24/7/2009
Girare per collezioni private all’estero, invitato dai proprietari e scoprire che la pittura napoletana del Seicento è praticamente ubiquitaria è motivo di orgoglio, oltre che di interesse per lo studioso, che viene a trovarsi davanti ad inediti a volte molto belli.
A rappresentare degnamente il secolo d’oro non sono i giganti, come Giordano, Preti, Solimena o Rosa, presenti nei musei, bensì alcuni autori definiti minori unicamente per il paragone con i grandi maestri, apprezzati in tutto il mondo.
A Bruxelles mi è capitato di scoprire un Pacecco De Rosa di rara bellezza, un quadro di grande formato nel quale sono rappresentati ben 13 personaggi un vero record, tenendo presente che spesso gli artisti si facevano pagare dai committenti un tanto a figura e nessuna composizione del pittore napoletano contiene una scena così affollata, ad eccezione dello spettacolare Bagno di Diana (fig.1) conservato al museo di Capodimonte, nel quale si possono ammirare “nature” tante splendide fanciulle ritratte nello splendore delle loro forme generosamente esposte.
Il quadro belga è un Mosè che fa scaturire l’acqua dalla rupe(fig. 2) ed il proprietario credeva si trattasse di una variante del dipinto di analogo soggetto conservato nel museo di Budapest(fig. 3), oggi assegnato unanimemente ad Antonio De Bellis, ma che per lunghi anni, a partire dal Pigler che nel 1930 lo incluse nella sua monografia sull’artista, è stato ritenuto di Pacecco. Chiaramente il trattamento dell’iconografia è completamente diverso, ma la qualità non è meno alta e la autografia dell’opera è più che certa, per la presenza di più di una figura caratteristica dell’artista e per la scintillante lucentezza cromatica che la foto da me scattata non rende giustizia.
La tela in esame mi ricorda il Mosè salvato dalle acque(fig. 4) di collezione privata napoletana, uno dei capolavori del De Rosa, per la presenza di alcuni personaggi, talmente in ombra da sembrare di colore e per il modo di assemblare la composizione con equilibrio ed eleganza.
Il dipinto mi ha colpito così favorevolmente che ho chiesto al proprietario il permesso di utilizzare la foto per la copertina della nuova edizione aggiornata della mia monografia sull’artista che sarà licenziata alle stampe in autunno.
Il secondo quadro che ho avuto modo di studiare è un’Immacolata (fig.5) di Giuseppe Marullo conservata in una raccolta madrilena ricca di numerose altre opere d’arte di scuola napoletana, a dimostrazione che durante gli anni del viceregno molta produzione di pregio prendeva la via delle grandi collezioni spagnole dove ancora tanti quadri si trovano, spesso mal attribuiti.
Nel caso specifico la firma e la data 1664(fig. 6) posti alla base del dipinto non lasciano dubbi, se mai ve ne potevano essere davanti ai classici segni distintivi dell’artista: dal cono d’ombra sulla guancia sinistra della Vergine dal capo leggermente reclinato, alla chioma del bambinello con la fila che penetra in profondità e le tre dita imperiose della mano che sembrano indicare una direzione, senza considerare gli angioletti posti in alto, una derivazione letterale da quelli di Francesco Curia.
Il dipinto ci permette di conoscere maggiormente il percorso artistico del Marullo intorno agli anni 1663 – 64, quando il suo stile diventa inconfondibile, come possiamo apprezzare nel San Pietro liberato dal carcere(fig.7) del museo dell’opera dell’istituto Suor Orsola Benincasa o in tele di poco precedenti(1663) come quelle conservate in Sant’Agostino degli Scalzi e nell’antisacrestia del Gesù vecchio(consultabili sul web nella mia monografia sull’artista).
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