8/5/2010
Da tempo sono affascinato dal tema della follia e mi sto documentando, attraverso colloqui ed interviste con psichiatri ed altri addetti al settore, ma soprattutto compulsando i testi fondamentali sull’argomento, dall’oramai datato Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam alle complesse elucubrazioni di Michel Foucault.
Volevo esordire con un mio contributo in coincidenza dello sceneggiato televisivo La città dei matti, ma non mi sentivo pronto e di nuovo sono stato tentato a scriverne quando ho dovuto tollerare, assieme ad altri utenti terrorizzati, alle scorribande verbali e fisiche di un demente in delirio di onnipotenza, su un autobus in un’ora di punta, senza naturalmente che nessuno intervenisse, incluso un terrorizzato vigile urbano.
Ora credo di poter cominciare a trattare il tema, partendo dall’antichità, in particolare dal mondo greco, la culla della nostra civiltà, il quale, a differenza delle società successive, non conobbe la reclusione dei folli, ma seppe convivere con le loro intemperanze, elaborando sofisticate forme di elaborazioni dell’alienazione mentale attraverso la convivenza, precedendo di millenni quelle che saranno le esperienze rivoluzionarie di Basaglia e di altri studiosi.
Nelle società antiche, la follia possedeva una forte connotazione mistica, essendo ritenuta derivante dall’influsso di qualche divinità (l'epilessia, ad esempio, per questo motivo, veniva chiamata morbo sacro). Il trattamento della follia era dunque di tipo mistico religioso e veniva praticato dai sacerdoti del tempio, che tentavano di alleviare i sintomi con riti e preghiere e nello stesso tempo tentavano anche di interpretare i sintomi del folle come se fossero dei messaggi provenienti da entità sovrannaturali. A volte la follia veniva considerata una punizione o una maledizione divina: in questi casi la persona giudicata folle veniva emarginata dalla collettività.
I greci distinguevano due tipi di follia, una delle quali era interpretata come un dono degli dei, è lo stesso Platone ad indicarci quale essa fosse: quella dell’artista ispirato che scopriva dentro di sé sublimi energie creative, del profeta in grado di leggere nel futuro, dei riti dionisiaci con i loro rituali di trance che permettevano di raggiungere l’estasi ed infine (la migliore, precisa il filosofo) l’amore, la più dolce delle follie, che permette all’individuo di confrontarsi con l’assoluto.
La follia poteva così divenire, a seconda dei casi, una malattia della mente o un potenziamento delle nostre facoltà.
Intorno al V secolo i Greci avevano un concetto della psiche diverso da quello che assunse in seguito. Per Omero era il soffio vitale che animava il corpo, per abbandonarlo dopo la morte. La cultura elaborò poi una diversa concezione per il concorso di correnti religiose e saperi laici, tra cui la medicina e la psiche concise con l’identità interiore dell’uomo, un’idea che da Platone verrà accolta dal Cristianesimo.
Sulla fisicità dell’intelletto dominò la lezione di Ippocrate (460 a.C. - 377a. C. ), il medico più autorevole del tempio di Asclepio, nell'isola di Kos, il quale valorizzò per la prima volta, nel De morbo sacro il ruolo conoscitivo del cervello, condannando le pratiche medico psichiatriche operate da sacerdoti e sciamani. Ippocrate riteneva che il corpo fosse formato da quattro umori: sangue (caldo umido), proveniente dal cuore, flegma (freddo umido) originato dal cervello, bile gialla (caldo secco) prodotta nel fegato, bile nera (freddo secco) secreta nella milza. La malattia era dovuta ad uno stato di squilibrio dei quattro umori presenti nell'organismo o solo ad uno di essi, oltre che da fattori esterni, come il clima o il regime alimentare. Alla sua scuola la predominanza dell’umore nero, secreto dalla bile portava ad un’indole triste, ritirata, pessimista: la malinconia (melancholia, dove melas significa nero e chole bile). Al contrario, la presenza di sangue rosso causava i caratteri passionali, rabbiosi: i ‘sanguigni’, termine usato ancora oggi. I trattamenti possibili erano di tipo fisico: bagni caldi e freddi, salassi, unguenti, purganti. Più tardi, attraverso i medici greci e soprattutto con Galeno (129-200 ca. d.C.), che riprese la teoria umorale di Ippocrate, queste ipotesi e queste pratiche giunsero anche a Roma, dove rimasero dominanti fino alla caduta dell’impero.
Dopo aver occupato una posizione importante nei riti religiosi, come nel tempio di Apollo a Delfi, ove si praticava la divinazione estatica, l’alterazione della coscienza venne interpretata durante il periodo di Pericle e di Socrate in maniera diversa ed alcuni fenomeni quali la possessione ed altri stati di alterazione della coscienza vennero relegati tra le manifestazioni dell’irrazionalità. Si operò una distinzione più marcata tra ragione e follia, una manifestazione estrema dell’inquietudine umana.
La tragedia sonderà ciò che di oscuro alberga nell’uomo, dal dramma di Eracle o di Medea, che uccidono i loro figli pur amandoli, alla violenza autodistruttiva di Aiace, all’ira funesta di Achille, fino ai fantasmi di Oreste.
Il mito sublimerà la follia e permetterà una convivenza quasi sempre senza traumi, un comportamento unico nella storia occidentale, dove si apriranno profonde fratture tra ragione e follia.
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