18/2/2010
Cavallino, Battistello, Vaccaro, Stanzione, Fracanzano e tanti altri
Cominciamo questo nostro excursus tra i pittori del secolo d’oro presentando una spettacolare Strage degli innocenti(fig. 1) di Niccolò De Simone, ben più imponente e sontuosa della composizione di identico soggetto conservata nei depositi del museo di Capodimonte, anche essa ispirata alla celebre tela eseguita nel 1611 da Guido Reni per la cappella Ghisilieri nella chiesa di San Domenico di Bologna ed oggi conservata nella locale pinacoteca.
La tela fa parte di quel gruppo di quadri di storia che Causa giustamente lodava distinguendo “il geniale eclettico tra Stanzione ed Artemisia Gentileschi delle grandi pale d’altare dal mediocre cavalliniano esecutore di mezze figure di sante”.
De Simone ambienta la cruenta scena, i cui personaggi sono al limite dell’espressività caricaturale, in un’architettura classicheggiante ispirata alla produzione di Viviano Codazzi, abituale collaboratore di Micco Spadaro, ma risente anche delle più antiche rielaborazioni fantastiche di Francois De Nome.
La soluzione prescelta dall’artista si basa sulla fissità dinamica della rappresentazione, con i gesti bloccati e l’uso di colori stridenti ed incarnati rossicci, mentre l’urlo straziante di orrore della madri sembra squarciare la tela e raggiungere l’attonito osservatore.
Presso lo stesso antiquario ho avuto modo di ammirare, in fase di restauro, un’intrigante Susanna ed i vecchioni(fig. 2) attribuita a Michele Ragolia, ipotesi da accantonare a favore di un autografo di Pacecco De Rosa, ispirato alle tele di soggetto analogo di Stanzione della Stadtisches Kunstinstitut di Francoforte, ma soprattutto di Van Dyck, un tempo a Napoli ed oggi presso l’Alte Pinakothek di Monaco, che presenta sulla destra l’identica fontana con putto, prelevata letteralmente nella tela in esame.
La pruriginosa sensualità della composizione si stempera in una narrazione nitida ed equilibrata, resa con una tavolozza nella quale prevalgono i toni freddi. L’innocente nudità della fanciulla è tutta risolta nel lucore smaltato del corpo e nella morbidezza della veste che la ricopre parzialmente, lasciando lo splendido seno alla bramosia visiva dei due vecchi, dai gesti teatrali e dalla cocciuta quanto insensata cupidigia.
Il dipinto appartiene alla metà degli anni Quaranta, nella piena maturità dell’artista, quando si fa sempre più convinta la sua adesione al classicismo di matrice romana bolognese, attraverso la lezione di Stanzione e gli esempi di Artemisia.
Andrea Vaccaro ebbe una produzione straripante, paragonabile a quelle, altrettanto copiose, del Giordano e del Solimena ed i suoi quadri furono molto richiesti all’estero, soprattutto in Spagna, dove si conservano alcuni suoi capolavori. Trovare una sua opera inedita sul mercato è perciò evenienza comune, come nel caso di questa elegante Maddalena(fig. 3), dallo sguardo meditativo e penetrante, dalle caratteristiche dita affusolate e dalla veste rifinita con cura attraverso una gamma cromatica di grigi rosacei.
Il suo stile, partendo da una matrice sostanzialmente caravaggesca, si aprirà ad un felice ripensamento pittoricistico di marca rubensiana e sfornerà una serie interminabile di sante a mezza figura, come quella in esame, molto richieste dalla committenza dell’epoca.
Interessante affiancare la sua tela a questa Giuditta con la testa di Oloferne(fig. 4), da assegnare al figlio Nicola, meno noto del padre e che finalmente potrà essere meglio conosciuto da appassionati e studiosi grazie alla recente uscita di una monografia.
Nicola è teso a conseguire un equilibrato bilanciamento tra un classicismo alla Di Maria e l’aureo giordanesco che caratterizza gran parte della sua produzione.
Nella tela in esame le figure si allungano, il contesto acquista un più ampio respiro, mentre i piani sono scanditi con più limpido ordito.
La generosa scollatura dell’eroina ricorda a viva voce molti dipinti del padre, che doveva venire incontro alle esigenze visive di una richiesta, che voleva adornare le pareti dei propri palazzi con immagini di sante, ma di bell’aspetto e con delle grazie ben esposte.
La Giuditta risponde perfettamente a questo canone con una perfetta simbiosi tra eroismo ed erotismo: il volto velato da una fiera malinconia, il caldo languore degli occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva dell’incarnato, plasmato con amore e compiacimento.
Questa tela, probabilmente un frammento, raffigurante Sant’Antonio da Padova(fig. 5), è attribuibile con certezza a Battistello Caracciolo, non tanto per la presenza del caratteristico monogramma, quanto per la classica pennellata del pittore, segnata da una luce calda proveniente dall’alto, che evidenzia il volto estatico del santo, intriso di tenerezza e di abbandono, il quale sembra intento a fissare a bocca aperta qualcosa che attira la sua attenzione, forse, come in altre composizioni simili, il Bambino Gesù, che doveva essere presente nella tela originaria, della quale questa in esame rappresenta un frammento.
Di Massimo Stanzione è la dolcissima Madonna in preghiera(fig. 6) da collocare nel IV decennio del secolo, quando il divino cavaliere definì il suo stile coniugando armonicamente il naturalismo caravaggesco con il classicismo dei pittori bolognesi, in particolare con la lezione di Guido Reni.
Il pittore realizzò un cospicuo numero di quadri a mezza figura, molto richiesti da una committenza laico borghese dai gusti raffinati, utilizzando colori brillanti accordati in toni semplici di giallo e bruno e di rosso e azzurro.
Tra gli esempi più noti la Madonna col Bambino del museo Ishizuka di Tokio, che condivide con la tela in esame la comunicatività delle emozioni ed il volto semplice della Vergine, definito con un tenue incarnato roseo delle guance e con uno sguardo dolce di cordiale familiarità, la Santa Caterina di collezione privata napoletana, identica nel modellato accurato del volto e delle mani e la Santa Caterina della raccolta Lemme di Roma, il cui velo presenta la stessa evanescenza materica di quello che cinge il capo della nostra Madonna in preghiera. Infine palpabili le similitudini cromatiche con la Sant’Agata di collezione privata madrilena, che presenta nelle pieghe del mantello gli stessi colori raffinati e cangianti dell’abito della nostra Madonna, giocata sui toni dell’azzurro vicino al bianco del velo ed al rosso della veste, che si intravede sopra le mani giunte in preghiera.
Pubblichiamo ora due importanti aggiunte al corpus di Bernardo Cavallino, il languido poeta cantore del fascino e della bellezza femminile.
La prima è un’Allegoria della pittura(fig. 7), della quale conoscevamo una copia, ad ubicazione sconosciuta, pubblicata da Ann Tzeutschler Lurie, in occasione della mostra tenutasi sull’artista nel 1985 tra Napoli e Cleveland, nella scheda di un’altra versione del tema conservata nella collezione Novelli.
La composizione è impregnata di colori delicati, dal rosso brillante al verde oliva ed al bianco tenue e riposante, mentre la mano, con grazia elegante, impugna un pennello dalla punta sottile, in grado di impreziosire con impalpabili velature la tela.
Con la sua abilità ad immortalare il fascino femminile, Cavallino aderì al requisito, preconizzato dal Ripa, di considerare la bellezza un indispensabile attributo della pittura ed attraverso la sua mirabile stesura del colore pagò volentieri un tributo allo atto del dipingere.
La collocazione della tela nel percorso dell’artista, a mio parere è da porre in contiguità, più che alla famosa Cantatrice di Capodimonte, intrisa di pittoricismo di matrice neoveneta, alla Giuditta ed Oloferne del museo di Stoccolma, realizzata negli ultimi anni di attività, per la materia cromatica più levigata affine alle soluzioni di luminoso classicismo di Charles Mellin, presente per quattro anni a Napoli e di Sebastien Bourdon
La seconda una Negazione di Pietro(fig. 8) potrebbe essere la versione autografa della copia che, assieme al pendant raffigurante la Liberazione di San Pietro dal carcere, si trovava nella chiesa dei Gerolamini, fino al 1982, quando entrambe le tele vennero rubate.
L’opera può essere datata intorno al 1640, in un momento in cui il Cavallino fonde mirabilmente l’influsso naturalistico del Ribera, del Maestro dell’Annuncio ai pastori e del Falcone con la narrazione lirica del Vouet e di Artemisia. Il potente chiaroscuro definisce la figura del santo con una delicatezza di tocco, che costituisce la cifra stilistica del raffinato artista, il quale è celebre ed apprezzato per la squisita sensibilità con cui seppe compiere il passaggio dalla favola pastorale al melodramma metastasiano, procurandogli un giusto posto non solo nell’Olimpo della pittura, ma anche e soprattutto della poesia.
Il Sansone e Dalila(fig. 9) costituisce un’importante aggiunta al catalogo di Francesco Fracanzano intorno al V decennio, infatti numerosi elementi di raffronto rinviano verso opere realizzate in quel periodo, quali il Bacco del museo di Capodimonte e per la figura di Dalila la Santa Caterina d’Alessandria dell’Istituto di Previdenza Sociale di Roma, tutti lavori realizzati dall’artista impreziosendo il ricordo dei modelli caravaggeschi attraverso un’interpretazione più sensuale portata in città da Artemisia Gentileschi.
Di Angelo Solimena è questo commovente Compianto(fig. 10), di piccole dimensioni, ma di grande qualità, realizzato attraverso l’uso di gamme cromatiche tenebrose, che evidenziano il dolore ed il dramma dell’avvenimento.
Palmari le similitudini della tela in esame nei confronti della Pietà eseguita da Angelo per la chiesa di San Bartolomeo in Nocera Superiore, pubblicata(pag. 67, fig. 24) nel catalogo della mostra tenutasi nel 1990 a Pagani sui due Solimena.
Entrambi i dipinti si rifanno, soprattutto nella resa naturalistica del Cristo, al celebre prototipo riberesco della Certosa di San Martino.
Questo Angelo custode (fig. 11) di piacevole fattura è stato impropriamente assegnato ad Agostino Beltrano, mentre Stefano Causa, lo ha collocato, giustamente nell’ambiente artistico ruotante attorno ad Artemisia Gentileschi negli anni durante i quali era impegnata alle tele della Cattedrale del Duomo di Pozzuoli.
Riteniamo che il dipinto possa essere attribuito ad Onofrio Palumbo, collaboratore della pittrice, per raffronti con il collega… che compare nella Natività di collezione privata napoletana, con il personaggio in basso a sinistra nella Madonna della Purità di S. Maria Egiziaca a Pizzofalcone e, per un particolare del volto, con uno degli astanti ai piedi della Crocefissione della chiesa di Santa Maria Apparente.
La tela è definita con una materia pittorica densa, che tende a coagularsi nell’incarnato, distendendosi poi al taglio della luce.
Completiamo questa nostra entusiasmante carrellata con un Grande pranzo tra le colonne(fig. 12), firmato per esteso” Francesco Magliuolo”, una importante aggiunta al catalogo di un artista noto solo ai più ferrati napolenatisti, del quale fino ad oggi la critica conosceva soltanto due opere certe: un dipinto di rovine , già in collezione Messinger a Monaco, firmato ed un Cristo e l’adultera, ad ubicazione sconosciuta, commissionatogli nel 1666 da un certo Giuseppe Rodeoro.
Un pittore che un documento reperito dal D’Addosio nell’Archivio storico del Banco di Napoli riferisce fosse capitato tra le grinfie di un mercante d’arte, che lo faceva lavorare “a mesata” sfruttandolo; dalla polizza si evidenzia come il Magliuolo fosse abile nel dipingere le figure oltre che le prospettive architettoniche. Si è ipotizzato da parte dell’Ozzola che possa essere stato allievo del Ghisolfi a Roma, ma al momento gran parte della sua produzione deve ancora essere identificato dalla critica.
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