregiudizi ed indizi fuorvianti, pur di dimostrare l’innocenza della ragazza nella quale crede fermamente.
Il film è un’abile contaminazione di generi, dal thriller al poliziesco, dalla soap al dramma ed ambisce a proiettare gli episodi avvenuti nella realtà svedese nel panorama della società contemporanea, con le sue stridenti contraddizioni e le sue inconfessabili deviazioni.
Spettacolare è la scena della resurrezione dell’invincibile vendicatrice Lisbeth, sparata e sepolta viva, la quale riemerge da sottoterra più implacabile che mai, per entrare di prepotenza nel’immaginario delle nuove eroine dello schermo: punk ed asociale, dark e bisessuale, tatuata e con piercing ubiquitari, abile col computer come sulla moto, senza parlare dell’uso della pistola e la pratica di arti marziali, una nuova icona, le cui fan aumentano ogni giorno in maniera esponenziale, perché finalmente hanno trovato una donna che non deve chiedere mai.

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26/9/2009

Baarìa un esaltante capolavoro

A volte la trepidante attesa per vedere un film sul quale i giornali hanno versato fiumi d’inchiostro, tessendo lodi ed entusiastici apprezzamenti, si traduce in una delusione ma ciò non capita certo con Baarìa, un vero capolavoro che ci restituisce la gioia del grande cinema e ci dimostra come i grandi riconoscimenti siano falsi simulacri e mentre il vincitore della mostra di Venezia non viene neanche preso in considerazione dai distributori, il lavoro di Tornatore, oltre a poter ben rappresentare il nostro cinema agli Oscar, sarà, al di la di una possibile statuetta, ampiamente ricompensato dai risultati del botteghino e verrà a lungo riproposto dalle televisioni.
Una cinquantina di anni di vita bagariota focalizzati su tre generazioni di appartenenti alla famiglia Torrenuova vengono raccontati con la forza della poesia, che, unita alla musica travolgente di Morricone e ad una fotografia perfetta, riescono ad emozionare  
e ad avvincere lo spettatore per i centocinquanta minuti abbondanti della proiezione.  
I due protagonisti Francesco Sanna e Margareth Made sono volti nuovi destinati a divenire famosi, ma con loro partecipano a costituire un grande affresco una moltitudine di attori famosi impegnati in straordinari cammei, a volte anche di pochi secondi, ricostituendo quel delicato tessuto connettivo, che i maestri neorealisti erano soliti approntare utilizzando una schiera di impareggiabili caratteristi, una specie necessaria e da tempo scomparsa. Scorrono perciò sullo schermo il politico Michele Placido, il giornalista Raul Bova, il guitto Vincenzo Salemme, la veggente Lina Sastri,  il compagno con il cappotto pesante Leo Gullotta, lo scalcagnato assessore Nino Frassica, l’ossessivo Beppe Fiorello cambiavalute clandestino e tanti altri a formare un indimenticabile mosaico.
La sequenza dell’assessore all’urbanistica non vedente, che si fa portare i piani regolatori in braille e li apprezza solo dopo aver intascato l’ineludibile mazzetta è anche essa memorabile e rammenta alcune scene di Mani sulla città.
I dialoghi sono in dialetto, ma francamente non me ne sono accorto e penso capirà tutto anche un seguace di Bossi, il quale sarà contento, che il dibattito politico sul tema possa rinfocolarsi fino a divenire una priorità nazionale.
Le immagini ci portano dietro nel tempo in un microcosmo popolare e picaresco dove il pranzo è pane e cipolla, i disperati si martellano un piede per non andare a combattere, il popolino sbeffeggia i federali ed ama ascoltare i poemi cavallereschi declamati dal pastore nella stalla. È un coro prettamente siciliano, che però acquista i caratteri dell’universalità con la forza di tanti piccoli paesi, dove in uno spazio ristretto è più facile distinguere il male dal bene, l’essere dall’ apparire, il sogno dalla delusione.
La regia riesce ad equilibrare  il racconto di un paese con quella di una famiglia, la storia  con la cronaca, la realtà dalla fantasia, la memoria con la riflessione, la religione con la superstizione, la fascinazione con la mostruosità ben espressa dalle temibili statue di villa Palagonia.
Si intravedono gli sviluppi cruciali e le nobili origini della lotta comunista tra liturgie dirigistiche e semplificazioni ideologiche, immortalate dalla candida affermazione del protagonista:”Cercare di cambiare il mondo senza tagliare la testa a nessuno”.
Un vero kolossal dell’anima che parla ai cuori con le ombre e con la luce, sperando che finalmente la Sicilia sappia liberarsi da suoi antichi mali e riesca a sprigionare tutta la sua vitalità creatrice

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25/9/2009

Pelham 123 un trilling da brivido

Un cast eccezionale, Denzel Washington e John travolta, accompagnati da comprimari di lusso come John Turturro e James Gandolfini ed un abile regista, Tom Scott sono la giusta miscela per un film che non delude le attese dello spettatore, somministrando brividi, suspence ed un finale nel quale i buoni vincono ed i cattivi vengono sconfitti, in linea con una tradizione americana che non si tradisce. 
La trama è ricavata da un libro di successo, che ha già dato lo spunto a più di un adattamento cinematografico, tra i quali alcuni famosi.
Walter Garber è un dirigente della metropolitana di New York, declassato per illecito e impiegato allo smistamento dei treni sulla linea di Lexington Avenue. In attesa di giudizio, una mattina resta coinvolto suo malgrado nel dirottamento di un treno partito da Pelham alle ore 1,23, da cui il nome della pellicola. 
A capo di una banda di sequestratori senza scrupoli c'è Ryder, nome "d'arte" che nasconde identità e storia di un criminale raffinato, in grado di contare, più che sul riscatto su di una  speculazione sulla borsa di New York, che nelle ore del sequestro subisce un crollo imprevisto. Presi in ostaggio diciotto newyorkesi e costretti nel vagone locomotore, Ryder trova nella voce e nella persona di Walter il suo negoziatore ideale.  Egli chiede al sindaco di New York dieci milioni di dollari per risparmiare la vita degli ostaggi ed un’ora di tempo per raccogliere il riscatto.
Dal buco nero della metropolitana di New York, riemergono i fantasmi e si liberano le paure di tutto ciò che oggi ci destabilizza: le guerre, il terrorismo, la crisi economica. Scorrono sul filo della paura storie ordinarie: uno studente che non conosce le parole dell'amore, un ex marines, una mamma vedova di guerra e il suo bambino orfano, impediti nel ventre della città, sotto tonnellate di cavi, acciaio e cemento. 
Ancora una volta il buio claustrofobico e il cratere aperto di Ground Zero, ancora una volta un fuorilegge convinto di essere nel giusto e un eroe che crede con ostinazione nella giustizia. Con uno stile iperdinamico e prospettive vertiginose, Scott riporta a galla dal "vuoto" e dal rimosso della città i crimini finanziari di Ryder, quelli morali di Garber e quelli sentimentali del sindaco.  
Dolorosamente consapevole, come l'America, di non essere più dalla parte giusta (ha accettato una tangente da una compagnia ferroviaria nipponica), Garber è alle prese col fuorilegge  Travolta, che mescola cattiveria e ironia, pratica la banalità del male e il sadismo gratuito. Voce a voce e corpo a corpo, Garber e Ryder si parlano, si ascoltano, si osservano e infine si affrontano per stabilire la vittoria di uno sull'altro, in virtù di un ritorno alla normalità rassicurante e di un tragitto di redenzione.
Garber è un uomo comune, demotivato sul lavoro ed un po imbolsito, un uomo ordinario che si ritrova in una situazione straordinaria, che sa governare con intelligenza, fede e coraggio permettendo la vittoria del bene sul male.


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21/9/2009

The Informant, un film deludente

Nonostante una superba interpretazione di Matt Damon, ingrassato ed imbruttito per esigenze di copione, The Informant, presentato fuori concorso alla recente mostra di Venezia, risulta una pellicola deludente, una dark comedy nella quale gli elementi tipici della spy story si mescolano con quelli della farsa e della commedia.
Viviamo in anni nei quali la corruzione ha superato e di molto i livelli di guardia in tutto il mondo occidentale, con maxi truffe economiche continue ed il film di Steven Soderbergh rivisita uno dei più clamorosi scandali del settore agro alimentare degli ultimi anni, puntando più sui toni della commedia che su quelli più aspri della denuncia, con una storia intricata, dove follia schizoide ed avidità sfrenata vanno tranquillamente a braccetto.
Matta Damon interpreta un alto dirigente di un gigante dell’industria agricola negli Stata Uniti, dove vigono severe regole sulla concorrenza e l’antitrust non è una figura evanescente e ridicola come da noi. Egli si accorge di manovre poco limpide della sua società, che cerca di accordarsi sul prezzo di alcune sostanze fondamentali con la concorrenza internazionale, per cui accetta per anni di fornire informazioni alla FBI. 

Divenuto una sorta di agente segreto, ne approfitta per sottrarre denaro alla compagnia, intestandolo in conti segreti a suo nome in vari paradisi fiscali. Damon è affetto anche da severi disturbi della personalità e col tempo racconta le sue strabilianti imprese, confondendo realtà e fantasia e rendendo impresa ardua decifrare la verità dalla fantasia. Il risultato saranno dieci anni di carcere interamente scontati ed un finale che lascia sbigottiti, oltre che un po’ annoiati, gli spettatori.

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12/9/2009

Cherì un fascinoso film in costume

Cherì ripercorre una storia realmente accaduta, raccontata nell’omonimo romanzo di Colette e che all’epoca fece meno scandalo di quanto ne provocano ancora oggi storie simili: l’amore sbocciato tra una cinquantenne ancora in forma ed un giovane non ancora ventenne.
La perturbante signora che seduce l’ancora acerbo fanciullo è interpretata da Michelle Pfeiffer, dal volto diafano e dagli occhi di una mielosa dolcezza, che diventano, se fissati troppo a lungo, devastanti e praticamente irresistibili. La narrazione è ambientata negli anni esaltanti della Belle epoque parigina, che precedettero le spaventose carnefice della prima guerra mondiale, tra sontuose cene da Maxime e fantastici soggiorni a Biarritz. Lea de Lonval, la seduttrice è una di quelle escort d’antan, che conquistarono una sorta di emancipazione grazie al fiume di denaro che affluiva nelle loro borse, grazie alle loro grazie, generosamente elargite a signorotti tanto danarosi quanto vogliosi. 
Alle soglie di un’ancora lontana menopausa Lea si concede il vezzo di svezzare Cherì, il figlio impacciato di una vecchia collega, impartendogli un’accurata istruzione erotico sentimentale. Il corso doveva durare qualche settimana, ma scocca l’amore ed il rapporto dura sei anni, fino a quando il ragazzo, su pressioni della madre, si decide a sposare una diciottenne di buona famiglia ed a troncare la relazione.
L’amore sarà più forte delle convenzioni ed avrà residue fiammate di passione, prima che il giovane ritorni dalla sposina in lacrime e metta la testa a posto.
Un film che farà sognare tante signore attempate ancora in fregola, perché lo schema sentimentale proposto da Cherì, una volta valido solo per poche fortunate, lentamente affascina e stuzzica gli appetiti delle donne reali che ci circondano.

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10/9/2009

Ombre rosse un coraggioso film politico

Doveva chiamarsi Anni luce per denunciare la distanza siderale che separa il mondo politico da molti problemi della nazione, dal precariato ai senza tetto, dagli immigrati allo sfruttamento sul lavoro; alla fine il titolo è diventato Ombre rosse, a rimembrare un classico della storia del cinema, ma in questa pellicola di Citto Maselli non si parla di indiani e cow boys, bensì di personaggi vanesi ed autoreferenziali, che con il loro egocentrismo hanno mandato in frantumi la sinistra italiana, ridotta ad una disordinata galassia senza programmi o validi punti di riferimento.
Siamo nel 2007, con Prodi al governo, un intellettuale di spicco viene invitato dai suoi ex studenti a visitare un centro sociale da loro creato e gestito ed il vegliardo, aduso alla speculazione più che all’azione, rimane colpito dalla vitalità di quel luogo, dove si fa assistenza, teatro, dibattito e lancia in un’intervista per una televisione locale l’idea di potenziare il centro e di crearne tanti altri.
La proposta è affascinante e molti vogliono cavalcarla per soddisfare le proprie brame di potere, dall’architetto di fama internazionale, idolatrato nei salotti che contano(ed è palese identificare nel personaggio una parodia del celebre Fuksas) allo ex capo dei sindacati, fino a politici e politicanti da strapazzo, dando luogo ad una penosa diatriba tra le tante anime della sinistra fino alla confusione più totale.
Tra gli interpreti da sottolineare la bravura di Arnoldo Foa nel tratteggiare il vecchio sindacalista saggio e deluso, mentre superba è la prova offerta da Roberto Herlitzka nella parte del famoso intellettuale, colto ed anticonformista.
Un film di denuncia fresco e coraggioso, il quale ci offre uno spaccato dell’attività intensa svolta  in questi centri sociali, animati da giovani generosi e disinteressati e che accomuna sinistra e mondo cattolico in un abbraccio ideale nel soccorrere il prossimo con l’illusione di poter e dover cambiare il mondo. 


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9/9/2009

Segnali dal futuro, un invito a meditare
L’eterna diatriba tra determinismo e casualità

Una pellicola, quella interpretata da Nicolas Cage, che trascina gli spettatori in uno scenario fantastico, che pone inquietanti interrogativi: esistono altri mondi abitati, l’universo è retto dal determinismo o dalla casualità? Una serie di quesiti in grado di trasformare la trama, senza l’ausilio di particolari effetti speciali, in un avvincente susseguirsi di colpi di scena, con la minaccia di una catastrofe sempre imminente e spaventosamente distruttiva, capace di creare la tensione adatta a tenere alto l’interesse degli spettatori.
La storia ha inizio nel 1959, quando per celebrare l'apertura di una  scuola viene indetto un concorso in cui gli studenti sono chiamati a disegnare ciò che immaginano avverrà nel futuro, i lavori verranno conservati in una capsula che verrà aperta cinquant'anni dopo. Tutti i bambini disegnano quello che pensavano si verificherà in futuro, tranne Lucinda, una bambina ipersensibile dotata di poteri supernormali, che scrive sul foglio, guidata da voci bisbigliate, una serie di numeri senza alcun apparente significato.
Nel 2009 una nuova generazione di studenti  apre la capsula per visionare il suo interno e lo scritto di Lucinda finisce nelle mani di Caleb Koestler. Il padre di Caleb è il professore del MIT e astrofisico John Koestler, il quale casualmente  studia i numeri e scopre in essi un messaggio codificato, che predice con perfetta precisione le date e i luoghi di ogni catastrofe  verificatasi nel corso degli ultimi 50 anni, oltre a tre eventi  che devono ancora avere luogo.
John è presente durante il primo caso, un incidente aereo in cui perdono la vita 81 persone, legittimando tutti i numeri, egli cerca anche di sventare il secondo evento, ma non può fare nulla contro il deragliamento della metropolitana di New York, che uccide numerose persone tra i passeggeri e tra coloro in attesa alla stazione. John inizia a convincersi che la sua famiglia abbia un ruolo significativo in questi episodi, sua moglie è infatti morta anni prima proprio in uno degli eventi segnalati sul misterioso foglietto, mentre il figlio è stato il primo ad entrare in possesso del messaggio codificato. Nel frattempo Caleb inizia ad udire voci, proprio come era successo a Lucinda. Per evitare l'avverarsi della terza profezia, che prevede la distruzione globale del pianeta, John e suo figlio si mettono ad indagare, rintracciando Diana, la figlia di Lucinda.
Dopo varie indagini, John scopre che le voci sono di natura aliena, infatti un gruppo di extraterrestri sta organizzando in segreto il salvataggio di varie coppie di bambini con lo scopo di trasferirli su un pianeta molto simile alla terra, dove splende un sole e dovunque ci sono campi lussureggianti con floride messi.
Il film si conclude con John che, dopo aver affidato agli alieni suo figlio Caleb e la figlia di Diana torna a casa con i suoi cari aspettando tranquillo l'imminente distruzione del pianeta, consapevole che a determinare il nostro destino il caso non è solo, ma a guidarlo vi è un’entità superiore.


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7/9/2009

Videocracy, uno spietato ritratto di una società alla deriva

La mostra di Venezia, oltre a capolavori assoluti come Baaria, presenta anche interessanti contributi come Videocracy, una puntigliosa carrellata della voglia di apparire che ha contagiato i giovani, dalla nascita della televisione privata ai programmi cult di oggi come il Grande fratello o X - Factor.
La pellicola vuole scimmiottare il Caimano nel suo genuino ardore di denuncia dello straordinario successo del Cavaliere, ma Gandini è un pallido ectoplasma al confronto con Moretti, un volenteroso riciclatore di immagini di repertorio e nuovi episodi slegati e girati con una video camera parkinsoniana, per cui alla fine della proiezione la figura del Berlusca non viene affatto sminuita, anzi appare quella di un gigante al cospetto di una tribù di pigmei.
Fabrizio Corona, il paparazzo d’assalto noto alle cronache per le sue vicissitudini giudiziarie e per le sue infinite provocazioni, assurge a protagonista principale della storia ed ingenuamente confessa i suoi reati, come l’estorsione perpetrata a Marina Berlusconi con la richiesta di 20.000 euro per non pubblicare alcune sue foto imbarazzanti. Dopo la sua detenzione di 80 giorni nel carcere di Potenza i riflettori si accendono prepotentemente su di lui, trasformandolo da un avanzo di galera ad icona della vacuità, la cui presenza per un ora in un locale viene ricompensata con 10.000 euro, la paga di un anno di un precario con famiglia a carico. Fabrizio non fa che profumarsi ogni momento e recitare stupide frasi ad effetto tra le quali spicca per idiozia quella di essere un moderno Robin Hood, il quale ruba ai ricchi e conserva il maltolto per sé oppure, sfidando il fisco, che la sua squallida attività in poco tempo tempo gli ha reso due milioni e mezzo di euro, una bazzecola rispetto ai compensi d un calciatore.
Per la gioia di signore e signorine, a parte qualche gay di passaggio, vi è poi una scena sotto la doccia nella quale il macho esibisce un nudo integrale da schianto, tra muscoli scolpiti ed abbronzatura nord africana, appena penalizzato dalla visione di un inaspettato ipogenitalismo. 
L’immagine più scioccante del film è costituita dal volto patibolare di Lele Mora, mentre ascolta estasiato le note di Faccetta nera scandite dal suo pacchiano telefonino, non certo per le simpatie politiche di un così viscido personaggio, che non ci interessano affatto, ma perché un regime che tanto ha rappresentato nella nostra storia, nel bene e nel male, in un contesto vacuo ed evanescente come quello rappresentato, viene ridotto ad una grottesca quanto innocua caricatura.
Quel ghigno sguaiato incute timore e tristezza, perché esalta un universo di puttanelle in cerca di successo e palestrati pluritatuati aspiranti tronisti, i quali pascolano indisturbati tra spiagge da sogno e night club postribolari.
Un democratico viene disgustato dallo spettacolo di tanta esibita sciatteria, mentre un nostalgico si dispera per una così vomitevole rievocazione, che riduce una sofferta ideologia ad un miserevole gioco di società, un fievole carillon in sintonia con le risate di un oscuro regista, mentre il nero della sua fede viene ingoiato dal biancore abbacinante della scena.

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28/8/2009

Ricatto d’amore con la Bullock nature

La stagione cinematografica, dopo la lunga sosta estiva, che ha visto nelle arene balneari la stanca ripetizione dei film di maggior successo dell’anno, riprende proponendo un film gustoso interpretato da Sandra Bullock e Ryan Reynolds, molto atteso per il primo nudo integrale della casta protagonista.
La scena nature non è particolarmente eccitante, sia perché le grazie anatomiche della brava attrice americana non sono particolarmente prorompenti, ma soprattutto perché con accorte acrobazie nell’inquadratura è più quello che si immagina che quello che si vede.
La trama scorre piacevolmente e precipita quando la potentissima dirigente editoriale Margaret (Sandra Bullock), rischiando di essere deportata nella sua terra natale, il Canada, per la scadenza del suo permesso di soggiorno, escogita un ingegnoso strattagemma: dichiara di essere fidanzata con il suo assistente Andrew (Ryan Reynolds), che non sospetta nulla e che lei ha tormentato per anni. Lui accetta di partecipare all'imbroglio, ma pone come condizione una promozione e la stampa di un suo manoscritto. 
L'improbabile coppia si dirige allora in Alaska per incontrare la bizzarra ed inaspettatamente facoltosa, famiglia dell'assistente, interpretata da validi comprimari quali Mary Steenburgen, Craig T. Nelson e Betty White e questa donna metropolitana sempre impeccabile e sotto controllo, severissima ed avara nelle relazioni personali, si ritrova in tante situazioni in cui risulta un pesce fuor d'acqua. Con un imminente matrimonio in vista e un ufficiale del servizio immigrazione alle calcagna, Margaret e Andrew giurano con riluttanza di rimanere fedeli al piano, nonostante le conseguenze imprevedibili che potrebbe avere ed alla fine la conclusione della vicenda sarà in linea con le attese dello spettatore.
Un film dignitoso che regala risate e due ore di svago che ripagano completamente il biglietto.

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28/7/2009

Harry Potter e il principe mezzosangue, un successo scandaloso

Confesso di non aver visto alcuno dei precedenti film della saga di Harry Potter e me ne vanto e di essermi convinto a visionare l’ultimo unicamente spinto dalla curiosità di cercare di capire lo scandalo di un libro, da cui è tratta la pellicola, che vende in una settimana 72 milioni di copie, mentre l’enciclica del pontefice, stampata in venti lingue,  ne venderà solamente 600.000. 
Anche ai botteghini un trionfo e tutti i precedenti record di incasso battuti, a dimostrazione che anche in piena estate il pubblico risponde, se viene offerto un prodotto che soddisfi i suoi gusti.
La trama ricalca le storie precedenti, incentrata sull’eterna lotta tra il Bene ed il Male, l’unica novità è la maggiore età dei protagonisti, oramai sensibili agli stimoli ormonali ed impegnati nelle prime schermaglie amorose:   tornato il Signore Oscuro, il Male invade il mondo babbano e quello magico. Harry, dopo aver passato l'estate lontano dagli zii, è raggiunto da Silente che cerca il suo aiuto per convincere il professor Horace Lumacorno a riprendere il ruolo di professore di pozioni ad Hogwarts ma soprattutto per recuperare un importante ricordo che il vecchio insegnante custodisce gelosamente e che potrebbe fornire importanti indizi sul passato di Voldemort.
Gli effetti speciali sono come sempre spettacolari, mentre gli episodi spesso non rispettano il pensiero della Rowling, la scrittrice, con grande malcontento di tutti coloro, e sono tantissimi a leggere il loro disappunto sui blog, che vorrebbero il film più fedele a ciò che viene raccontato nel libro.
Gli intrighi amorosi ci presentano un protagonista diverso dal solito, più simpatico ma anche meno magico, più sviluppato sul campo dei rapporti interpersonali. Ma il risultato non è poi così felice come si potrebbe pensare: i toni da commedia adolescenziale finiscono per rendere poco percettibili gli accenni horror che la saga di Harry Potter da sempre predilige, e le turbe sentimentali passano dunque in primo piano a discapito dell'azione. 
Possiamo concludere che per  gli appassionati del genere questo "Principe Mezzosangue" è un film godibile, che saluta con nostalgia, anche se con poco pathos, uno dei personaggi più apprezzati del mondo potteriano, che sotto la folta barba e i lunghi capelli bianco argentati ha trovato l'eccezionale performance di un Michael Gambon (senza nulla togliere al Richard Harris, scomparso dopo il termine delle riprese del secondo episodio) il cui sguardo ha saputo ben sintetizzare saggezza, affetto e paternità. 

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16/7/2009

Questioni di cuore da dimenticare
Se si vuole palpare con mano la crisi di idee e di contenuti del cinema italiano, il quale sopravvive solo e soltanto grazie allo spreco dei generosi finanziamenti dello Stato, basta  guardare Questioni di cuore di Francesca Archibugi, un film noioso, scontato, prolisso e soprattutto inutile.
Una storia apparentemente originale: l’incontro in una unità coronarica di due personaggi molto diversi, uno sceneggiatore ed un meccanico, che finiscono per diventare amici per la pelle, fino a quando, per il riacutizzarsi della patologia cardiaca, uno dei due passa a miglior vita.
A fare da corona ai due interpreti Antonio Albanese ed un imbruttito (per esigenze di copione) Kim Rossi Stuart, alcuni nomi di spicco del nostro cinema impegnati in brevi cammei, giusto per arrotondare i guadagni: da Stefania Sandrelli a Carlo Verdone ed uno straripante Paolo Villaggio, indicato nei titoli di testa come attore ed in scena complessivamente per meno di un minuto.
Nella  pellicola vi è un glorificazione dell’amicizia, un sentimento importante, oggi che anche la famiglia è entrata in crisi e si mette in risalto l’aumento della solitudine, che attanaglia gli abitanti delle grandi metropoli, ignoti spesso agli stessi condomini del palazzo dove vivono. Viviamo ore ed ore davanti agli schermi sempre più grandi delle nostre televisioni e non ci accorgiamo che la vera vita è fuori delle nostre case.
Questioni di cuore è stato girato nelle stesse strade di Roma utilizzate per Accattone di Pasolini ed il finale di Roma città aperta, un cambio di testimone ideale, voluto dalla regista, tra il grande cinema italiano del dopoguerra ed i malinconici prodotti dei nostri giorni. 
Il film tra tante incertezze ha però un merito che bisogna riconoscergli: considera la morte un evento naturale, da accettare senza timori, come giusto epilogo della vita ed il protagonista, peraltro credente, non la rifiuta e, gravemente ammalato, si affida nelle sue mani misericordiose.

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29/6/2009

Uomini che odiano le donne, film da non perdere

Ricavato dal best seller mondiale di Stieg Larsson, da tempo in testa alla classifica dei libri più venduti sia in Italia che all’estero, Uomini che odiano le donne è un thriller avvincente in grado di lasciare lo spettatore col fiato sospeso per gli oltre centocinquanta minuti, durante i quali continui colpi di scena si mescolano a reminescenze del passato ed a scene violente condite da sado masochismo, fino alla doppia sorpresa finale.
I fantasmi che agitano il racconto hanno i contorni del male assoluto, che da sempre domina nel mondo e non solo nei nostri tempi infelici.
L’apertura riproduce il prologo del romanzo con l’arrivo annuale di fiori secchi al patriarca di una corrotta dinastia di industriali i Vanger, a ricordargli la scomparsa di una sua dolce nipotina avvenuta quaranta anni prima. Il vecchio industriale non vuole arrendersi e ingaggia il direttore della combattiva rivista Millenium, da poco condannato a tre mesi di reclusione per calunnia, sperando che possa diradare il difficile caso. Le indagini vanno a rilento fino all’arrivo al fianco del giornalista detective di uno strano personaggio, Lisbeth, magra e bassina, androgina e bisessuale, inondata da tatuaggi e piercing, ma soprattutto devastata da esperienze del passato che la hanno resa un soggetto scorbutico ed inaffidabile, una vera mina vagante, in lotta con tutto e tutti, ma soprattutto contro i maschi malvagi e pervertiti, come il suo tutore, il quale la costringe a rapporti orali e sodomitici, legata ed imbavagliata, fino a quando la ragazza non saprà vendicarsi in maniera esemplare.
La ragazza interpretata da Noomi Rapace (mai nome fu più adatto) è una hacker di rara abilità e grazie ai prodigi della tecnologia riuscirà a far riemergere una scomoda verità così a lungo sepolta nell’oblio, assicurando ai colpevoli una terribile punizione.
La narrazione è intervallata da scorci di paesaggi nordici innevati e ci permette di avvicinarci ad un mondo lontano dalle nostre latitudini più nel tempo che nello spazio, esemplare è il modo di amministrare la giustizia in una nazione che non conosce amnistie, indulti e sospensioni condizionali della pena e dove anche tre mesi di condanna vanno espiati, ma in carceri umane dotate di ogni confort incluso internet in ogni cella, un mondo distante anni luce dai gironi infernali dei nostri medioevali penitenziari. Una società più ricca ed agiata, dove lo Stato si interessa al cittadino dalla culla alla tomba senza però dargli la felicità e dove bande di teppisti vanno a braccetto al più feroce capitalismo impegnato in commercio di armi ed vivere alle spalle delle nazioni più povere.
Lo sconosciuto regista Oplev ci ha donato un film esemplare ed ha creato una nuova stella del genere thriller, cattiva e giustiziera, affascinante senza essere bella, in balia di un passato che non le da tregua, in grado di divenire l’icona incontrastata di tutte le appartenenti al gentil sesso del pianeta e di punire tutti gli uomini che odiano le donne, nei paesi islamici come nel nostro brutale Occidente.

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19/6/2009

Vacanze ai Caraibi
Un cinecocomero scialbo e scontato
Il successo ottenuto nell'estate del 2008 con Un'estate al mare ha suggerito ai fratelli Vanzina il classico bis. Così arriva nelle sale dal 12 giugno un'altra gradevole commedia dei registi romani intitolata Un'estate ai Caraibi. Seguendo una strategia più volte vincente, anche il nuovo cinepanettone formato estivo è strutturato in episodi (quattro), con un gruppo di attori scelti con criteri regionali, dando eguale spazio a romani, napoletani, toscani e milanesi. Nel cast Gigi Proietti, Enrico Brignano, Enrico Bertolino, Maurizio Mattioli, Paolo Conticini, Biagio Izzo, Carlo Bucirosso e Paolo Ruffini con bellissime come Martina Stella, Alena Seredova e la pornostar Edelweiss.
La scelta di far uscire una pellicola in piena estate quando la frequentazione dei cinematografi tende a scemare è senza dubbio coraggiosa ed i primi risultati del botteghino sono lusinghieri, nonostante le macchiette siano scontate ed il richiamo del mare e delle spiagge dei Caraibi sotto il solleone è meno invitante dei mesi invernali, potendo ammirarsi su qualsiasi litorale fanciulle in topless e palestrati pluritatuati.
La critica è stata abbastanza severa a differenza del pubblico che è accorso a frotte sin dai primi giorni. Molto lodato l’episodio che vede impegnato Gigi Proietti nelle vesti di un truffatore, mentre la breve comparsa del sosia di Berlusconi sa tanto di Bagaglino ed è di uno squallore penetrante.
A me è molto piaciuta l’interpretazione di una new entry dello schermo dal futuro radioso Eva, una escort dal lato B veramente stupefacente, se l’avessi incontrata prima le avrei trovato una parte di rilievo nel mio Elogio del sedere femminile o quanto meno nel Reiterato panegirico del posteriore muliebre.(entrambi consultabili in rete e buona visione).

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7/6/2009

Vincere una torbida pagina di storia

Accolto tiepidamente dalla critica italiana, Vincere, di Marco Bellocchio sulla stampa specializzata straniera è stato viceversa salutato come uno ottimo film in grado di gareggiare alla pari con i favoriti per la conquista del palmares.
La trama rende conto di un aspetto poco noto della nostra storia, un amore giovanile di Benito Mussolini con Ida Dalser, sancito da un matrimonio civile  e dalla nascita di un figlio riconosciuto dal duce. Un episodio sul quale dubito che gli storici abbiano posto il loro imprimatur definitivo  e che fu trattato alcuni fa in un servizio televisivo che fece grande scalpore.
La narrazione scorre come un gigantesco affresco con i toni di uno struggente melodramma, intercalato da immagini di repertorio celebri, dalle cruente battaglie della prima guerra mondiale alle inqualificabili scorrerie delle squadracce in camicia nera, dai discorsi del duce dal balcone di Palazzo Venezia alla firma del Concordato.
L’interpretazione di Giovanna Mezzogiorno è semplicemente superba, sia quando ci mostra ripetutamente, completamente nudo, il suo esile corpo, sia quando lavora magistralmente con un volto espressivo ed un uso degli occhi da cinema muto.
All’inizio vi sono numerosi, quanto gratuiti, amplessi tra un giovane ed aitante Benito e la Dalser, conditi da sonori ed imbarazzanti mugolii di orgasmi, a rafforzare la fama iperviriloide del futuro dittatore. Poi la inaspettata gravidanza, il matrimonio, la nascita del bastardello dal nome altisonante, riconosciuto, ma non gradito.
La donna non rinuncerà al suo amore ed ai suoi diritti con una tenacia ed una perseveranza che la condurranno al manicomio, sana di mente, pazza solo della sua passione sviscerata per un uomo che non la desiderava  più e divenuto potente decise di annientarla.
I fotogrammi scorrono solenni come in una funesta odissea nella quale ambizione e solitudine ci riportano ad un’Italia che pochi oramai possono dire di aver conosciuto di persona. Ci mostrano la dolorosa parabola di una donna che, nell’illusione di un amore finito, ebbe il coraggio di combattere da sola contro il potere, trascinando anche il figlio nello stesso triste destino. Moriranno infatti entrambi tra le mura di un manicomio, Ida nel 1937, Benito nel 1942.
Impagabili sono le scimmiottature  che il figlio fa del celebre genitore, mimando la sua grottesca retorica, fatta di gesti ridicoli e di una mimica folle e disarticolata; sembra quasi di rivedere il divino Totò in una delle sue inimitabili imitazioni. Penose sono invece  le scene di vita manicomiale dove le sventurate recluse, nude e legate ai loro lettini, sono costrette ad un’esistenza misera e senza speranza di redenzione.
Un film che ci restituisce un Mussolini inedito, spietato e crudele, mentre la sua fama di maschio superdotato ne esce visibilmente rafforzata, anche se non ha mai subito incrinature, al punto che le compagne della infelice Ida le chiedevano curiose quanto fosse grosso l’uccello dell’infaticabile condottiero.

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3/6/2009

Settimo cielo: un elogio dell’amore senile

Arriva nelle sale una pellicola che farà parlare di sé e che dovrebbe essere consigliata agli over sessanta, infatti nella sala gremita dove ho assistito alla proiezione l’età media era la più alta mai riscontrata con prevalenza di pubblico femminile, che seguiva inebriata le peripezie erotiche della protagonista, una matura signora, dai seni penduli e dal sedere a mandolino, impegnata a passare dal letto del marito coetaneo a quello dell’amante settantaseienne, esibendosi in spericolate pose del Kamasutra ed in sonori orgasmi da far impallidire una teenager, il tutto ovviamente rigorosamente nature, sprezzante delle carni flaccide e del volto scavato dalle rughe, che il tempo impietoso ha devastato con la forza di un aratro.
Un film fantascientifico per l’illusione di tanta energia erotica scatenata in vispi quanto infaticabili  vegliardi, un film dell’orrore per la vista di corpi nudi orripilanti con i membri maschili rattrappiti a  rammentare  la crudele legge del disfacimento, un film comico per le continue sequenze di interminabili amplessi al di fuori di ogni ragionevole probabilità, ma soprattutto un film tragico, che ci dimostra come il vento delle passioni possa coglierci in ogni momento della nostra vita, travolgendo le nostre certezze e strapazzando la nostra quiete familiare, nello stesso tempo ricordandoci che la felicità non ha età se sappiamo abbandonarci alle sirene dell’amore.
Una storia apparentemente banale, ambientata tra gente normale come sono i componenti di questo insolito triangolo sentimentale, che vuole sfatare il mito secondo il quale il sesso e le passioni siano appannaggio unicamente dei giovani e gli anziani diventino con il trascorrere inesorabile del tempo dei paria senza diritto alle gioie ed ai dolori dell’amore.


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21/5/2009

State of play un thriller incalzante

State of play, gioco di potere, ispirato ad una miniserie di successo trasmessa nel 2003 dalla Bbs, ricalca anche celebri film del passato come il preistorico L’ultima minaccia del 1952, del quale ripropone il finale, che scorre assieme ai titoli di coda, quando il mitico Humprey Bogart fa ascoltare il rombo delle rotative ad un gangster smascherato. 
In State of play un imbolsito quanto gladiatorio Russel Crowe celebra il trionfo del quarto potere, in grado di dipanare intrighi, chiarire misteri e fare giustizia, con lo scorrere frenetico dei macchinari del Washington Globe, che risuonano fragorosi come moderne trombe del giudizio. Un richiamo inconscio e costante si avverte anche con lo scandalo Watergate, che dà il nome ad una faraonica struttura immobiliare della fantomatica organizzazione al centro della trama, la quale ambisce a commesse belliche ultra miliardarie e ad impossessarsi, privatizzandolo, del sistema di sicurezza interno degli Stati Uniti. Crawe, nei panni del giornalista di razza, è beone, sovrappeso, capellone e indisciplinato, ma riesce a dipanare con la sua inchiesta i retroscena di una gigantesca corruzione che investe politica, industria ed esercito, la triade onnipotente che comanda non solo l’America, ma tutto il pianeta, facendoci percepire che l’ignaro cittadino ha un disperato bisogno di un’adeguata chiave di lettura per capire gli avvenimenti che lo riguardano.
Le sue indagini faranno tremare le poltrone più importanti del Congresso, rivelando intrighi inquietanti, mescolati di sesso e denaro, fino al finale imprevedibile. Scopriremo inoltre che tutto il mondo è paese, infatti mentre noi dobbiamo vedercela con mafia, camorra e ndrangheta, oltre oceano la criminalità è talmente infiltrata nelle istituzioni da confondersi con essa e la maggiore sorpresa è constatare che il napoletanissimo cavallo di ritorno alberga non solo all’ombra del Vesuvio, ma viene praticato anche all’ombra del cupolone della Casa Bianca. Allo strapotere di una società basata unicamente sull’accumulazione di denaro, facendo leva su un puteolente amor patrio e su una miriade di militari esaltati e violenti, la storia contrappone l’utopia di un giornalismo libero capace di far venire a galla la verità e trionfare la giustizia. 
Una favola moderna che, mentre internet con le sue notizie in tempo reale ed i suoi blog si appresta a far scomparire la carta stampata, farà sognare, sulle ali di una eccitante fantasia, migliaia di aspiranti cronisti italiani, costretti tra precariato ed insoddisfazioni, ad un’ interminabile anticamera nelle redazioni di quotidiani e televisioni locali. 


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19/5/2009

Angeli e demoni, un trionfo annunciato

Preannunciato da mesi come il film dell’anno, Angeli e demoni non ha tradito le attese e da giorni sta letteralmente sbancando il botteghino con cinema affollati come ai bei tempi ed un trionfo completamente meritato. 
Il film con la regia di Ron Howard e l’interpretazione di Tom Hanks, un binomio perfetto, si avvia a superare gli incassi del Codice da Vinci, del quale ricalca gli stessi ingredienti di successo, suspence dal primo all’ultimo minuto,contaminazione di storia e fantasia, lotta tra il bene ed il male ed una trama anticonvenzionale in grado di provocare vibrate proteste da parte delle gerarchie vaticane. 
La pellicola è ricavata da un best seller di Dan Brown, lo stesso autore del Codice da Vinci e si svolge nella fascinosa cornice di una Roma rinascimentale e barocca, con le sue chiese grandiose ed i suoi capolavori artistici, i quali scorrono come in un’ideale visita guidata densa di colpi di scena, che aumentano gradualmente la tensione e siamo certi apporterà un cospicuo vantaggio turistico alla Città eterna, la quale vedrà nei prossimi anni fiumane ancora più incontenibili di quelle attuali ripercorrere i luoghi dove si volge la trama di Angeli e Demoni. Il messaggio del film è moderato e conciliatorio riguardo ai complessi rapporti tra scienza e religione, tra fede e ragione, dicotomie non risolte dalla modernità e che creano dubbi ed incertezze all’uomo dei nostri giorni. 
La stessa lotta tra bene e male sempre presente in ogni storia lascia perplesso lo spettatore e non gli permette di prendere chiaramente posizione. La narrazione si svolge mentre, simultaneamente, al Cnr di Ginevra viene rubato da una setta massonica, gli Illuminati, un dispositivo contenente una scintilla primordiale, un frammento di antimateria in grado di produrre una gigantesca deflagrazione ed a Roma si sta svolgendo un conclave per nominare un nuovo pontefice, essendo morto, e si scoprirà assassinato, il precedente, che fa pensare per molte circostanze a papa Luciani. Nel frattempo vengono rapiti i quattro cardinali favoriti alla successione e gli Illuminati minacciano di far esplodere la Città del Vaticano per vendicare l’antica offesa patita da Galileo. 
Durante la sede vacante le principali funzioni di supplenza sono svolte da un giovane camerlengo, pupillo del papa scomparso, che egli con amore filiale chiamava padre, volendo intendere un genitore nel senso biblico e non spirituale, né più né meno di come Noemi appella papi il nostro superdotato Berlusca. Viene chiamato per risolvere la difficile situazione il professor Langdon, interpretato da Tom Hanks, il superesperto di simbologia e sette segrete, laico e miscredente inveterato. Comincia una lotta contro il tempo per evitare la catastrofe con una serie di colpi di scena continui al di fuori di ogni logica storica e scientifica, ma non per questo meno entusiasmanti per lo spettatore, il quale rimane avvinto fino all’imprevedibile finale. 
Un grande film che farà discutere a lungo teologi e ben pensati, ma che ci riconcilia con il grande cinema. 


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11/5/2009

Fast and furious,solo parti originali

Un nome strambo per un film spettacolare per ritmo e dagli stupefacenti colpi di scena, che piacerà ai giovani, agli appassionati delle corse automobilistiche e che sarebbe piaciuto molto anche ai Futuristi, amanti  del brivido della velocità e del più frenetico dinamismo. 
Continue scariche di adrenalina ad ogni inquadratura con auto che sfrecciano nel traffico come bisonti infuriati, travolgendo passanti, vetrine ed ostacoli di ogni genere.
Una storia di traffici illeciti tra il Messico e gli Stati Uniti con i buoni che lottano contro i cattivi, uno stereotipo caro al pubblico americano modernizzato con inquadrature ed effetti speciali da brivido.
La corsa effettuata in pieno centro cittadino per designare i piloti del narco trafficante messicano, incontrastato boss della droga, rammenta la celebre gara delle bighe di Ben Hur, nella quale tra i concorrenti non esistevano regole ed ogni scorrettezza era permessa, pur di raggiungere per primi il traguardo.
Volti truculenti, sguardi assassini, cosce interminabili protrudenti da microscopiche minigonne, fanno da corona alle continue scorribande automobilistiche con vetture truccatissime e fuoristrada in versione carro armato.
Nel suo genere un film riuscito grazie all’ottima regia di Justin Lin e ai due protagonisti Vin Diesel e Paul Walker, affiancati da donne altrettanto brave.
La carica emotiva è pari alla tensione dei piloti delle auto roboanti e super veloci ed incatena per due ore lo spettatore alla poltrona togliendoli il fiato.

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6/5/2009

Diario di una ninfomane

Giunge nelle sale, dopo un interminabile battage pubblicitario, il Diario di una ninfomane e possiamo affermare che alla fine la montagna partorì un topolino; infatti si tratta di un prodotto appena decente, al limite tra la denuncia pseudo femminista  e le luci rosse.
Tratto dal best seller autobiografico della scrittrice francese, spagnola d’adozione, Valérie Tasso, la pellicola ripercorre le peripezie erotiche della protagonista, dalla deflorazione, avvenuta senza particolari emozioni a quindici anni, alla redenzione finale, che riscatta la storia, quando incontra un disabile alla ricerca di tenerezza e gli si dona con tutta la sua carica erotica e vitale, cercando disperatamente di sopperire alle menomazioni dello sfortunato cliente.
Tra l’inizio e la fine vi è una serie interminabile di nudi integrali del corpo esile dai seni appena accennati della debuttante Belén Fabra nei panni(si fa per dire) di Valérie, infiniti amplessi, per la gioia visiva dei voyeur, alcuni cunnilinctus, una originale fellatio subacquea ed una sodomizzazione alla pecorina, giusto per concludere.
Un prezioso cameo è offerto da Geraldine Chaplin, la nonna di Valérie, che consiglia alla nipote di tenere un diario delle sue esperienze sessuali e la invita a non perdersi alcuna occasione:”Approfitta della giovane età, tutto il lasciato è perso”, “Il matrimonio e la prostituzione sono la stessa cosa, nel primo la dai ad un solo uomo che ti paga per tutta la vita, nel secondo la dai a tanti che ti pagano volta per volta”. Una filosofia spicciola della quale fa tesoro l’intraprendente ed insaziabile fanciulla, che comincia a mettere ko schiere di giovani e focosi amanti, nessuno dei quali riesce a mantenere i suoi ritmi forsennati ed i suoi orgasmi a ripetizione. Si salva tra i tanti messi alle corde Hassan, un poderoso negro, iperdotato, che periodicamente viene a trovarla, naturalmente in senso biblico.
Incontrerà poi una miriade di uomini, tra i quali nevrotici, violenti e sado masochisti, anche una bottiglia di Coca cola a mo’ di membro virile, fino a quando, perso più volte il lavoro, prima di impiegata poi di commessa,  matura la decisione di prostituirsi, un po’ per infliggersi un’autopunizione, ma soprattutto per guadagnare, placando nello stesso tempo la sua irrefrenabile ninfomania. Si rivolge alla navigata maitress di una casa d’appuntamento alla page nel cuore di Barcellona e comincia la sua nuova esperienza, fino all’incontro con il disabile che la riscatterà, aprendole gli occhi sulle bellezze della vita per chi, come lei, ha la fortuna di essere sano.
Un finale inaspettato che riabilita il film e lo rende degno di essere visto.

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27/4/2009

Generazione 1000 euro
Una incalzante denuncia del lavoro precario

Un film amaro condotto con sottile ironia da Massimo Venier, che si avvale di attori bravi nell’ interpretare le ansie, i desideri repressi, l’incertezza del futuro, il mal di vivere della generazione dei trentenni alle prese con il lavoro precario.
Una commedia all’italiana che rincorre una realtà complessa e la rappresenta semplificandola eccessivamente.
Un cameo gustoso è costituito dalla presenza di un improbabile cattedratico nei panni, debordanti, di Paolo Villaggio, che sembra uscito letteralmente da una pellicola di Frank Capra.
I personaggi che danno vita al racconto sono tutti laureati brillantemente e costretti ad adattarsi ad un  lavoro spesso diverso da quello per il quale si erano preparati, ma soprattutto con contratti aleatori che possono interrompersi da un momento all’altro per il capriccio di un capoccia.
Il lavoro precario è una maledizione per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
Anche il Papa ha fatto sentire la sua autorevole voce sul problema, ma purtroppo, più che lamentarsi del fenomeno, non è riuscito ad avanzare alcuna proposta risolutiva.
Molti credono che il lavoro precario sia una triste prerogativa dell’Italia, viceversa esso è una regola in tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove la estrema mobilità del lavoro è considerata la ricetta dello sviluppo economico.
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività.
Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio(in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani, ma per la nostra civiltà.

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22/4/2009 

Nemico pubblico n.1         L’ora della fuga

A distanza di solo due mesi dalla prima parte esce il seguito di Nemico pubblico n. 1, sempre interpretato da Vincent Cassell e con la regia di Jean Francois Richet. 
Il film non possiede il ritmo serrato della prima pellicola, ma il protagonista supplisce con un’interpretazione superba  ad alcune carenze narrative e ripropone in veste agiografica le gesta del celebre gangster francese Jacques Mesrine, dalla rocambolesca fuga dal carcere fino all’uccisione da parte della polizia nel 1979.
Le sparatorie si succedono frenetiche, intervallate da fughe da penitenziari di massima sicurezza, sequestro di giudici e di facoltosi possidenti, truffe sensazionali con l’ausilio di improbabili travestimenti. 
Lo spietato pericolo pubblico, da infaticabile sciupa femmine, approfitta di ogni momento di pausa per andare a caccia di donne vogliose e disponibili e cura la sua immagine sulla stampa, che si appassiona alle sue scorribande e da inguaribile vanesio concede interviste esclusive a coraggiose giornaliste.
Sul suo percorso Mesrine incontra delinquenti incalliti e spietati omicidi, ma anche, sono gli anni del terrorismo internazionale, personaggi che combattono per un ideale. In parte viene attratto dal fascino perverso di questi criminali idealisti e scrive un libro autobiografico nel quale si autocelebra come un nemico del capitalismo, che cerca di colpire nel suo cuore pulsante, svaligiando le banche ed infierendo solo e soltanto sui ricchi.
La pellicola si apre e si chiude con la stessa scena, che non riveleremo al lettore, al quale consigliamo di visionare questo film, un prodotto di qualità in grado di tenere col fiato sospeso per più di due ore con il racconto entusiasmante dell’epopea di questo famigerato nemico pubblico n.1.


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18/4/2009

Disastro ad Hollywood, una satira grottesca

Disastro ad Hollywood fa parte di quei film che periodicamente il mondo della celluloide sforna per prendere in giro se stessa con il consueto canovaccio di stelle nevrotiche, registi da strapazzo, produttori spietati, executive efficientissime, attricette di facili costumi, sceneggiatori sconclusionati, agenti paranoici e pescecani del business. Tutti grandi consumatori di tranquillanti ed assidui frequentatori di strizzacervelli, pedaggio obbligato per chi è alla disperata ricerca di denaro facile ed in quantità e di un vacuo ed effimero successo.
Un cast di attori formidabili da Robert De Niro a Sean Penn, da John Turturro a Bruce Willis, per partorire un topolino, infatti la pellicola al di fuori di scialbi furori polemici e di un sottofondo di pacato umorismo risulta deludente e didattico, nel senso di mostrare come non si dovrebbe sprecare il talento di tante star per imbastire una storiella fiacca e priva di grinta.
Si salva soltanto De Niro, anche se tristemente invecchiato, fulcro del racconto nelle vesti di un produttore alle prese con un film sbagliato e due mogli da mantenere mensilmente con esosi alimenti, ad una delle quali cerca di aggrapparsi, segretamente ancora innamorato, per continuare a vivere, mentre Bruce Willis, trasformato in un anonimo panciuto dalla barba incolta, non travalica la prestazione di una malinconica macchietta.
Una commedia banale e da dimenticare al più presto, nella quale non manca la scena di un pomposo funerale con rito ebraico, che sembra interpretare alla lettera una frase famosa di Errol Flynn:” Hollywood ha molta pietà per i morti, nessuna per i vivi”.


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30/3/2009

Il caso dell’infedele Klara

Girato tra Praga e Venezia, città sensuali per eccellenza, il film di Roberto Faenza parla della gelosia, un sentimento che mina e spesso rende infelice l’amore. 
Si intrecciano varie storie tutte segnate da questa strana emozione, che recenti statistiche hanno dimostrato essere molto diffusa anche tra i giovani; una sorpresa solo per osservatori superficiali, dovuta al clima di insicurezza nel quale si svolge la vita delle nuove generazioni prive di qualsiasi punto di riferimento e di valori da cui prendere esempio con la famiglia dissolta, la scuola in disfacimento e le ideologie tramontate. 
La pellicola è un prodotto gradevole grazie alla recitazione degli attori, tutti molto bravi e per i numerosi gradevoli nudi, anche integrali, che costellano la narrazione. Confesso di essermi recato al cinema per vedere il film A voce alta con Kate Wislett, disposto anche a sorbirmi un racconto sempre triste sulla persecuzione degli Ebrei, pur di ammirare lo splendido corpo della diva resa celebre da Titanic, immortalata nature in una tinozza. Trovata la sala completa, sono rimasto colpito dalla locandina del Caso dell’infedele Klara, che cerca di calamitare l’attenzione del potenziale spettatore con una identica rudimentale vasca da bagno nella quale la nostra Laura Chiatti, con minore prestanza anatomica, ma con una più sfacciata punta di erotismo, fa il verso alla famosa collega straniera. 
L’argomento, apparentemente banale, fa viceversa discutere animatamente il pubblico, sia nell’intervallo che all’uscita dopo la proiezione. Siamo schiavi delle reazioni chimiche del nostro cervello e ci crediamo importanti ed insostituibili, non consideriamo che se la vita, per una catastrofe nucleare o ambientale, dovesse all’improvviso scomparire, l’universo non se ne accorgerebbe affatto. 

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26/3/2009

Nemico pubblico n. 1, uno stupendo film d’azione

Un film d’azione superbo, come da tempo non se ne vedevano sugli schermi, Nemico pubblico n.1, interpretato da Vincent Cassel, ripercorre l’avventurosa figura di un celebre gangster francese, Jacques Mesrine, nella sua lunga odissea criminale dall’Europa al Canada, conclusasi con l’uccisione durante una rapina.
Dopo gli applausi scroscianti al festival di Toronto, la pellicola giunge in Italia quasi in sordina in poche sale, destinata ad un sicuro successo per le sequenze esasperate  da thriller, ma soprattutto per il fisico prorompente da macho del protagonista, fino ad oggi noto al nostro pubblico ed invidiato dalla platea maschile, principalmente per essere il marito di Monica Bellucci ed ora consacrato a divo rude e deciso, coraggioso e sprezzante del pericolo.
Partner prestigioso, anche se in una parte secondaria, Gerard Depardieu dipinge con rara abilità la figura del boss, ma la scena è tutta per Cassel, nei panni del sanguinario bandito, imbevuto di violenza appresa durante la guerra in Algeria e, tornato in patria, caduto nei gorghi della malavita ed attirato dalle melliflue sirene del guadagno facile senza dover lavorare.
Il ritmo serrato della narrazione passa da truculente risse in bar malfamati a fulminee rapine in banca, senza trascurare la descrizione di un penitenziario di massima sicurezza, dove ferrei regolamenti ed angherie di ogni genere fanno quasi rimpiangere i gironi infernali del carcere di Poggioreale. E sarà proprio da questa struttura ritenuta inviolabile che il bandito riuscirà a fuggire con un’evasione rocambolesca, tornandovi poi, armato sino ai denti, nel disperato tentativo di dare la libertà ai suoi fedeli compagni di sventura.
Un film che piacerà agli uomini per argomento e frenetica conduzione del racconto e farà sognare estasiato le spettatrici alla vista dello spettacolare corpo nudo di Cassel, generosamente esposto in numerose scene di nudo integrale.

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21/3/2009

Fortapasc: storia di un eroe per caso

Con ventiquattro anni di ritardo la storia di Giancarlo Siani approda sugli schermi italiani in un film di Marco Risi, che si ispira alla lezione di impegno civile di Rosi, Petri, Damiani, Squitieri, grandi registi che hanno fatto grande il cinema italiano.
Fortapasc racconta gli ultimi quattro mesi di vita del giovane cronista napoletano, ucciso con dieci colpi di pistola perché con le sue inchieste aveva infastidito alcuni boss di Torre Annunziata. Sarà l’unico giornalista a cadere vittima della camorra.
Una anteprima in pompa magna al teatro San Carlo alla presenza del presidente Napolitano ha sancito il ritorno a Napoli del cinema di impegno, dopo il trionfo internazionale di Gomorra, dal quale Fortapasc si differenzia per il diverso ritmo narrativo: non un reportage di guerra duro e spietato che intreccia racconti diversi, bensì la vita di un giovane amante del suo lavoro e soprattutto della verità. 
Il messaggio esorta alla speranza affinché il sacrificio di Giancarlo non sia stato vano, ma concorra a svegliare le coscienze ora che la camorra è divenuta più minacciosa e come una piovra dai mille tentacoli si avvia ad avvolgere tutta l’Italia. Un ricordo esteso alle tante vittime della criminalità organizzate, i cui parenti compaiono numerosi come comparse nella pellicola. 
Purtroppo nulla è cambiato, se non in peggio, in questi lunghi anni: il fortino del clan Gionta è sempre lì, nel quadrilatero delle carceri nel centro antico di Torre Annunziata, mentre la malavita continua a dilagare indisturbata grazie all’inefficienza dello Stato.
Vi è pure una sottile denunzia della precarietà della professione giornalistica, Giancarlo era un apprendista che sognava di essere assunto dal Mattino, oggi un esercito di quarantamila precari si confronta con pochi redattori super pagati e colmi di privilegi. Persiste ancora la differenza citata nel film tra giornalisti- giornalisti e giornalisti – impiegati: Giancarlo faceva parte della prima categoria, agiva con coerenza ed ha pagato il suo coraggio con la vita.
Il film è scandito da personaggi vivi, solo alcuni immaginari, disegnati con grande abilità ed interpretati da attori molto bravi: il capitano della locale stazione dei carabinieri, tristemente disilluso, ha la grinta di un Giuliano Gemma d’annata, Massimiliano Gallo si estolle vigoroso in una squallida marea di anime malvagie, mentre Ennio Fantastichini è un sindaco colluso, che ci rammenta le kafkiane riunioni del consiglio comunale rese celebri dalle Mani sulla città.
La tensione aumenta quando si entra nei vicoli puteolenti e diroccati del centro storico e respirando un’atmosfera di morte, si percepisce chiaramente la prepotente legge dei più forti: degli Alfieri, dei Nuvoletta, dei Gionta e di tutti i clan che comandavano ieri come comandano oggi.
Un contrasto lampante con lo sguardo dolce e tenace di Giancarlo, che sorride ingenuamente mentre i killer lo uccidono senza pietà, consapevole che il suo sacrificio servirà a mutare qualcosa  se tutti noi sapremo conservarlo nella nostra memoria civile, soltanto così il suo martirio civile non sarà stato vano.


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16/3/2009

Un Pulcinella fiacco e scontato
Prestazione sotto tono di Massimo Ranieri

Deludente e scontato il film di Scaparro con Massimo Ranieri l’Ultimo Pulcinella, nato con l’intento di coniugare la poesia di un cantastorie ed il carisma di una maschera, esso si rivela un maldestro tentativo di portare l’estroso personaggio napoletano nella periferia parigina, nei formicolanti palazzoni della banlieue, dove serpeggia il malcontento delle nuove generazioni di figli di emigranti, non integrati e senza lavoro, che spesso esplode in episodi inconsulti di rabbia e contestazione.
Il tentativo di contaminazione della celebre figura  e delle antiche melodie partenopee con i ritmi serrati delle musiche magrebine è lodevole, ma l’atmosfera felliniana nella quale si svolgono le prove dello spettacolo, in un vecchio teatro, recuperato per l’occasione, invitano al sorriso più che alla meditazione.
Ero entrato per vedere un racconto ambientato a Napoli e, come tutti i napoletani  costretti a vivere lontano dalla loro amata patria, ho goduto nel vedere le prime inquadrature, alla vista dei panorama mozzafiato con il Vesuvio sullo sfondo, ripresi dall’aereo degradare dolcemente tra i vicoli brulicanti di vita del centro storico. Ma dopo poco la storia si sposta nella Scampia parigina, dove si svolge tutta la pellicola tra oleografia di seconda mano ed abortiti tentativi di integrazione tra popoli diversi.
“Pulcinella(ma la sua figura è mescolata a quella di Masaniello) non è solo napoletano, è anche  marocchino, portoghese, africano, il suo messaggio non ha patria e non ha tempo”, l’unica frase da salvare dello spettacolo, per il resto stancamente condotto tra  ripetuti luoghi comuni ed improbabili scambi di fratellanza universale.
Un film da dimenticare, ma Pulcinella ed anche Masaniello sanno perdonare.

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13/3/2009

Verso l’Eden
Un moderno Ulisse alla ricerca di una nuova patria 

Un grande regista, Costa Gavras, ed un volto in grado di calamitare l’interesse e la curiosità di una vasta platea, Riccardo Scamarcio, costituiscono una giusta amalgama per raccontare in maniera ingenua e solare una delle più drammatiche tragedie della modernità: l’esodo biblico di una marea di migranti disperati in rotta verso un Occidente, che li respinge sdegnato e, se li accoglie, li costringe a compromessi ed umiliazioni indegne ed ingiustificate.
Il bello del cinema italiano è alla prima prova impegnativa della sua carriera nelle vesti(ma spesso anche nudo per la gioia del pubblico femminile) di uno dei tanti migranti alla ricerca di un luogo dove radicarsi, lavorare e vivere dignitosamente.
Il film comincia in un’atmosfera cupa intrisa di violenza, con giganteschi barconi colmi di uomini, donne e bambini, che hanno pagato una cifra spropositata a novelli negrieri per essere traghettati dall’inferno delle loro terre native verso un improbabile Eden, sempre più bellicoso verso chi viene da lontano. Si stracciano i documenti per troncare ogni rapporto con il passato e si è costretti a raggiungere a nuoto la riva sotto i colpi delle motovedette della guardia costiera.
Elias naufraga in un campo di nudisti e da allora il clima della pellicola diventa leggero, con corpi mozzafiato di fanciulle nude tra le onde ed una serie di difficoltà crescenti superate dal nostro eroe per il suo bell’aspetto e per la fortuita circostanza di incontrare sul suo cammino signore d’annata vogliose e pederasti gentili quanto  bavosi. 
Nel grande albergo dove occasionalmente approdano quei  pochi poveracci che riescono a superare indenni la furia del mare, si organizzano poco credibili battute di caccia alla ricerca degli intrusi, con la collaborazione dei clienti armati di torce elettriche e pettorine, una patetica e premonitrice caricatura delle ronde nostrane. 
La meta da raggiungere è Parigi, un luogo simbolico patria dell’Illuminismo, oggi abitata da scorbutici ed imbolsiti abitanti, riottosi verso gli estranei  e timorosi di ogni novità, inconsciamente consapevoli che la storia è una staffetta nella quale la fiaccola del progresso è destinata inesorabilmente a passare dai popoli infiacchiti e decadenti a quelli giovani e baldanzosi, che possiedono rabbia ed energia per portare il mondo verso nuovi traguardi.
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6/3/2009

I love shopping
Una amara ironica denuncia del consumismo


In questi giorni una pellicola, apparentemente futile, I love shopping, sta letteralmente sbancando il botteghino, incassando ben più dei film vincitori degli Oscar.
Il segreto sta in una deliziosa storia d’amore, in una fotografia accattivante, (originale la trovata dei manichini umanizzati ma soprattutto nel messaggio subliminale che  raggiunge lo spettatore, mettendo a fuoco la crisi mortale della società dei consumi.
La storia si impernia su una simpatica giornalista affetta da una sindrome purtroppo oggi molto diffusa. l’irresistibile follia di comperare vestiario ed oggetti dei quali non vi è alcuna necessità: centinaia di borse, scarpe, sciarpe, lingerie, profumi, favoriti in questi acquisti scriteriati dal possesso di una miriade di carte di credito, che, spostando il pagamento  ad un futuro improbabile, danno l’onnipotente sensazione di poter possedere qualsiasi cosa. Un’illusione fugace quanto inebriante, una sensazione di identità ed onnipotenza subdola quanto e più di una droga.
Una malattia che colpisce, più virulenta di una micidiale epidemia, non solo signore del jet set, ereditiere croniche o abituate a cambiare letto con  banale disinvoltura, ma anche decine di migliaia di impiegate e operaie, capaci di spendere uno stipendio pur di indossare un capo firmato.
Da questo penoso deserto esistenziale deriva la spaventosa crisi economica che in questi giorni sta travolgendo i mercati. Falsi bisogni e pagamenti dilazionati, una miscela esplosiva in grado di mandare in frantumi il mondo.


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7/3/2009

Una pioggia di Oscar più che meritata

The Millionarie è un vero e proprio capolavoro, con una delicata storia d’amore a fare da filo conduttore ad un racconto che lascia senza fiato, con immagini di sfarzo e miseria di un’India catapultata violentemente nella modernità, tra baraccopoli e grattacieli e soprattutto scene da incubo come l’ accecamento dei piccoli mendicanti per far impietosire i passanti ed ottenere più elemosina. 
L’antica civiltà indiana fa i conti con un capitalismo sfrenato, senza abbandonare però i suoi antichi odi tra indù e mussulmani, che periodicamente sfociano in massacri gratuiti e violenze di ogni genere sotto gli occhi disinteressati della polizia. La globalizzazione è giunta anche nel remoto sub continente indiano, stravolgendo i ritmi pacati di un popolo abituato alla calma ed alla tolleranza. Con il benessere, per il momento solo per pochi, sono arrivati gangsterismo feroce e sfrenata speculazione edilizia, call center invadenti e giochi televisivi in grado di calamitare, con il sogno proibito della ricchezza, l’attenzione spasmodica di centinaia di milioni di sprovveduti spettatori. 
Un pianeta spietato nel quale è impresa ardua sopravvivere ed ancor più difficile emergere ed acquistare una dignità umana. Una lezione ed un messaggio che giungendo attraverso il film in Occidente, ci invitano a meditare sul destino dell’uomo e ci aiutano, umiliando il nostro orgoglio, a non considerarci il centro dell’universo. 

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10/3/2008

Biutiful cauntri, un colpo allo stomaco necessario

Finalmente nelle sale, dopo la menzione speciale al Film festival di Torino, Biutiful cauntri inchioda per 73 minuti alla sedia lo spettatore bombardandolo con un fiume di immagini incredibili, che purtroppo sono vere e di una tristezza infinita. Dopo la proiezione molti escono con le lacrime agli occhi e con una gran rabbia in corpo contro i politici corrotti, la camorra onnipotente ed i poteri forti, una miscela puteolente che ha ridotto la Campania ad una discarica infinita afflitta da 6 milioni di tonnellate tra ecoballe e spazzatura nelle strade, oltre alla bomba ecologica di  1200 discariche abusive dove è stato scaricato di tutto inclusi i rifiuti nucleari.
Le immagini che scorrono impietose non fanno dormire la notte e ci restituiscono un’umanità di contadini e di pastori ridotti a livello di bestie bastonate ed umiliate, mentre miriadi di pecore ammalate vanno incontro allo sterminio ed i prodotti agricoli sono avvelenati dalla diossina.
Purtroppo del film sono state approntate solo 20 pellicole ed a Napoli, capitale della monnezza, lo si può vedere solo in una sala minore di un cinema secondario.
Uno scandalo che grida vendetta e che mortifica il lavoro dei giovani registi Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggero.
Il film dovrebbe essere proiettato in tutte le scuole per scuotere un’opinione pubblica che ancora non si è resa conto delle dimensioni del dramma vissuto dalle popolazioni campane, paragonabile per impatto ambientale al disastro di Chernobyl.
Nell’attesa, certamente vana, che le istituzioni recepiscano questa istanza, sarebbe auspicabile contare sulla sensibilità dei presidi che possono rivolgersi alla produzione disposta, senza compenso, a che il film venga posto all’attenzione delle nuove generazioni.
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17/5/2008

Il film Gomorra scuote le coscienze

Sull’onda del successo internazionale del libro il film Gomorra, in concomitanza con la presentazione al festival di Cannes, arriva nei cinema italiani con un numero cospicuo di copie e con la segreta speranza di sbancare il botteghino.
Le premesse per incontrare il favore del pubblico ci sono, perché gli argomenti trattati, in primis il dramma dei rifiuti, sono da mesi sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo.
Ad eccezione di Toni Servillo per il quale è stato riservato il ruolo di mercante di rifiuti tossici, il famigerato stakeholder e di Maria Nazionale, per la quale è stata ritagliata una particina, gli altri interpreti sono stati presi dalla strada, anzi dalle strade più malfamate della città e della provincia, avendo cura di scegliere volti patibolari e corpi scimmieschi a conferma, in sintonia con Lombroso, di una vera e propria involuzione antropologica in atto da tempo nel sottoproletariato campano. 
Il film, come Biutiful cauntri, risente di una regia modesta e di un cast dilettantistico, dalla fotografia al suono, ma il contenuto è talmente dirompente da scuotere le coscienze e provocare un senso di angoscia e di amara meditazione sullo sfascio umano ed ambientale che investe gran parte del territorio napoletano.
Diviso per episodi, dalla falsificazione delle griffe allo spaccio della droga, descrive con malapartiana ostentazione il degrado della vivibilità, il crollo dei valori, il predominio della prepotenza, la banale propensione all’esercizio del crimine. 
Il messaggio non dà speranza di redenzione, né di cambiamento, anzi, la spirale della violenza e del malaffare sembra oramai impazzita e dilaga senza argini alla conquista di sempre nuovi territori.
Le uccisioni si sprecano come avviene nella cruda realtà ed alla fine è difficile ricordare il numero dei morti ammazzati nei luoghi e con le modalità più varie.
La camorra viene correttamente descritta come un mostro a più teste, un’idra dai tentacoli vigorosi e rapaci, che si agitano in più direzioni senza un vero comando centrale. Le centinaia di famiglie malavitose, che oggi controllano la Campania, sono infatti in perenne fibrillazione, forti degli smisurati proventi della droga, alla ricerca di investimenti internazionali nei settori più svariati, dagli immobili all’alta finanza.
Nel film non vi è posto per lo Stato, disperatamente assente, le poche volanti della polizia sono esili ectoplasmi che scompaiono subito all’orizzonte, non vi è posto per l’amore, di alcun genere e vomitevoli sono le poche scene destinate al sesso ed imperniate su lubrici strofinamenti tra inesperti minorenni e lardosi cinquantenni con bonazze brasiliane e nigeriane, dalle movenze feline e dalle poppe smisuratamente protrudenti in virtù di generose mastoplastiche additive.
Non vi è traccia nella pellicola della contiguità tra la criminalità organizzata ed ampi settori della politica, che da tempo immemore, invece di cercare di creare un baluardo al dilagare della violenza e della sopraffazione, ritiene più utile utilizzare l’immenso serbatoio di consenso gestito dalla camorra per impossessarsi di cariche pubbliche.
Alla fine della proiezione lo spettatore esce sconvolto ed amareggiato ed assume una sembianza del volto, intrisa di infinita tristezza, come quella di Roberto Saviano, l’autore del fortunato best seller, che ha scoperchiato e rese pubbliche le trame del malaffare.

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