domenica 18 marzo 2012

Geltrude negli anni Sessanta

13/3/2007
Le rose di Poggioreale

Negli anni Sessanta il nostro eroe, lo chiameremo Geltrude, aveva circa vent’anni, era squattrinato e gli piacevano le ragazze, passione che coltiverà assiduamente per tutta la vita.
La sua mente era fertile e partoriva idee originali a getto continuo.
Erano tempi in cui le donne di qualsiasi età gradivano i complimenti ed impazzivano per gli omaggi floreali; una  monumentale composizione di rose avrebbe permesso a chiunque di fare breccia nel cuore di una fanciulla, anche se la segreta speranza del corteggiatore era di poter conquistare ben altri territori anatomici.
Come fare se si disponeva di poche migliaia di lire da investire?
Preliminarmente il Nostro chiedeva a tutti i suoi amici il recapito di belle ragazze, non importava se conosciute solo di vista, bastava l’indirizzo e qualche notizia sulla fanciulla: colore degli occhi e dei capelli, età, segni particolari. Quindi Geltrude seguiva con attenzione la rubrica dei necrologi sul Mattino ed appena compariva una sfilza di inserzioni per qualche cadavere eccellente si precipitava al cimitero e recuperava dalle corone di fiori, abbandonate nella grande piazza di Poggioreale, le rose più belle e dal gambo più lungo. 
Ottenuto un cospicuo numero di esemplari si recava, prima in una bancarella di via Foria, ad acquistare alcuni cesti di vimini a cinquecento lire cadauno, poscia da uno scalcinato fioraio del Vomero, che possedeva, abusivamente, l’elegante carta con l’intestazione della Fleurop ed era abile nelle composizioni floreali, miscelando muschio ed affini alle rose, a fronte di altre cinquecento lire di spesa.
Ottenuti 3-4 cesti di rose belli e degni di una diva del cinema, Geltrude si recava nei pressi delle vittime… designate e fermava uno scugnizzo di passaggio, al quale prometteva una lauta mancia se avesse consegnato l’omaggio a domicilio. Quindi si nascondeva ed aspettava l’uscita a mani vuote del ragazzo dal portone. Certo della consegna si allontanava rapidamente, sorvolando sulla mancia e si trasferiva ad un altro recapito.
Naturalmente il cesto non era anonimo, bensì accompagnato da un elegante biglietto da visita con stemma nobiliare a più palle e naturalmente il numero di telefono del conte di Laviano…
Tornato a casa bisognava semplicemente attendere il ringraziamento che non si faceva attendere. Metà delle telefonate erano delle mamme, entusiaste all’idea che le grazie della figliola avessero accesso la galanteria ed il desiderio di un ammiratore così ricco ed addirittura blasonato.
L’unica difficoltà era districarsi tra le domande incalzanti: dove ci siamo visti o conosciuti?
Era facile acuire il mistero e far dire alla fanciulla una serie di potenziali occasioni di incontro: al matrimonio della cugina lontana, alla festa di laurea della nipote del vicino di casa, sulla spiaggia, alla presentazione di un libro. L’abilità stava alla fine della conversazione a convincere l’interlocutrice di essersi incontrati, anche se di sfuggita, proprio nell’occasione da lei ricordata.
Un appuntamento era la regola, anche se a volte bisognava superare l’ostacolo di un invito a cena preliminare a casa della potenziale suocera, che non stava nei panni dalla curiosità.
Dispersa la vegliarda era facile poi condurre, rapidamente la fanciulla in luoghi più romantici ed appartati e spesso, senza tanti preamboli, la si passava per le armi…
Bisognava poi scomparire in fretta, sia perché le indagini avrebbero in breve svelato le origini plebee di Geltrude, ma soprattutto perché altri bocconcini prelibati attendevano di essere gustati.
Una sola volta è capitato al nostro eroe di rincontrare a distanza di anni una ragazza conquistata e concupita grazie ai fiori di Poggioreale.
L’incontro è stato imbarazzante, ma fortunatamente privo di spiacevoli conseguenze. 
Divenuto uno stimato professionista, coniugato e con prole, Geltrude, incontrando un collega nel mese di agosto lo invita a fare un bagno con la sua famiglia nella sua villa con piscina.
“Non vorrei dare fastidio vi è anche mia suocera”. 
“Nessun problema ospiti da me vi sono alcune mie zie di annata che potranno farle compagnia”.
Quale sorpresa ed iniziale imbarazzo quando, aprendo la porta, la moglie del collega si materializzò per una delle mie conquiste migliori, ancora in carne, anzi fin troppo, a giudicare da un’abissale scollatura. Mummificata viceversa la mamma che mi gelò con lo sguardo, ma riuscì a trattenere ricordi ed emozioni. Inconsapevole il marito, cornuto ante litteram, che si attivò per cementare la nuova amicizia, permettendo ad una vecchia tresca di risorgere vigorosamente.



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Agosto 1968: prima tappa Stoccolma



1 agosto 1968 Geltrude e Luciano si apprestano a compiere un lungo viaggio attraverso l’Europa, avendo come tappa principale Stoccolma. Erano tempi in cui il fascino della Svezia, terra di vichinghe di rara bellezza aduse alla pratica del libero amore, era irresistibile tra i maschi mediterranei, che ambivano a raggiungere la lontana nazione con la speranza di poter tornare con succose avventure da raccontare agli amici rimasti in città.

Luciano possedeva, adoperato nella fabbrica del padre, un pulmino Volkswagen, il quale, tolti i sedili posteriori, divenne una comoda camera da letto viaggiante.
Il percorso si snodò attraverso Svizzera, Germania e Danimarca, per giungere tra le intricate foreste scandinave, talmente fitte che bastava inoltrarsi per pochi metri allo scopo di soddisfare una improcrastinabile funzione fisiologica per sperdersi. Più di una volta lo spavento fu forte ed il ritorno all’ovile possibile grazie a potenti richiami a squarciagola.

Appena giunti nella capitale nordica prendemmo alloggio nei pressi dell’ostello, tra i più belli d’Europa, collocato su di una nave attraccata al molo di uno dei numerosi canali che attraversano la città. Lo scopo era duplice: da un lato poter usufruire, spacciandosi per clienti, delle strutture dell’albergo galleggiante per docce, rare, ed evacuazioni varie, quotidiane; dall’altro per poter tenere sotto stretta osservazione il via vai di pulzelle di varia nazionalità, alcune ultraminorenni, che costituivano un ideale terreno di caccia per due arrapatissimi galli meridionali.

Già dal primo giorno riuscimmo, nonostante il nostro inglese scalcinato, a rimorchiare due fanciulle niente male provenienti dal sud della Francia. Destinazione una simpatica balera nota per prediligere balli lenti, l’ideale per i  contatti ravvicinati.
La serata fu simpatica ed io potetti scegliere la ragazza più bella grazie alla proverbiale bruttezza del mio amico Luciano, che univa ai tratti scimmieschi del volto una totale incapacità a calamitare l’attenzione femminile. Non riuscimmo però a raggiungere lo scopo che ci eravamo prefissi: la trombatura e ci accorgemmo che le francesi, come le italiane dell’epoca, avevano costumi sessuali molto morigerati.
Bisognava puntare senza indugi sulle vichinghe e cercare un luogo ancora più favorevole a concludere la scorribanda.

Ci avevano parlato di un locale dove le acchiappanze si facevano con lo sguardo, fissando la preda con un intenso sguardo sessuale e scambiandosi perentori messaggi attraverso un intricato servizio di posta pneumatica tra i tavolini. Pensai che il mio amico Luciano con la sua faccia di c… avrebbe mietuto successo.
Poi la scelta cadde su una balera notoriamente frequentata dalle più belle donne di Stoccolma, dove l’accesso maschile era consentito soltanto a marocchini, italiani e negri. All’ingresso sul polso veniva apposto un timbro, che consentiva di poter rientrare nel locale dopo aver fugacemente frequentato la boscaglia circostante con qualche procace fanciulla razziata tra un complimento audace ed un  ballo avvinti come l’edera.

L’abitudine di marcare i clienti fu da noi abilmente sfruttata per entrare nel locale per vari giorni senza fare un nuovo biglietto. Bastò infatti ricoprire con un cerotto il timbro per evitare che sbiadisse ed il gioco era fatto.
Lì finalmente riuscii a rimorchiare una biondissima fanciulla che, senza tanti inutili preamboli, mi invitò a casa sua a placare i miei istinti repressi.

Al mattino mi accorsi che abitava, da sola nonostante avesse appena diciotto anni, nel mezzo del bosco ed ebbi timore a ripercorrere la strada verso il nostro pulmino parcheggiato nei pressi della discoteca.
La ragazza comprese la mia paura e si offrì di accompagnarmi, anzi, giunti a destinazione, disse candidamente che poteva trattenersi con me per il tempo che desideravo. Nel frattempo la nostra Volkswagen ospitava cinque dormienti, perché avevamo reclutato tre autostoppisti, un napoletano Renato, un romano ed un alto atesino, allo scopo di dividere le spese per la benzina.

Inge non si preoccupò più di tanto, anche se spazio del nostro giaciglio era ridotto all’osso e non permetteva alcun movimento. Durante le nostre effusioni sessuali notturne tutti gli altri fingevano di dormire ed il mio imbarazzo era tangibile perché la ragazza, al culmine dell’eccitazione, sguaccheracchiava in maniera assordante.
Eravamo oramai inseparabili e non riuscivo a trovare un modo per mollare la ragazza. Ci apprestavamo a spostarci verso l’Europa dell’est, ma Inge voleva continuare il viaggio con noi.

La visita ad un grande magazzino a più piani mi diede l’occasione per liberarmi di una presenza oramai ingombrante. I molteplici interessi di ognuno ci portavano a visitare piani diversi, dove era esposta varia mercanzia. Ci demmo appuntamento dopo trenta minuti all’ingresso, mentre ad Inge dissi di tornare dopo un’ora. All’appuntamento mancava Renato ed i minuti passavano freneticamente. Temetti di perdere l’occasione, ma poi ebbi l’idea di chiamarlo all’altoparlante. La signorina voleva fare lei l’annuncio, ma le facemmo capire che il nostro amico non avrebbe capito l’idioma straniero. Incautamente mi fu affidato il microfono e colsi l’opportunità per divertirmi e far sorridere i tanti italiani sparpagliati per il negozio
“ Figlie e puttane, mocca a mammete, vuoi scendere o t’aggio manna a fan culo, scurnacchiate”. L’appello ebbe un immediato riscontro e potemmo tagliare la corda dopo aver consegnato lo zainetto della fanciulla al personale all’ingresso.

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La primavera di Praga ed il seno di Jolanda




Lasciata alle spalle la Scandinavia, la combriccola si dirige spavalda verso la Germania orientale: obiettivo Berlino est.
All’epoca era estremamente difficile visitare la zona comunista della città, divisa da quella occidentale, a parte dal famigerato muro, da una striscia di quasi un chilometro di terra di nessuno, dall’aspetto lunare, con gli edifici sventrati dalle bombe ed il tempo che sembrava fermo al 1945.
Camminare per le strade di Berlino est dava l’impressione di un viaggio a ritroso nel tempo e la sensazione di una povertà diffusa, dignitosa e severa. Visitare il museo delle conquiste del comunismo equivaleva a percorrere le sale di Standa o della Rinascente, mentre code interminabili fuori ai pochi negozi aperti davano un senso di malinconia infinita. Qualunque paragone con l’Occidente era improponibile e passare a Berlino ovest provocava le vertigini, perché gli americani non avevano lesinato mezzi per edificare ex novo una città modernissima, avendo cura di lasciare dappertutto un cumulo di macerie, con di lato la foto dello stato dei luoghi prima della furia devastatrice della guerra. Chiese e palazzi pubblici ricostruiti e sovrapponibili a quelli polverizzati dai bombardamenti a tappeto imponevano una continua meditazione sulla sciocca malvagità dell’uomo.
La parte comunista della città era soffocata da una cappa di tristezza burocratica generalizzata, le ragazze malvestite e senza trucco non ispiravano pensieri bellicosi a differenza delle sorelle occidentali che lanciavano, spavalde, sguardi assassini.
Nel fondo di un cassetto, dimenticate da quaranta anni ho scovato alcune foto sbiadite: mentre bacio la statua di un padre della patria, sotto lo sguardo sorridente di Luciano, davanti alla Porta di Brandeburgo, sorvegliata giorno e notte  dai vopos, i gendarmi dal ghigno feroce severi guardiani dell’ortodossia, vicino ad un tram scalcinato, gioiello della produzione metallurgica comunista, a confronto del quale il numero 1 di Napoli avrebbe fatto un figurone, in una piazza dai giardini a guisa di orti ed infine mentre passo senza troppi preamboli alla conquista di Ursula, una sedicenne di ampie vedute, che, una volta conquistata, voleva consumare senza indugi l’amore in un pubblico parco.
Ci trasferimmo poi in Cecoslovacchia ed entrando da un confine amico potemmo evitare di dover indicare dove avremmo alloggiato e mostrare i soldi che avremmo speso, un tot al giorno obbligatorio. I paesi dell’est era popolati da straccioni, ma i turisti non dovevano esserlo.
Praga era una città piena di vita e si percepiva nell’aria che qualcosa di importante stava per accadere. I giovani si trattenevano fino a tardi per le strade e molti avevano chitarre e vecchi violini con i quali accompagnavano struggenti melodie.
A piazza San Venceslao incontrammo tantissimi italiani ed anche molti napoletani, io potetti riabbracciare Natalino un compagno delle scuole medie che non vedevo da anni. Ascoltammo meravigliati che ai turisti veniva imposto dove dormire ed alcuni, la sera, dovevano percorrere anche quaranta chilometri per raggiungere l’albergo. Bisognava poi spendere ogni giorno diecimila lire ed alla dogana andava obbligatoriamente cambiato tanto denaro quanti giorni si sarebbero trascorsi in vacanza. La valuta locale non permetteva di acquistare che pochissime merci, per cui, anche se non veniva spesa, non poteva essere riutilizzata per il cambio.
Il vestiario dei turisti, anche se consunto, faceva impazzire  gli indigeni, si ripetevano le scene dei marinai di Colombo che, giunti nel nuovo mondo, barattavano perline di alcun valore con oggetti di metallo pregiato. 
I praghesi letteralmente ti spogliavano e noi piazzammo scarpe, magliette, penne e matite a prezzi sbalorditivi. Alcune volte lo scambio avveniva in natura ed a tale scopo eravamo venuti ben forniti di rossetti e calze di nailon, per cui potemmo fare cose turche per vari giorni.
All’epoca possedevo uno spider 850 Bertone e ne mostrai la foto ad uno dei contrabbandieri più audaci di Praga, il quale mi disse che se lo avessi portato anche solo al confine lo avrebbe acquistato, in valuta pregiata, ad un prezzo stratosferico. Purtroppo dopo ciò che successe nei giorni successivi non ebbi più sue notizie, probabilmente sarà finito in Siberia. 
Con la moneta locale ottenuta vendendo quasi tutto il vestiario facemmo affari sensazionali. Io acquistai una collezione di francobolli, che al ritorno in Italia rivendetti ad un prezzo decuplicato, mentre gli altri amici comprarono attrezzatura per campeggio, spartana ma efficiente e addirittura alcuni pregiati cristalli di Boemia.
Dopo circa una settimana decidemmo di puntare verso l’Austria  e partimmo all’imbrunire. Mentre gli amici dormivano io guidavo il pulmino tra lampi e fulmini ed una visibilità ridotta all’osso. Attraversavamo una foresta, pare quella dove sono ambientate le imprese del conte Dracula, quando all’improvviso, dopo tanti animali che mi avevano tagliato la strada, comparve un miraggio all’orizzonte: due splendide ragazze che nel buio pesto di una strada deserta, alle due di notte, chiedevano un passaggio. Frenai senza indugio e feci salire le fanciulle, che si accomodarono felici senza badare ai quattro amici svegliatasi di soprassalto.
Le due ceche erano veramente bellissime e ci raccontarono in tedesco, lingua ben nota all’amico di Bolzano, che erano dirette alla loro dacia, dove i genitori le avevano inviate all’improvviso. Col senno di poi capimmo che erano figlie di persone molto importanti, che avevano avuto sentore che la situazione politica stava per precipitare. 
Dopo circa un’ora arrivammo a Ceske Budejovice, una località dove si trovava la loro dimora di campagna. Nel frattempo, ceduta la guida a Luciano, avevo scambiato sguardi sessuali assassini alla più bella delle due, Jolanda. Giunti a destinazione le fanciulle ci invitarono a trascorrere a casa loro le ore fino all’alba e naturalmente non ce lo facemmo dire due volte.
I tre più imbranati rimasero a dormire nel pulmino, mentre con Renato ci sistemammo in casa e cominciammo a cucinarci le ragazze. Io e Jolanda in salotto ci guardavamo intensamente e l’atmosfera romantica non mancava, alla radio, nel buio della notte, si poteva ascoltare il Notturno dall’Italia e, che fortuna, Mina in una delle sue canzoni gorgheggiate. Digiuno delle lingue, in latino, cercavo disperatamente, dopo le presentazioni di rito(Ave puella quomodo appellarsi, ego sum Achilles) di far capire le mie intenzioni penetrative e Jolanda pare mi volesse far intendere che era al primo giorno di mestruazione. Avevo dedicato l’attenzione al suo seno, sodo e prorompente, quando all’improvviso la musica si interruppe e la radio cominciò a ripetere senza sosta un breve comunicato. Jolanda scoppiò a piangere ed io cercai di  ascoltare con attenzione. Tra parole mi colpirono: armada, putsch e russia, ma non avrei mai immaginato la gravità della situazione. Con la radio andai in giardino e svegliai l’amico nordico che, stupefatto, annunciò: “L’armata russa ha invaso il paese”.
Spaventatissimi decidemmo di partire subito e da allora il mio odio per i sovietici ed il mio anticomunismo viscerale è cresciuto sempre più. Vedersi svanire una ragazza come Jolanda ad un passo dalla conquista totale è un pensiero che mi ha ossessionato per tanto tempo. Le ragazze scapparono con noi, ma per prudenza e vigliaccheria le facemmo scendere in prossimità del confine che temevamo bloccato. Viceversa le guardie alla frontiera erano scappate anche loro in Austria e trovammo la barriera alzata. Esausti percorremmo oltre cinquecento chilometri raggiungendo la Jugoslavia.
Eravamo stanchi del nostro viaggio che durava da quaranta giorni, il tempo era spesso piovoso e vagammo pigramente lungo la costa fino all’Albania. 
La bellezza dei luoghi non ci colpì più di tanto e le ragazze ci sembrarono alquanto selvatiche. Qualche puledra avrebbe meritato di essere cavalcata, ma oramai volevamo soltanto tornare a casa dove amici e parenti dovettero per giorni ascoltare ripetutamente il racconto delle nostre avventure.





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Estate a Capri



Il viaggio a Stoccolma ed a Praga fu preceduto da un lungo soggiorno a Capri. Io e Carlo prendemmo alloggio a Villa Api, una pensioncina posta al culmine di via Tiberio con un ultimo strappo in salita da togliere il fiato. Da lì partivamo per le nostre scorribande finalizzate al reperimento, per scopi ludici, di belle figliole di facili costumi.
Il primo incontro avvenne senza necessità di spostamento grazie alla circostanza che le nostre vicine di stanza erano tre bionde dai reggiseno straripanti, che si cambiavano d’abito ripetutamente per la gioia dei nostri occhi, stabilmente fissi nel buco della serratura attraverso il quale seguivamo ogni minimo movimento.
Decidemmo di abbordarle per iscritto ed avendole giudicate troppo belle per essere italiane, facemmo scivolare audaci bigliettini con focosi apprezzamenti romantici sotto la porta che divideva le due stanze. Il nostro inglese alquanto scalcinato era costituito da una serie di frasi preparate a tavolino e quasi sempre si dimostrava efficace. Le risposte erano piene di errori e questo dettaglio eccitò la nostra fantasia: svedesi, francesi, tedesche?
Lo scambio epistolare durò alcuni giorni e sfociò alla fine in un appuntamento in piazzetta per prendere un caffè assieme.
Parlare in inglese è ben più arduo che scrivere e noi conoscevamo solo poche frasi per rompere il ghiaccio, ma quale fu la reciproca meraviglia quando constatammo, tra grasse risate, che anche le fanciulle, native e dimoranti a Piacenza, ci avevano scambiato per stranieri. Il resto, favorito da generose libagioni andò al di là di ogni più rosea speranza e la conclusione la lascio alla fantasia del lettore.
Durante il periodo della nostra villeggiatura il principe di Sirignano era il mattatore incontrastato della vita mondana caprese e noi avemmo modo di conoscerlo personalmente, anche se di sfuggita, molto di sfuggita...
Ci trovavamo ai bordi della piscina della «Canzone del mare», che, squattrinati,  raggiungevamo senza pagare l’ingresso attraverso gli scogli. Io ero in compagnia di Carlo, allora, come me, giovane audace e scapestrato, oggi severo e stimato Procuratore della Repubblica.
Mentre ci guardavamo intorno alla ricerca di qualche bella fanciulla da accalappiare fummo attirati da ciò di cui parlavano due affascinanti ragazze bionde della società dorata napoletana.
Anna Maria e Manuela, favoleggiavano di una grande festa da ballo che, organizzata dal principe di Sirignano si sarebbe svolta quella sera ed alla quale avrebbero partecipato centinaia di invitati, parte in abiti da gala e parte in maschera.
Il sogno delle due ragazze era quello di poter partecipare ad una festa così importante per far notare la loro bellezza, che era veramente sfolgorante e per fare qualche conoscenza interessante. Presi la palla al balzo e con sfacciataggine mi avvicinai alle due fanciulle e dopo essermi presentato come conte, millantai un amicizia di famiglia di vecchia data col principe Sirignano, dal quale potevano considerarsi, se volevano, invitate al ricevimento.
Anna Maria e Manuela mi abbracciarono e baciarono contentissime e corsero in albergo e dal parrucchiere per prepararsi adeguatamente alla festa di cui si credevano invitate ufficialmente.
Ci demmo appuntamento in piazzetta con le ragazze per le 21.
Per me ed il mio amico si imponeva il problema dell’abito da sera che non possedevamo, ma potendosi presentare anche in maschera, la scelta cadde su due travestimenti da antichi romani, che fu facile arrangiare con le lenzuola dell’albergo ove alloggiavamo ed i tralci di viti del vicino giardino.
Così agghindati, io da Bacco e Carlo, il mio amico, da ancella e muniti anche di un bidet di plastica portatile, sottratto alla pensione e tenuto da me sotto braccio con eleganza e naturalezza, ci presentammo in piazzetta all’appuntamento con le due ragazze.
Non curanti di un passante che mi apostrofò col grido «ma che puort dui cess», ci dirigemmo verso la villa ove si svolgeva la grande festa.
Fummo accolti dal maggiordomo e da alcuni camerieri, ai quali consegnai in deposito il bidet e mi presentai come invitato del conte della Ragione, cioè di me stesso.
Mentre il maggiordomo si recò dal principe ad informarlo del nostro arrivo, fummo sequestrati dai fotografi, che nel giardino della villa ci immortalarono in più pose.
Con la coda dell’occhio vidi il principe, accigliato, e spalleggiato da vari camerieri, dirigersi verso di noi e feci appena in tempo ad avvertire Anna Maria e Manuela che splendevano nei loro abiti da gran sera, di allontanarsi e di mischiarsi tra la folla degli invitati.
Il principe volle sapere chi eravamo, e quando seppe che ci aveva invitati il conte della Ragione, a lui naturalmente ignoto, ci fece capire che se non ce ne andavamo con le buone avrebbe chiamato i carabinieri.
Moggi moggi guadagnammo l’uscita, ma giunti in piazzetta ci ricordammo del bidet e tornammo indietro per riprenderlo. Bussammo e alla finestra del primo piano il maggiordomo gridò «andatevene o chiamo la polizia!» «La chiamiamo noi la polizia se non ci restituite il bidet» rispondemmo noi. Pochi secondi e l’«accessorio» ci fu scaraventato dalla finestra. Il giorno dopo potemmo acquistare da Foto Capri le nostre immagini immortalate durante la festa e l’unico lato positivo della vicenda fu, che con le due ragazze, nonostante tutto, facemmo amicizia. Una amicizia tanto intensa che dura ancora oggi a distanza di quasi quarant’anni.

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Il saccheggio di Villa Malaparte


I bagni a mare erano la nostra ultima preoccupazione, mentre appena svegli cercavamo di escogitare sistemi sempre più raffinati per sedurre giovani fanciulle.
Terreno delle operazioni era la celebre Piazzetta con i tavolini dei bar che invogliano a dedicarsi animo e corpo al dolce far niente.
Le ore serali erano favorevoli quanto le mattutine.
Spalla delle mie performance era come sempre Carlo, che vestiva con grande eleganza una candida livrea, spacciandosi per il mio cameriere personale.
Ideai tre tecniche per le acchiappanze che adoperavo a seconda dell’età delle prede.
Se volevo abbordare una signora alto borghese annoiata, con il marito rimasto in città, davo l’impressione, nonostante la giovane età, di essere un personaggio importante. Per cui, seduto ad un tavolino limitrofo ed  addentando un Avana, mi sprofondavo nella lettura della pagina economica del New York Times. Dopo qualche minuto venivo interrotto da Carlo, il mio cameriere, che su un vassoio luccicante mi porgeva un telefono bianco dal filo interminabile che si perdeva all’infinito, annunciandomi che ero desiderato da un personaggio importante, a secondo dei casi, un famoso industriale, un blasonato o un vip a ventiquattro carati.
Infastidito rifiutavo la telefonata e scambiavo uno sguardo complice con la signora, che oramai era pronta per scambiare qualche frase di circostanza. Rotto il ghiaccio si cercava senza indugi  di passare ad infrangere qualcosa di più consistente ed il più delle volte il tentativo era coronato da successo.
Per abbordare le giovanissime fiori e lettere romantiche costituivano una miscela esplosiva in grado di fare mirabilie.
Identificata una preda, in compagnia di un’amica in genere orripilante, mi posizionavo in un tavolino nei paraggi e cominciavo ad esercitare, con profondità ed acuta introspezione psicologica, il mio mitico sguardo sessuale. Dopo qualche minuto Carlo, sempre nella veste di cameriere, si avvicinava alle ragazze e porgeva da parte mia una rosa rossa ed una lettera nella quale brevemente affermavo: “ Vorrei conoscervi, ma sono paralizzato dalla timidezza, volete avvicinarvi al mio tavolo a bere una coppa di champagne?”
Statisticamente, un terzo tratteneva il fiore scambiava un sorriso e continuava a bere l’aranciata ed a conversare con la compagna, un terzo gettava a terra rosa e lettera che, prontamente recuperate, venivano riciclate per un nuovo tentativo ed infine, fortunatamente, una quota accettava l’invito e si trasferiva immantinente al mio tavolo dove, da cosa nasce cosa, tra una battuta e l’altra, cercavo di fissare un ulteriore più efficace appuntamento, al mare o se possibile al night, dove la sperimentata tecnica di strofinamento ventrale dava sempre buoni frutti.
Per acchiappanze di massa distribuivamo per strada alle ragazze  più procaci volantini nei quali informavamo che il conte della Ragione nel suo panfilo organizzava una festa da mille ed una notte, durante la quale si sarebbe svolto un concorso di bellezza, del quale noi eravamo incaricati di una pre selezione da svolgersi in discoteca.
Reclutammo un fiume di teen agers tra le quali non riuscivamo a dividerci, per cui chiedemmo a Napoli rinforzi e giunsero Elio e Francesco, che presero di nascosto alloggio senza pagare nella nostra stanzetta, che possedeva un’uscita indipendente sulla strada.
Una sera mentre eravamo seduti alla tavola calda di via Roma, angolo piazzetta, dove consumavamo pasti frugali riutilizzando scontrini caduti a terra o recuperati sul bancone, affianco a noi si sedettero due ragazze da schianto in compagnia di una signora matura (da ragazza doveva essere stata una sventola) e da un barboncino rompiballe, il quale si intrufolava sotto tutti i tavoli abbaiando a squarciagola.
Vicino a noi sedevano due ceffi dalle facce patibolari, fortunatamente gracili quanto screanzati. Infastiditi dal cagnolino cominciarono a sbraitare, protestando vivacemente con le proprietarie che, spaventatissime, scoppiarono in lacrime.
Colsi la palla al balzo per presentarmi come campione di lotta libera, disponibile ad un cenno a polverizzare con l’aiuto dei miei amici gli scostumati molestatori. Voglio premettere che Carlo possedeva spalle robuste ed il nuovo arrivato Francesco, alto quasi due metri aveva un fisico da culturista; Elio era poco dotato fisicamente, ma era brutto da fare paura. Conclusione: i due se la diedero a gambe levate e le ragazze si trasferirono al nostro tavolo riconoscenti.
Fatta rapidamente amicizia ci confidarono che conoscevano un posticino da favola per fare il bagno. In un angolo appartato lontano da occhi indiscreti a tal punto da potersi immergere tra i flutti nature ammirando un panorama mozzafiato.
A noi come panorama interessava unicamente quello costituito dai seni delle fanciulle, per cui accettammo l’invito l’indomani di recarci in questo angolo di paradiso.
Un lungo e tortuoso sentiero conduceva a villa Malaparte, che da anni era abbandonata ed affidata ad un custode giudiziario che abitava ad Anacapri.
Lo scrittore, autore di libri immortali come La Pelle, dopo essere stato fascista ed essere riuscito grazie ad un’amicizia personale col duce a costruire la sua magione a ridosso dei Faraglioni, in età matura era divenuto comunista ed aveva deciso di lasciare la sua proprietà alla Repubblica popolare cinese, un’entità che all’epoca l’Italia non riconosceva come Stato. Ne era nata una causa con gli eredi dello scrittore e nelle more era tutto sotto sequestro. Per inciso dopo anni la giustizia ha dato ragione ai nipoti, che hanno trasformato la struttura in una fondazione per organizzare convegni di scienziati da ogni parte del mondo.
Detti uno sguardo alle finestre e notai che all’interno era rimasta la biblioteca dello scrittore stracolma di libri, anche rari e di numerosi carteggi con personalità della politica e della cultura.
Il primo pensiero fu di visitarla più accuratamente… e bastò uno spintone energico ad una finestra per penetrare all’interno. Quel che vedemmo fu sufficiente a prendere la decisione di ritornare col favore delle tenebre per compiere un’indagine più approfondita.
Dedicammo le ore solari al bagno con le ragazze e ad abbronzarci sullo splendido solarium posto sul terrazzo. Le anatomie esposte nella totalità della loro devastante bellezza non distoglievano però il mio pensiero che correva al tramonto.
Riaccompagnate in piazza le pulzelle ritornammo, muniti di sacchi, alla villa ed arraffammo l’impossibile. Io personalmente, oltre ad una cinquantina di libri antichi, presi un carteggio con Cesare Battisti, naturalmente l’eroe non il terrorista,  una raccolta di cartoline osé e centinaia di foto di conquiste femminili dello scrittore in abiti adamitici.
Era nostra intenzione di organizzare con una barca a motore un saccheggio in piena regola, ma fummo costretti a desistere, non certo per un perentorio richiamo della coscienza, ma unicamente perché dopo alcuni giorni ci vennero a trovare le ragazze che erano state interrogate dai carabinieri allertati dal custode.
Rinunciammo così a svuotare completamente la villa e ci contentammo di dedicarci soltanto alle procaci grazie femminili che per un poco avevamo trascurato.


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