Abbiamo già delineato la personalità di numerosi artisti stranieri attivi a Napoli nella prima metà del secolo XVII da Barra a De Nomè, da Finson a Schöenfeld, da Van Somer a Stomer e tantissimi altri; non era forse spagnolo il Ribera? Tutti costoro, per il lungo periodo di permanenza nella città e per la rapida acquisizione di caratteri tipicamente partenopei nella loro cifra stilistica, sono però da considerare napoletanizzati, anche perché è molto più quello che recepiscono dalla nostra cultura che quello che danno.
Alcuni, di ritorno nei loro paesi, saranno un ulteriore strumento di diffusione della pittura napoletana.
Discorso ben diverso da affrontare riguarda alcuni «grandi» del Seicento europeo da Velázquez a Poussin, da Van Dyck a Rubens, da Vouet a Mellin, a tutti i paesaggisti olandesi ed i caravaggisti francesi di stanza a Roma, che influenzarono prepotentemente, chi più chi meno, chi direttamente chi tramite seguaci o viaggi di aggiornamento a Roma dei nostri artisti, il decorso delle arti figurative napoletane.
Il quarto decennio del Seicento fu il periodo di più intenso rinnovamento e di più vivace emancipazione culturale per gli artisti napoletani. Per anni le esperienze pittoriche più svariate si affrontarono e si confrontarono come in un grande crogiolo per dar luogo agli orientamenti dei decenni successivi.
Tutti i pittori aggiornarono e modificarono il loro linguaggio al confronto di nuove forme espressive facendo tesoro degli apporti esterni, dall’esaltante colorismo barocco di Rubens e van Dyck, alle severe inquadrature del Velázquez, dall’aulico classicismo del Reni e del Domenichino al vernacolo quotidiano dei generisti romani; e poi ancora, dal sogno lucidamente evocativo del ritorno all’antico di Poussin, tinteggiato di preziose cadenze veneteggianti alle movimentate aperture del Lanfranco verso più dilatate soluzioni visive, senza considerare le sofisticate risposte al problema del rapporto forma luce colore suggerite in quegli anni da Artemisia Gentileschi.
Di questi influssi, oggi scandagliati a sufficienza dalla critica, risentirono vistosamente anche i caposcuola napoletani. Ribera e tutto il suo entourage furono attratti dal pittoricismo, giunto a Napoli attraverso le tele del Van Dyck e dei suoi seguaci genovesi e siciliani; mentre Stanzione, partito da un luminismo moderato e filtrato dalla lezione dei caravaggisti romani della seconda ondata, smorzò il suo retaggio naturalista entro toni lirico accademici di pacata narrazione e di grande luminosità sotto gli esempi degli emiliani e di Artemisia Gentileschi e fu seguito in questa conversione da tutta la schiera dei suoi seguaci.
L’influsso più importante sulla pittura napoletana fu costituito dal classicismo bolognese, il quale si esercitò in tre distinte maniere: attraverso le visite di aggiornamento dei pittori napoletani a Roma ed in Emilia, tramite l’opera degli Emiliani a Napoli, e con l’arrivo in città nelle grandi collezioni private, quali quella del cardinale Filomarino, di opere emiliane eseguite da Annibale Carracci a Lanfranco, da Albani al Domenichino ed al Reni.
Le due decadi fortemente dominate dall’influenza del classicismo bolognese vanno dal 1635 al 1656 e corrispondono al periodo di emergenza dello stile maturo di Stanzione, il «Guido napoletano», anche se prima di quella data lo stesso Reni era stato due volte a Napoli nel ’12 e nel ’21, mentre gli arrivi in città per lunghe permanenze del Domenichino e del Lanfranco risalgono rispettivamente al 1631 ed al 1634.
La diffusione della cultura classicista in ambito naturalistico a Napoli, grazie all’opera di Guido Reni e del Domenichino prima e del Lanfranco dopo, riveste grande rilievo, perché gli Emiliani, presenti numerosi a Roma, non solo dipingono, ma teorizzano con energia, dando una nuova dimensione alla pittura seicentesca.
I loro raffinati capolavori alla Galleria Farnese a Roma sono la meta di studio più ambita per tutti i pittori napoletani, Stanzione in primis, che ne traggono suggestioni, linfa vitale ed energia da trasferire sulle tele. Tutti tornano a Napoli con negli occhi e nella mente la grande lezione degli Emiliani. La grandiosa monumentalità della composizione e la delicata tenerezza nella espressione, unite al carattere melodrammatico dell’azione, rappresentarono una vera e propria rivoluzione per l’arte napoletana degli anni Venti.
Il primo ad arrivare a Napoli fu Guido Reni, già in città nel 1612, per il quale è stata già da tempo sottolineata dalla critica l’importanza ricoperta dalla lezione che egli ha svolto nei confronti di taluni aspetti della cultura figurativa napoletana.
Non è certo accettabile l’ipotesi, in passato avanzata dal Bologna, secondo il quale, già nel 1612, la sua presenza in città avrebbe insinuato i primi dubbi nella fede caravaggista degli artisti napoletani, fede che, come giustamente sottolineava il Causa, soltanto allora cominciava a trovare i primi proseliti. Ma senza dubbio negli anni successivi le sue opere influenzarono un’ampia cerchia di pittori napoletani da Cavallino a Stanzione, da Vaccaro al Falcone, e tale influsso, così profondo, non è imputabile unicamente alle poche sue tele prodotte a Napoli, ma anche alla conoscenza che tutti gli artisti avevano della sua produzione presente a Roma ed altrove.
Diverso discorso deve farsi per l’Adorazione dei pastori della Certosa di San Martino, che giunse tardi in città dopo la morte dell’artista ed esercitò una sua particolare suggestione sul Giordano e su tutti i giordaneschi fino agli anni di attività del De Mura ed anche oltre. La tela di San Martino è tra le opere più importanti del Reni, nella piena maturità dei suoi mezzi espressivi, e ben rappresentativa di quella tendenza a raggiungere esiti di pittura astratta quasi smaterializzata in «gamme paradisiache, contrappunti sempre più trepidi del tocco, digitazioni sempre più lievi ... un anelito ad estasiarsi, dove il corpo non è che un ricordo mormorato, un’impronta» (Longhi).
Il gruppo dei dipinti conservati nella chiesa e nella quadreria dei Girolamini ha una data di esecuzione controversa, forse non coincidente con il primo passaggio dell’artista a Napoli, come pure la Fuga in Egitto, la cui autografia è stata messa a volte in dubbio, anche se trattasi di una copia antica, ebbe chiaramente una sua efficacia educativa sulla schiera di giovani pittori che poterono ammirarla ai Girolamini.
Della celeberrima Atalanta ed Ippomene, che in passato era ritenuta un acquisto ottocentesco, sono oggi noti i documenti che dimostrano la presenza ab antiquo a Napoli della tela, nella celebre raccolta dei Serra di Cassano, per cui l’influsso della stessa sugli artisti che ebbero la ventura di ammirarla sarà stato certamente considerevole.
Il Reni fu a Napoli per un secondo soggiorno dal dicembre del 1620 fino all’aprile dell’anno successivo, per l’impegnativa commissione della decorazione della Cappella del Tesoro nel Duomo. Tale lavoro fu, assieme alla decorazione della Certosa di San Martino, la committenza più importante disponibile in città nella prima metà del secolo XVII. In entrambi i casi la parte del leone andò ad artisti stranieri, agli emiliani Lanfranco e Domenichino. Tale circostanza scatenò le ire degli indigeni, con a capo Belisario Corenzio, ras incontrastato degli artisti locali, il quale armò la mano di un sicario che ferì un allievo del Reni, provocando la repentina fuga dalla città del divino Guido, che era venuto a Napoli in compagnia dei suoi discepoli Gessi e Sementi, con un contratto record per quei tempi di 130 ducati per figura.
In seguito alla sua rinuncia l’onere dell’impresa fu dato nel 1630 ad un altro bolognese, il Domenichino e poi, alla morte di questi nel 1641, al parmense Lanfranco.
Sulla fuga del Reni si vociferò a lungo e molto dovette pesare anche il carattere non facile dell’artista; ad ogni modo il Corenzio, ritenuto vox populi responsabile, fu condannato all’incarcerazione.
In seguito il Reni, al culmine della fama, contesissimo e di indiscusso prestigio internazionale, non tornò più in città, ma continuò ad influire sulla cultura figurativa locale attraverso la sua opera, la cui fama non aveva più confini.
Alla figura del Reni sono collegati i suoi due allievi che lo seguirono nel suo secondo soggiorno napoletano: Giacomo Sementi, mediocre artista, dai modi pittorici strettamente aderenti allo stile del maestro, il quale non ha lasciato a Napoli alcuna opera e Francesco Gessi, al quale il Reni aveva promesso un incarico indipendente nella Cappella del Tesoro del Duomo e la possibilità di assumere commissioni private. Egli, quando il Reni fuggì da Napoli, fu costretto a seguirlo, quindi fece ritorno di nascosto con la speranza di ottenere un incarico personale nell’esecuzione dei lavori che nel frattempo erano stati affidati a Fabrizio Santafede. Eseguì un affresco in un angolone della cupola che fu ritenuto insoddisfacente dalla Deputazione, «fusse d’assai più esquisita perfettione», per cui l’8 febbraio del 1625 venne liquidato senza aver conquistato la fama sperata.
Risale a questo periodo, o al precedente soggiorno nel 1621, la commissione da parte degli Oratoriani di Napoli per due dipinti poi non eseguiti e convertiti in seguito nel solo San Girolamo della chiesa dei Girolamini, quadro dal solido impianto naturalistico, in cui le figure dei protagonisti sembrano decantare in un’atmosfera luminosa entro una sapienza di stesura di fonte inequivocabilmente bolognese.
A questa tela più famosa bisogna aggiungere una Sacra famiglia con San Giovannino conservata nella quadreria dei Girolamini, in passato ritenuta opera di un artista francese seguace del Poussin e che viceversa, per i particolari aspetti di grazia ed equilibrio e per i caratteri di classicismo maturo in cui l’ascendente reniano appare del tutto assorbito, è da ascrivere alla mano del Gessi, che probabilmente eseguì il dipinto, dalle piccole dimensioni e dal raccolto tono intimista, per devozione personale di qualcuno dei padri oratoriani che lo conservò nella propria stanza.
Dopo il ritorno a Bologna, il Gessi portò con sé l’esperienza, anche se breve, di lavoro al fianco del Santafede e del Caracciolo, producendo incosciamente nella sua attività successiva dei frutti che furono messi in luce da Andrea Emiliani, il quale notò larvate tangenze con la cultura napoletana nei quadroni per la Certosa di Bologna eseguiti nel 1645.
Importanza ben maggiore riveste la figura di Domenico Zampieri detto il Domenichino, presente a Napoli per 10 anni, dal 1631 fino alla morte, avvenuta il 6 aprile del 1641.
Egli fu, assieme ad Annibale Carracci e Guido Reni, uno dei grandi pittori bolognesi del Seicento appartenente a quella scuola pittorica che rinnovò il linguaggio artistico del XVII secolo.
Il Domenichino fu con lo stesso Reni e con l’Albani il vessillifero di quella riforma classicista dominante nella Roma di Clemente VIII, di Paolo V e di Gregorio XV.
Egli fu il più sofisticato pittore del XVII secolo e svolse un importante ruolo culturale anche sotto il profilo della teorizzazione dell’arte, nella cui stesura fu coadiuvato dall’Agucchi, allievo dei Carracci, prima a Bologna e poi a Roma, dove partecipò ai lavori della Galleria Farnese. Egli fu come rapito dalla bellezza semplice, classica ed elegante dell’arte di Raffaello e dei grandi maestri del primo Cinquecento.
Tutta la sua carriera è dedicata alla rievocazione della luminosa stagione del pieno Rinascimento, rivisitato alla luce di una consapevolezza critica e intellettuale aggiornata e tutto comincia nel clima della Galleria Farnese, palestra ed esempio imperituro per generazioni di pittori, saturo di cultura classica e ammirazione per Raffaello, ma anche di inquietudine e di sensualità, ove maturava il seme da cui sarebbe sbocciato lo stile, significativamente aborrito dai classicisti, che in pochi decenni avrebbe guadagnato l’intera arte europea, ossia il Barocco.
La sua fama ha oscillato per tre secoli tra l’ammirazione e il disprezzo: osannato dai contemporanei, che lo ritennero secondo solo al Raffaello, nel Settecento ebbe un momento di oblio, per ritornare in auge con la critica moderna, che è pervenuta ad una più chiara valutazione dell’età barocca e del suo primo momento classico.
Egli tese a fissare in immagini di statuaria evidenza le passioni fondamentali dell’uomo, piegando a volte le regole del più puro classicismo ed accostando i modelli di bellezza idealizzati alle corde più impalpabili degli umani sentimenti.
Talune volte ricadeva nell’imitazione pedissequa dell’antico ed in alcuni affreschi come il Sacrificio d’Ifigenia o il Rifiuto dell’Idolatria l’impressione è quella di trovarsi davanti ad una metopa greca dell’età di Fidia, più che ad una pittura.
Egli raggiunse le vette più eccelse della sua arte nel ’17, anno della celebre Caccia di Diana della Galleria Borghese, che segue il punto poeticamente più alto di tutta la pittura mitologica classicista del Seicento italiano e nei primi anni Venti in cui esegue le sue enigmatiche Sibille, simboli di bellezza ideale dall’espressione inquietante nei volti attoniti, come bambole di alabastro.
Dopo tanti anni di successo, il Domenichino, quando giunse a Napoli, era da tempo nella fase calante della sua espressione artistica ed il motivo principale del suo tracollo fu costituito dalla fortuna crescente di Giovanni Lanfranco, che di lì a poco verrà anche lui a Napoli per soggiornarvi molti anni.
Lo scontro decisivo avvenne nella chiesa di Sant’Andrea della Valle, dove, mentre il Domenichino «dipingeva faticosamente storie di Santi, ristrette in quadrature prospettiche rinascimentali con andamenti e ritmi da arazzi di Raffaello, il Lanfranco si arrampicava fulmineo nella cupola antistante riempiendola in pochi mesi d’un vortice di corpi aerei alla scalata del cielo» (Borea).
Era il 1627, anno della nascita ufficiale del Barocco nella pittura e il pubblico, levando il capo alla cupola radiosa, rimase a bocca aperta per lo stupore. La vicenda artistica del Domenichino era irrimediabilmente finita, il pittore decise di lasciare Roma e firmò l’11 novembre del 1630 il contratto che lo impegnerà per il resto dei suoi anni nei lavori per la decorazione della Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli.
Il compenso stabilito fu da record: 18.000 scudi che riuscirono a stemperare gli indugi e le perplessità del Domenichino, timoroso di lavorare nella difficile realtà napoletana, dove gli artisti stranieri non erano ben accolti dall’entourage dei pittori locali, come testimoniavano l’agguato a Guido Reni e le storie di avvelenamenti, associate alle minacce, più o meno sottili, che venivano propinate ad ogni occasione. Ma infine, l’ambizione per l’esecuzione di un’impresa che si annunciava colossale prevalse sulle paure e sulle riluttanze ed il pittore giunse a Napoli dove visse anni difficili per la rivalità dei colleghi e per un senso di solitudine ed isolamento che aumentarono nel tempo.
Egli si buttò anima e corpo nell’esecuzione degli affreschi e delle pale d’altare, certo di divenire l’artefice di una grande impresa: l’intera opera consisterà di quattro pennacchi, tre lunette, dodici riquadri nei sottarchi e cinque pale d’altare, una delle quali non completa, mentre la cupola, che egli riuscì appena a cominciare, fu lasciata incompiuta e quel poco che aveva fatto a tempo a dipingere fu «buttato a terra» come ci ricorda il biografo Giovan Battista Passeri e la decorazione ricreata interamente dal suo acerrimo antagonista Giovanni Lanfranco.
Il Domenichino aveva tradito da tempo le sue inclinazioni e, resosi conto che la committenza richiedeva grandi pale d’altare e vistose decorazioni, con cui adornare i grandiosi templi del mondo cattolico trionfante, si era adeguato ed egli, pittore di Historie e di paesi, accettò di dipingere estasi mistiche ed ascese celesti, glorificazioni ed allegorie.
Già a Roma egli si era convertito dal paesaggio al sacro, ma con ben diversa energia, fermezza e dispiegamento di mezzi espressivi. A Napoli i suoi affreschi, pur compenetrati dalla necessità storica di rappresentare glorie e paradisi, recano il segno drammatico di una grande impresa mancata: le sue nuvole sembrano sacconi imbottiti ed i suoi santi in levitazione arrancano disperatamente nel vuoto. Tutta l’opera procede lentamente come in preda ad una disperata agonia. Il Domenichino insegue un progetto di astrazione con gli stessi mezzi espressivi di un manierista di cinquant’anni prima ed il risultato è ancora più sorprendente alla luce della considerazione che in quegli anni a Napoli germoglia fruttifera la pianta del naturalismo e si vedono all’opera fior di artisti dal Battistello al Ribera.
Costretto a lavorare senza sosta dai suoi committenti che gli vietano di assumere qualsiasi altro incarico, tentò per qualche tempo la fuga, rifugiandosi presso la famiglia degli Aldobrandini, suoi antichi protettori, a Roma. Ma dopo poco fece ritorno, anche se di malavoglia, a Napoli, dove, sempre sotto le forti minacce fattegli dai suoi colleghi continuò pigramente a lavorare fino al 1641, quando morì, forse avvelenato, lasciando incompiuta la sua impresa, che fu proseguita dal Lanfranco, al quale si deve la realizzazione della splendida cupola e, per le pale d’altare, a Massimo Stanzione, cui spetta il vigoroso e drammatico Miracolo dell’Ossessa ed a Ribera artefice del celebre e spettacolare San Gennaro che esce illeso dal fuoco della fornace, un immenso rame che, restaurato per l’occasione, fu il gioiello della mostra sulla Civiltà del Seicento ed il cui dramma miracoloso si compie sotto un cielo azzurro come da sempre è quello napoletano.
Al Domenichino va collegata la figura di un suo gregario, Francesco Cozza, nativo di Stilo in Calabria nel 1605, il quale, come ci riferisce il Pascoli, si recò giovane a Roma per studiare pittura col bolognese prima del 1631.
Successivamente seguì a Napoli il Domenichino di cui fu collaboratore per alcuni anni; fu anche lui oggetto di intimidazione da parte dei corenziani, tanto da fare ritorno a Roma, forse nel 1634 o poco dopo, ove operò fino alla morte nel 1682.
Molte sue opere denotano la sua formazione domenichiniana e la piena adesione agli stilemi del classicismo bolognese.
Le opere riferibili al soggiorno napoletano dell’artista, la Madonna del cucito in San Bernardino e la Sacra famiglia a Capodimonte, indicano il contatto con la corrente classicista napoletana ed in particolare con Pacecco De Rosa.
Celebri sono le sue repliche della Madonna del cucito: una di queste venne esposta nel 1938 alla grande mostra tenutasi a Napoli sulla pittura di tre secoli e l’Ortolani nel suo acuto articolo introduttivo seppe ben delineare per primo i rapporti intercorsi tra il Cozza e la corrente purista, cui tanto cooperarono i pittori napoletani, da Pacecco, in primis, fino allo stesso Stanzione. L’Ortolani inoltre apprezzò molto il suo tipico gusto nella definizione meticolosa del panneggio: «quel suo rappreso e arricciato cartoccio che ne definisce tanto caratteristicamente la maniera». Sottolineò inoltre i prelievi ed i debiti che il Cozza aveva contratto con Artemisia Gentileschi, presente a Napoli in quegli anni, dalla quale aveva ricavato «le pure teste ovoidi fasciate d’ombre» della Madonna dell’Annunciazione e quel luminismo chiaro che ripeterà poi anche nella sua produzione romana.
In seguito altri studiosi dalla Mortari al D’Elia hanno confermato l’opinione di un ripetuto rapporto del Cozza con l’area pittorica napoletana; anche il Ferrari, per quanto concerneva gli anni Quaranta, ha parlato di «naturalissima osmosi tra Cozza e Guarino», affacciando l’ipotesi di un secondo soggiorno napoletano. Lo studio dettagliato della sua Madonna del cucito nella redazione conservata a Molfetta aveva indotto alcuni critici, come la Lo Presti, a parlare di miracolo artistico nella originalità di quelle biancherie, di quegli spigoli e piani inclinati, di quei cincischi a dorso di conchiglia, apparenze di manierismo nordico e düreriano che definivano un’ampia quota di autonomia dallo stile del Domenichino.
Altri autori hanno supposto che il Cozza, giovanissimo, prima di recarsi a Roma sia stato a Napoli nell’ambito naturalista tra Sellitto, Battistello e Finoglia; ma su questa ipotesi, come su altri punti oscuri della sua attività, saranno i critici futuri ad esprimersi.
Parmense di nascita, ma bolognese per educazione artistica, Giovanni Lanfranco è il terzo grosso personaggio che si affaccia a Napoli, chiamato a realizzare imponenti cicli decorativi.
Dopo la calma riflessione del freddo e religioso Domenichino, dopo la sublime ed astratta idealizzazione del Reni, ecco sulla scena l’inventore dell’illusionismo in pittura, dei famosi sottinsù che renderanno celebri tante cupole: con lui si schiudono nuovi orizzonti per la pittura settecentesca, «le leggi della prospettiva cedono all’illusione di uno spazio infinito, le forme, rese con rapidi tocchi, acquistano una nuova intensa vitalità» (Novelli).
A Napoli, roccaforte dei tenebrosi, erano programmate grandi imprese decorative, per le quali i più famosi artisti locali, non molto esperti nella tecnica dell’affresco, erano ritenuti inadeguati.
La Chiesa cattolica, negli anni della controriforma, in opposizione ai protestanti, che volevano spogli e disadorni gli edifici del culto, predisponeva fastose imprese decorative, mirando ad esaltare i santi e ad illustrare e semplificare i dogmi con l’ausilio delle immagini.
Questa opera di esaltazione vi fu a Roma come a Napoli, anche se da noi, per la presenza degli Spagnoli che gradivano forme di emulazione quasi mistica e per il carattere estroverso dei napoletani, alieno a formulazioni di astratta idealizzazione e di retorica celebrativa, le soluzioni stilistiche di tipo devozionale adottate furono più facilmente percepibili e collaborarono ad educare gli animi e ad «annullare ogni distanza tra Dio e l’uomo, tra il cielo e la terra, tra il trascendente e l’immanente» (Spinosa).
Il Lanfranco ebbe a Parma come primo maestro Agostino Carracci, quindi dopo la morte di questi, nel 1602, passò a Roma, dove studiò con Annibale nella grande palestra della Galleria Farnese.
Nel 1609 ritornò in Emilia per due anni e lavorò molto a Piacenza, dove realizzò numerose pale d’altare. Gran parte della sua produzione di quegli anni è oggi al Museo di Capodimonte, dove giunse nel 1734, insieme alle collezioni Farnese.
Al suo ritorno a Roma vi era un grande dissidio tra la corrente classicistica carraccesca e quella naturalistica caravaggesca, ai cui richiami il Lanfranco non rimase del tutto insensibile, principalmente nell’uso della luce, che lo collocò in relazione con alcuni artisti della cerchia caravaggesca, quali il Vouet e lo stesso Caracciolo presente a Roma in quel periodo.
E siamo agli anni della sua più famosa impresa decorativa, che impegnerà il pittore dal 1625 al ’27: la realizzazione di un affresco nella cupola della chiesa di S. Andrea della Valle a Roma.
Il Lanfranco si gettò nel lavoro con impeto e foga inesauribili, avendo come modello la soluzione adottata dal Correggio nelle due cupole di Parma, ove il limite materiale della struttura muraria aveva ceduto all’illusionismo aereo di uno spazio infinito.
Egli dipinge a colpi di spugna in una atmosferica animazione barocca che esalta la vibrazione del colore come un polline dorato, mentre «le figure si moltiplicano quasi all’infinito e si innalzano in un vortice di nuvole a cerchi concentrici verso la luminosa figura del Cristo dipinta nella lanterna» (Novelli).
Il Bellori, biografo dell’epoca, paragonò questa pittura alla musica, quando tutti i colori concorrono a formare l’armonia, come tutti i suoni si sublimano nel canto.
Il Passeri affermò, senza tema di smentite, che Lanfranco «fu il primo a delucidare l’apertura di una gloria celeste con la viva espressione di un immenso luminoso splendore».
Nonostante la gloria conquistata, negli anni successivi, a Roma, alla corte dei Barberini cominciarono lentamente ad affermarsi altri artisti quali Sacchi, Bernini e Pietro da Cortona; di conseguenza le commissioni pubbliche diminuirono, per cui il Lanfranco accettò volentieri l’invito dei Gesuiti di dipingere la vasta cupola del Gesù Nuovo a Napoli, seguendo in tal modo le orme del Domenichino, che si era trasferito all’ombra del Vesuvio già dal 1631.
Gli anni trascorsi a Napoli, dal 1634 al ’46, furono quanto mai fecondi per l’artista il quale, oltre che al Gesù Nuovo lavorò anche nella chiesa dei SS. Apostoli, nella Certosa di San Martino, nella Cappella del Tesoro del Duomo e nell’Oratorio dei nobili. Tra una decorazione e l’altra trovò anche il tempo di dipingere sontuose pale d’altare, da inviare in altre città italiane o all’estero come la grandiosa Annunciazione per la chiesa De Las Agustinas descalzas a Salamanca e partecipare ad importanti committenze al fianco dei principali artisti dell’epoca, non solo napoletani. Tra il 1634 ed il ’37 con Stanzione, Camassi, Romanelli e Domenichino inviò in Spagna alcuni dipinti con scene di vita dell’antica Roma per adornare il Palazzo Reale del Buen Retiro, mentre tra il 1635 ed il ’40 con Codazzi, Stanzione, Finoglia, Francanzano, Beltrano e la Gentileschi fu impegnato nell’esecuzione delle numerose pale d’altare richieste per arricchire il Duomo di Pozzuoli. La tela da lui eseguita, lo Sbarco di San Paolo, è tra le sue «immagini più potenti e nuove, per l’originale effetto scenico del luminismo abbagliante e contrastante nel primo piano, la pittoresca fantasia del fondale con la nave che ammaina la vela, e nelle figure di contorno qualche accenno a soluzioni pittoriche della sua foga di freschista, in senso pre-piazzettesco» (Ortolani).
Notevole è la sua produzione grafica: abile come disegnatore, al pari di tutti i grandi specialisti nell’affresco, che necessitano di una mappa accurata per organizzare il lavoro dei propri collaboratori. Attraverso i suoi numerosi disegni, più di 500, in gran parte conservati a Capodimonte, è possibile seguire tutto il processo creativo che portò all’esecuzione delle sue grandi imprese decorative.
Nel 1646 fece ritorno a Roma per eseguire la decorazione del catino absidale in San Carlo ai Catinari. L’anno successivo si spegneva e con lui scompariva il maggiore protagonista della prima fase del barocco nella pittura italiana.
La lunga permanenza del Lanfranco a Napoli ebbe una grande influenza sulla pittura locale ancora incerta tra manierismo, naturalismo e classicismo. Tra i suoi allievi diretti vi fu forse Nunzio Rossi, mentre il Beinaschi, per evidenti motivi anagrafici, non fu suo discepolo, come si legge in tanti libri, bensì si ispirò ai suoi modi pittorici. Molti altri artisti come Domenico Gargiulo e Bernardo Cavallino trassero linfa ed ispirazione dalla sua produzione; il Battistello, transfuga oramai dalla schiera caravaggesca, attraverso il suo esempio si convertirà all’affresco e lo stesso Stanzione irrorerà la sua pittura di una verità più dolcemente espressa.
Ma le sue opere, all’avanguardia sui tempi, esercitarono un forte ascendente più che sui contemporanei, sugli artisti sopravvissuti alla grande cesura rappresentata dall’epidemia di peste che colpì la città nel 1656.
Alla sua lezione si richiamarono per tutto il Seicento ed il Settecento il Preti, il Giordano, il Solimena e tanti altri pittori minori, che diedero vita alla grande stagione della decorazione barocca napoletana.
Oltre a quella del classicismo bolognese, un’altra corrente figurativa molto importante, che giunse e si sviluppò a Napoli intorno alla metà degli anni Trenta, fu il vandychismo, con le sue nuove, splendenti ed impreziosite intensità cromatiche, che ebbe grande popolarità e diffusione in città, sia per la probabile presenza di originali del Maestro, non documentati, sia per le numerose copie dovute al fertile pennello di Andrea Vaccaro.
Tali novità giunsero a Napoli, in parte attraverso la pittura genovese, sede di una tappa del viaggio in Italia del grande maestro anversano, ma principalmente grazie alla permanenza in città dal 1631 al ’33 del monrealese Pietro Novelli, soggiorno accettato unanimamente dalla critica, anche se non documentato, in conseguenza del quale la pittura napoletana poté comprendere ed apprezzare il nuovo messaggio di luminoso e caldo pittoricismo, che determinò lentamente una svolta nel gusto ed una crisi del naturalismo fino ad allora imperante.
Tali tendenze risulteranno poi maggiormente evidenti con l’arrivo del Grechetto.
Il Van Dyck nel suo viaggio attraverso l’Italia tocca Genova, Roma, Venezia per giungere nel 1624 a Palermo ove si reca alla corte del viceré Emanuele Filiberto di Savoia per eseguirne il ritratto e reca il soffio del rinnovamento, in veste europea, l’esuberanza dei colori del Rubens suo conterraneo ed il colorismo veneto da lui assimilato in Italia. Egli portò con sé «il mistero di quelle ineffabili velature, di quei toni di bruno coibente, quel bruno indimenticabile, caldo, fluido, in fusione» (Delogu).
Da allora la lezione del grande pittore fiammingo penetrerà profondamente nell’arte del Novelli, con la sua forma elegante, «la sua vivissima sensibilità pittorica di ascendenza neoveneta, la raffinatezza della tessitura cromatica e l’eleganza delle soluzioni compositive» (Petrelli).
Nei pochi mesi in cui il Van Dyck fu in Sicilia, tra la primavera e l’autunno del 1624, prima che la peste lo facesse fuggire via, il Novelli ne fu singolarmente attratto e ciò gli permise di oltrepassare i limiti del manierismo provinciale del padre, modesto pittore di un’arte essenzialmente illustrativa ed aneddotica e di risalire a fonti europee, divenendo a sua volta divulgatore e diffusore di un nuovo linguaggio pittorico. Egli prese dal grande anversano, come prelevò dagli spagnoli, arricchendo il suo vocabolario formale. La sua pittura chiesastica, fino a quel momento genuina e devota, divenne, anche se sommessamente, garbatamente mondana ed egli seppe raggiungere, nei momenti di felicità creativa, espressioni di austera e malinconica umanità, anche se non mancano tra tanti colori sgargianti, quelli cupi del dolore e della tristezza.
A Napoli con il Ribera ci fu scambio reciproco, dare ed avere in eguale misura, mentre il nuovo linguaggio pittoricista, riverberato dalla sua presenza in città, diede una svolta luminosa all’attività del Vaccaro e del Cavallino, di Cesare Fracanzano e di Giuseppe Ricca. Le tele napoletane del Novelli acquistano più lucentezza, filtrate attraverso l’uso modulato del colore e la raffinata ed elegante resa compositiva d’impronta vandychiana.
In seguito, a questo crogiolo espressivo si aggiungeranno, creando un giusto equilibrio, le esperienze dei neoveneti romani.
Nel 1613 era giunto a Roma un giovane destinato a grandi cose: Pietro Berrettini da Cortona, languido cantore di dolci sere d’estate, di ciocche brune che si intrecciano su candide nuche di donna. Egli darà un nuovo e fecondo impulso alla ricerca dei valori cromatici, attraverso uno studio ed una profonda riflessione sull’insegnamento dei Veneti, divenendo così uno dei maggiori interpreti del barocco romano, che sarà esaltazione del colore, espressione del virtuosismo come teatralità, fluido movimento delle figure e straordinaria leggerezza del tocco. Egli sul palcoscenico romano, il più vivo, il più articolato e ricco di esperienza del tempo in Europa, formicolante fucina di artisti e maniere diverse, superò i residui del classicismo bolognese, portatovi da Annibale Carracci e da Guido Reni e del naturalismo del Caravaggio e dei suoi numerosi seguaci italiani e stranieri e cambiò «faccia allo stile del dipingere» come giustamente proclamava Giovan Battista Passeri, il suo maggiore biografo. Ma quel «fracasso», quelle «licenze» e «ondulazioni», quei «frastagli», quella eccessiva molteplicità di figure, erano l’espressione di un mutamento profondo nel gusto della società del tempo o, per essere più precisi, delle sue classi dominanti.
Il nuovo verbo, sfarzoso ed illusivo, frenesia di colore e tripudio di forme librate nell’aria, si irradiò per tutta la penisola e giunse anche a Napoli, attraverso sue realizzazioni e per mezzo dei viaggi culturali che i pittori napoletani eseguivano periodicamente a Roma. Il Giordano è l’artista che ha contratto il maggior debito verso il Berrettini, da cui accoglie formule e soluzioni compositive; l’ecclettismo della sua ispirazione pittorica ed il suo sfrenato talento di colorista vanno ricondotte nell’orbita dell’influsso del neo venetismo romano di cui è paladino Pietro da Cortona, oltre che nello studio e nell’assimilazione della grande lezione dei cinquecentisti veneziani, in specie di Paolo Veronese.
Un esempio paradigmatico dell’attenzione rivolta dal Giordano ai prototipi dell’attività cortonesca possiamo osservarlo nel Sant'Alessio della chiesa del Purgatorio ad Arco, derivazione lampante della tela eseguita a Roma dal Berrettini nel 1638 e quindi inviata a Napoli alla chiesa dei Girolamini, dove costituì uno dei primi esempi di barocco.
In seguito anche Francesco Solimena dopo gli anni Ottanta seppe produrre risultati di nuova ed esaltante bellezza pittorica, attraverso l’originale ripresa e la brillante sintesi di formule e soluzioni degli esempi di Pietro da Cortona.
In precedenza abbiamo accennato al ruolo della pittura genovese, il cui apporto come tramite per la diffusione del linguaggio vandychiano nell’area napoletana non è da sottovalutare.
A tal proposito dobbiamo inquadrare la figura di Domenico Fiasella che, come ci ricorda il biografo Ratti, inviò molte sue opere a Napoli per adornare la chiesa della sua nazione, San Giorgio dei Genovesi, rimaneggiata nel 1620, che fino a pochi anni fa conservava due sue tele, oggi alla Pietà dei Turchini, la Crocifissione e la Madonna regina, che fu anche esposta alla mostra sulla Civiltà del ’600.
I rapporti culturali tra Napoli e Genova in entrambe le direzioni sono stati investigati negli ultimi anni da Pacelli, che ha fornito l’inventario della quadreria di Marcantonio Doria e ha documentato che molti artisti napoletani quali Battistello, Ribera, Azzolino e Santafede inviarono numerose loro opere a Genova ed alcuni di essi, come il Caracciolo soggiornarono nella città ligure, per committenza e studio. Di recente Pesenti ha ipotizzato un soggiorno a Napoli di Orazio De Ferrari. È così ragionevole ipotizzare che tramite questi pittori, in aggiunta alle tele inviateci da artisti genovesi, tra cui il Fiasella, giungesse a noi il luminoso messaggio del grande anversano, a lungo attivo in quella città ed anche le novità cromatiche del Rubens, del quale numerose tele si conservavano non solo nelle corti nobiliari, ma anche in numerose chiese di Genova.
In quegli anni Napoli è una città protagonista in ogni settore ed intesse rapporti commerciali con tutto il Mediterraneo. Il grande impulso impresso alle attività mercantili aveva indotto molti forestieri a venire da noi per intraprendere commerci ed aprire uffici di rappresentanza.
«Lombardi, genovesi, fiorentini, fiamminghi, siciliani, mercanti, artigiani nei vari ambiti di attività, artisti, cambiavalute e banchieri, tutti si stabilirono nel cuore della Napoli secentesca, diventando un punto di riferimento. Questi forestieri si ritrovavano intorno alla chiesa della loro comunità, che arricchivano con opere commissionate nella patria di origine o fatte eseguire in loco da artisti che condividevano aspetti della loro cultura» (Pacelli).
I genovesi, uniti intorno alla loro chiesa di San Giorgio nell’attuale via Medina, commissionarono opere ai loro connazionali, principalmente al Fiasella, o ad artisti come il Caracciolo, che aveva soggiornato nella loro città.
Il Fiasella negli anni Trenta, dopo la partenza dello Strozzi e del Castiglione, divenne a Genova il pittore più importante, con numerosi allievi, alcuni dei quali divennero famosi come Valerio Castello, Domenico Piola e Gregorio De Ferrari e dalla sua bottega inviava opere a Napoli, Messina, in Spagna e dovunque ci fossero comunità di suoi concittadini.
La corrente pittoricistica che prende quota a Napoli nella seconda metà degli anni Trenta, oltre ai modelli del Van Dyck e del neo venetismo, trae spunto dal lavoro incessante di Pieter Paul Rubens, l’artista più spettacolare e rappresentativo del gusto barocco, il cui messaggio gioioso ed irrefrenabile si irradia su tutta la pittura europea.
Nel 1640 giunge a Napoli nella collezione di Gaspare Romer il suo Banchetto di Erode, oggi ad Edimburgo, gemma della National Gallery of Scotland in un tripudio di colori, una musica soffusa nella fermentante vitalità degli accordi cromatici.
Il De Dominici ci parla dell’influsso che questo dipinto ebbe sul Cavallino che «accorso con altri pittori per vedere cosa di cui erasi sparsa così gran fama, e tanto bella gli parve, che quasi incantato dalla magia di que’ vivi e sanguigni colori con meravigliosa maestria adoperati, si propose imitarla».
È da questa pittura, luminosa e dilagante, che nascerà quella barocca, che troverà negli anni a venire in Luca Giordano il protagonista assoluto.
E diamo di nuovo la parola al De Dominici il quale ci rammenta che nelle case dei più grandi collezionisti napoletani, abitualmente frequentate dal Giordano, era possibile ammirare capolavori del Rubens: «opera non mai abbastanza lodata, essendo dipinta col più vivo colore che mai adoperasse quell’ammirabile pittore».
Il messaggio del Rubens, che da Venezia a Genova, città dove visse più a lungo, si irradiò per tutta la penisola, fu pregno di novità: intensità, calore e ricchezza cromatica, briosità di esecuzione, abbandono del chiaroscuro a vantaggio di colori vivi e vibranti di luce che cangiando muta i colori, caldi e ricchi di materia, massima libertà di esecuzione, con una pennellata grassa e fluida.
Tutti questi caratteri furono lentamente assimilati da generazioni di pittori, che ne fecero parte integrante della propria cifra stilistica.
L’adesione a questi nuovi messaggi linguistici da parte dell’ambiente artistico napoletano non significò un rifiuto della precedente esperienza naturalista bensì un arricchimento culturale ed un’occasione per sperimentare nuovi mezzi espressivi più ricchi e variegati, in grado di esprimere i sentimenti e le emozioni più profonde, in un clima di cordiale comunicatività e di naturalezza espressiva.
I soggiorni a Roma, anche brevi, erano frequenti e tutti gli artisti tornavano dalla città eterna con negli occhi un mondo tumultante di immagini in volo vorticoso negli spazi illusori di cieli infiniti, tra il dilagare di luci solari e di materie preziose.
Nell’aria si respiravano le creazioni dai colori squillanti che Rubens, tra una missione diplomatica e l’altra, ci donava, immagini di gioia, archetipo di mondi di felicità travolgente o si potevano ammirare le solenni composizioni di Poussin immerse in una calma serafica di un mondo regolato da leggi al di fuori del tempo e dello spazio; ma questa è la meraviglia dell’arte che ci offre il conforto di grandi certezze, di punti di riferimento sereni e sicuri e, nello stesso tempo, lascia libero spazio alla fantasia ed alla sensibilità di ciascuno di noi nel percepire il messaggio che l’artista ci invia e ci invita a raccogliere.
I rapporti tra Nicolas Poussin e la cerchia di artisti napoletani più influenzati dai suoi modi pittorici, da Andrea De Lione a Salvator Rosa, da Aniello Falcone a Micco Spadaro, sono accettati da tempo dalla critica più avvertita, anche se non è documentato alcun viaggio del francese a Napoli.
Nessuna sua opera è specifico punto di riferimento per analoghi soggetti eseguiti dai nostri artisti, ma sono i contenuti stilistici e formali dei suoi dipinti e la chiarezza di tono che riflette la particolare sensibilità del Poussin alla pittura veneta, in specie del Veronese e l’interpretazione personale che egli ne dà, ad influenzare quella ampia cerchia di artisti che comprendono il Grechetto, Andrea De Lione, Salvator Rosa e tanti altri.
Le grandi collezioni napoletane dell’epoca, da quella del cardinale Filomarino, a quella del mecenate Vandeneynden, alle meno famose dei Cellammare e dei Della Torre, possedevano alcuni dipinti di Poussin, mentre un altro punto di contatto è costituito senza dubbio dal viaggio di studio che negli anni Venti e Trenta i pittori napoletani erano soliti compiere nell'ambiente artistico romano, dove in breve Poussin era assurto a figura dominante.
Egli diede vita ad un modello di classicismo che, travalicando i tempi, è giunto fino ai nostri giorni e si fa apprezzare anche dal nostro gusto di moderni.
Il suo mecenate fu il poeta Giovan Battista Marino, il più grande dei letterati italiani attivo in Francia al tempo della sua giovinezza ed è merito suo se egli intraprese il suo viaggio in Italia; come pure è ai suoi dettami filosofici e morali che il Poussin si ispirò nella elaborazione del suo credo di artista impegnato.
Egli volle incarnare la figura dell’artista moderno, che non lavora più esclusivamente per committenze religiose o nobiliari.
Il Poussin, pur subendo l’influsso del fervido e variegato ambiente romano del secondo decennio del Seicento, fu creatore di una pittura personale, simbolo della più alta e solenne quiete e meditazione, attraverso la quale egli si calò in una straordinaria avventura intellettuale nella immensa dimensione di un passato che è insieme storia e mito.
Egli contribuì inoltre alla crescita ed alla diffusione della pittura di paesaggio e ciò rappresentò sicuramente un modello per taluni pittori napoletani, quali ad esempio Domenico Gargiulo, che prese spunto dai suoi quadri per l’esecuzione della lunetta con paesaggi, dipinta nel 1638 nel coro di San Martino.
Anche nel genere delle battaglie precorse un gusto che a Napoli avrà celebri epigoni in Aniello Falcone, Andrea De Lione e Salvator Rosa.
Nelle scene mitologiche, che furono il suo cavallo di battaglia, ebbe modo di incidere su Lanfranco, Domenichino, Falcone e sugli altri artisti napoletani che con lui parteciparono alla grande commissione di Filippo IV per abbellire il Buen Retiro a Madrid.
Solo con artisti come Guarino, Cavallino e De Bellis la critica non ha inquadrato ancora del tutto i rapporti, perché regna incertezza nella cronologia delle loro opere.
«Rispetto a Pietro da Cortona che vive, in quel tempo, esperienze affini nell’ottica della assoluta estroversione, Poussin rappresenta un polo dialettico di pura introversione, improntata all’idea della sollecitudine, dell’amicizia, della comprensione reciproca, dell’appartenenza ad un’ideale confraternita di sapienti» (Strinati).
Questi due diversi indirizzi ideologici giunsero fino a Napoli ed improntarono il destino delle arti figurative in un momento di grandi trasformazioni e di rimodellamento del gusto.
Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, uno dei maggiori pittori del Seicento italiano, è stato viaggiatore instancabile e nelle sue peregrinazioni è presente a Napoli dopo il carnevale del 1635 per alcuni anni.
In città i suoi dipinti non passarono inosservati, infatti possono essere rivelate diverse coincidenze stilistiche ed iconografiche tra le sue opere e quelle degli artisti che generalmente vengono assegnati alla bottega di Aniello Falcone. Egli possedeva una grande abilità nel dipingere animali e nature morte, tecnica acquisita da giovane a Genova a contatto con i pittori del nord Europa. Il motivo della sua venuta a Napoli è stato in passato collegato ad una rissa in cui fu coinvolto, ma non è da escludere che il Domenichino, arrivato poco prima, abbia avuto un ruolo nel suo trasferimento, perché come ci riferisce il Malvasia, aveva considerazione ed una grande ammirazione per i suoi colori, resi con impasti cromatici densi e caldi.
Il Grechetto nelle sue composizioni classiche è abile ad immettere un movimento barocco, che aumenta il dinamismo della scena; mentre per l’aspetto cromatico fu essenziale la sua conoscenza del Rubens e del van Dyck col quale fu a contatto intorno al 1620. Egli più che nelle ariose decorazioni di sapore barocco, dà il meglio di sé nelle composizioni a sapore naturalistico, nelle pitture con animali e nella natura morta.
Sfortunatamente il suo periodo napoletano rimane ancora in gran parte oscuro, perché non possediamo documentazione precisa dei suoi dipinti realizzati in loco, anche se sappiamo che molti di essi, oltre a vari disegni, specialità in cui era molto abile, erano raccolti nella celebre collezione del mercante Roomer, dove molti pittori erano di casa, per cui potevano trarre dalle sue composizioni elementi per affinare la loro tecnica.
Tra le sue opere conservate a Napoli ab antico ricordiamo una splendida Isacco e Rebecca nel museo di San Martino, una Donna con Bambino e natura morta nel Rettorato dell’Università, identificata dal De Rinaldis e già attribuita al Castiglione negli inventari ottocenteschi, nella quale alcuni dettagli come il piatto colmo di frutta, i panni damascati e la delicatezza cromatica nella descrizione dei fiori derivano chiaramente da modelli fiamminghi e fanno ipotizzare un possibile apporto del Castiglione al filone napoletano della natura morta seicentesca. Inoltre altri due capolavori in collezione Pisani, uno dei quali firmato, un Orfeo ed un Mosè che fa scaturire l’acqua dalla rupe, segnalati dal Bologna, nei quali l’artista si sofferma sullo studio minuzioso degli animali, delle suppellettili metalliche e del paesaggio, fornendo un valido spunto ai Petits maitres napoletani come Andrea De Lione, Niccolò De Simone ed Aniello Falcone.
Il 1630 è la data del viaggio in Italia di Diego Velázquez durato 18 mesi, di cui 12 trascorsi a Roma. La sosta a Napoli, ospite del Ribera, fu breve, ma certamente feconda per l’ambiente artistico locale, recettivo al messaggio di freschezza di immagini e sincerità di scrittura con la quale il grande pittore spagnolo aveva ritratto a Siviglia la gente della strada e quella delle taverne.
La complessa problematica velazqueziana dell’accordo luce spazio colore trovò presso di noi discepoli pronti ad approfondire il suo linguaggio moderno ed originale che è quanto di più ardito e moderno abbia prodotto, dopo Caravaggio, la pittura europea.
Un’opera che sicuramente il Velázquez ha eseguito a Napoli è il Ritratto dell’infanta Maria sorella di Filippo IV, che fu di passaggio nella nostra città nel viaggio verso l’Ungheria ove si sposerà con Ferdinando III. Questa opera sarà stata sicuramente ammirata dai frequentatori della bottega del Ribera, presso cui il sivigliano alloggiava e tra questi il Falcone, che certamente lo conobbe e da lui ha tratto la caratteristica dell’essenzialità del racconto, in opere come la spettacolare Maestra di Scuola, che sembra discendere direttamente dal pennello del Velázquez.
Un altro dipinto, oggi a Capodimonte, presente a Napoli dal Seicento, da taluni ritenuta copia di ottima fattura, da altri autografo è rappresentato da quella straordinaria trasgressione che infrange tutti i rigidi dettami accademici della pittura ufficiale, costituita dai Borrachos.
Riguardo al Falcone, oltre che sulla già riferita Maestra influssi tangibili si apprezzano in più di una battaglia ispirata al più rigoroso naturalismo e nella Elemosina di Santa Lucia, che secondo la definizione che ne diede il Longhi «viene più vicina a Velázquez che non possano i bambocciari di Roma, per osservanza caravaggesca sempre più contrastanti di lume».
Non ancora definitivo il parere della critica su quanto il Guarino ed il Maestro degli Annunci ai pastori, artisti attenti alla realtà ed alla vita popolare abbiano potuto prelevare dal bagaglio culturale del grande sivigliano, grazie al quale penetra finalmente nella pittura il palpito dell'osservazione diretta, in un clima di fresca visione naturale al di là delle convenzioni ideali e dei programmi teorici ed in questa frase possiamo riscontrare una conferma di ciò che asseriva il Berenson, che il Velázquez, fu non solo il più glorioso, ma per molti lati il più fedele dei seguaci del Caravaggio. Nel 1630, anno della presenza del sivigliano a Roma, il mondo delle arti è sotto pressione in un crogiolo infuocato di idee e di modi formali più diversi. Caravaggio è morto oramai da vent’anni e la linea del Piave del caravaggismo è affidata oramai al fervoroso e pittoresco manipolo di pittori che sono identificati sotto il nome di Bamboccianti.
Il Velázquez, forte del tirocinio naturalistico degli anni trascorsi nella sua città natale, interagisce con questa nuova realtà con la quale stabilisce un’immediata facilità di comprensione e talune volte di rifrazione.
I Bamboccianti ci offrono quella che, secondo la felice frase coniata dal Longhi, fu ritenuto un «caravaggismo a passo ridotto», una moda commerciale senza dubbio, ma anche, per alcuni degli artisti più rappresentativi del gruppo come Sweerts e Van Laer, un pretesto per ritrarre al fianco del riposo dei contadini e di altre immagini di vita quotidiana delle classi più umili, il superbo incontro con la delicata luce della sera, che suffonde un’atmosfera, in cui la vita appare come sogno fuori del tempo, nell’eternità del ripetersi di tutte le piccole cose.
Il forte richiamo esercitato da questi pittori fu ascoltato da Domenico Gargiulo e da Aniello Falcone; ed il merito precipuo si deve, oltre ai viaggi di studio dei nostri artisti a Roma, assegnare a Michelangelo Cerquozzi, presente per alcuni anni nella nostra città e considerato dalla critica il più attivo propulsore di immissione di cultura romana a Napoli. Egli collabora a Napoli con il Codazzi, col quale esegue la famosa Rivolta di Masaniello, nella quale con puntigliosa precisione ci racconta in tanti episodi la celebre insurrezione del 1647, con una ricostruzione fedele di piazza Mercato.
Questa sua cura nella descrizione degli ambienti circostanti e la capacità di evitare quella maniera convenzionale e pittoresca di narrare la scena di genere distinguono le sue opere maggiori da quelle più correnti degli altri bamboccianti.
Una posizione di primo piano conseguì anche nel campo della natura morta, come ci dimostrano le sue attuali altissime quotazioni nelle grandi aste internazionali, dove spesso compaiono sue opere di altissima qualità.
Altri bamboccianti attivi nella capitale vicereale furono Jan Asselijn, Thomas Wijk e Johannes Lingelbach, del quale si conservano in collezioni private alcuni suoi dipinti raffiguranti il porto di Napoli col Vesuvio eruttante.
Altri artisti napoletani che furono influenzati dai loro esempi furono Viviano Codazzi, Scipione Compagno, Carlo Coppola e forse anche Marzio Masturzo ed Ascanio Luciani, quei pittori cioè che sulle orme dello Spadaro si fecero illustratori della vita quotidiana e di cronaca della vita cittadina.
In contiguità con i bamboccianti vanno considerati i paesaggisti olandesi italianizzati, anch’essi attivi a Roma lungo tutto il Seicento, alcuni dei quali influiscono con le loro opere sugli specialisti napoletani del genere: Domenico Gargiulo, Filippo D’Angeli e Salvator Rosa.
I primi ad arrivare sono Cornelius van Poelenburgh e Bartholomeus Breenbergh, il primo abile a trasfondere l’effetto del sole del sud sui colori, il secondo amante di un paesaggio con rovine fatto di intuizione e di rapide annotazioni.
Alla seconda ondata appartiene Herman van Swanevelt, attivo tra 1630 ed il ’50, il quale non dipinge più rovine, ma paesaggi e la campagna romana, con effetti di luce delicata che ci rendono le sottigliezze dell’atmosfera rarefatta e quasi impalpabile.
Minore importanza rivestono i pittori della seconda metà del secolo e quasi nullo è il loro influsso sui nostri artisti.
Al fianco degli olandesi sono presenti a Roma i paesaggisti francesi: Lorrain, Poussin e Dughet.
Claude Lorrain, il più grande ed il più moderno dei tre realizza a Roma i paesaggi più lirici mai visti fino ad allora. Egli ha l’abitudine di trattenersi in campagna fino a notte fonda per poter ritrarre con precisione il tramonto e le ore della sera, il sorgere del sole ed il cielo rosso dell’alba. Egli è in grado di donarci l’ebbrezza del «sogno allo stato puro per il ritmo melodico, la sensibilità elegiaca, la concezione grandiosa, il sentimento lirico e l’evocazione della profondità dello spazio che generano e nutrono i nostri sogni» (Brejon De Lavargnée). A lui sono debitori non solo i pittori suoi contemporanei, ma gran parte dei moderni.
Di Poussin abbiamo già delineato la prepotente personalità, con lui la natura si rivela in tutta la sua bellezza ed il paesaggio assurge ad una considerazione mai raggiunta prima. Suo cognato Gaspard Dughet, nasce lo stesso anno di Salvator Rosa e ci descrive la solitudine della campagna con accenti preromantici; secondo il Baldinucci soggiorna un anno a Napoli tra il 1641 ed il 1644.
Dai suoi modi pittorici, derivano alcuni paesaggi spadariani caratterizzati da una grande apertura di orizzonte e da una ampia vastità di cieli.
Un maestro da non trascurare è Goffredo Wals, attivo nella prima metà del secolo XVII, nato forse a Colonia e morto a Napoli dove fu a lungo operoso, avendo tra i suoi allievi anche Claude Lorrain.
Il Capaccio riferisce che nella celebre collezione di Gaspare Roomer si trovassero ben 60 tele con suoi paesaggi. Egli introdusse un nuovo linguaggio pittorico in cui venivano valorizzati taluni effetti visivi: «Luci, riflessi, cadenze spaziali in immagini paesistiche, spesso silenziose ed incantate, prive di figure» (Salerno).
Egli influì certamente su Jacobus Mancadan, un pittore poco noto, che fu presente a Napoli, come è dimostrato dalla presenza di ben 168 suoi paesaggi nella collezione del Roomer.
Il caravaggismo a Roma, per quanto il grande lombardo non avesse una scuola o una bottega, fu un linguaggio ben presto adottato da schiere di artisti fiamminghi, olandesi, spagnoli e francesi, che ne assicurarono il successo, diffondendone lo stile al di là dei confini italiani. Per la prima volta viene a crearsi e si sviluppa ampiamente una pittura laica da cavalletto, destinata ad una clientela privata. Tra i caravaggeschi interessanti ai fini di valutare collegamenti con la pittura napoletana ci sono i francesi e su questo argomento già nel 1968 vi è stato uno studio del Rosenberg, direttore del Louvre, il quale ha raffrontato l’opera del Tassel, del Mellin e del Bourdon, oltre naturalmente del Vouet, nella cui arte, a suo parere, i rapporti con la pittura napoletana sono «impressionanti».
Simon Vouet con i suoi numerosi allievi rappresenta a Roma tutta un’ala del caravaggismo francese, di cui divenne ben presto leader. Trascorse in Italia 15 anni importanti della sua carriera ed i suoi dipinti, inviati in molte città, arricchirono le collezioni più prestigiose del tempo.
Egli fu fautore di un caravaggismo di seconda battuta, filtrato dall’interpretazione che ne diedero Carlo Saraceni e Bartolomeo Manfredi, così che, nel giro di alcuni anni, esso non rappresentò più per lui «un mito, una religione, una disciplina» (Causa), bensì un momento di riflessione e di comparazione verso altri modi espressivi, dall’arte del Poussin a quella di Pietro da Cortona, dai quali eclettico ed avido di studiare ed assimilare tutto, prese soluzioni che fece proprie.
In seguito il contatto che il Vouet ebbe a Genova con Artemisia Gentileschi produsse una tavolozza più luminosa ed una maggiore attenzione al dettaglio decorativo, in adesione alla nuova sensibilità barocca che andava diffondendosi.
Probabilmente egli non si spinse mai fino a Napoli all’epoca satellite della Spagna e quindi anti francese, ebbe però due commissioni importanti per chiese della città. Due pale di altare La circoncisione per S. Angelo a Segno e San Bruno che riceve la regola dell’ordine per la Certosa di San Martino.
Opere collocabili al 1622 ed al 1626, che furono eseguite a Roma e da lì spedite a Napoli, dove suscitarono notevoli consensi per il loro modo originale di concepire il caravaggismo, non più scuro, ma vicino alla gamma cromatica della Gentileschi.
La critica ha già da tempo investigato sulle strette affinità tra Vouet ed i napoletani; con lo Stanzione il contatto si stabilisce a Roma negli anni in cui Massimo collabora col francese, tra il 1623 ed il ’25, alla decorazione della chiesa di San Lorenzo in Lucina; Prohaska uno dei tanti napoletanisti stranieri, ha sottolineato scambi e parallelismi tra le opere del Vouet del 1622 - 25, sia a Roma che a Napoli e l’attività di Battistello Caracciolo oltre a suggestioni che possono evidenziarsi anche in alcuni dipinti del Finoglia, antecedenti al 1630.
Sotto il profilo iconografico il Vouet degli anni 1625 - 30, come lo Stanzione dello stesso periodo ed il Guarino ed il Cavallino degli anni Quaranta esegue numerose figure femminili, allegorie, eroine del Vecchio Testamento, sante, raffigurate spesso a mezzo busto, intense ed aggraziatamente decorative al tempo stesso.
E possiamo definirle, prendendo a prestito le parole del massimo cantore della nostra pittura «Sante che potevano all’occasione farsi figure simboliche, la Musica, la Poesia, il Canto, sante, martiri acconciatissime, fiorite come gemme di miniera, fiori di serra inattesi e sconosciuti, sin qui, nella loro bellezza tutta profana» (Causa).
Numerosi erano i quadri del Vouet nelle collezioni private napoletane, di molti dei quali si sono da tempo perse le tracce. La serie di tele più famosa è quella raffigurante Angeli con i simboli della Passione, già riferita dal Cochin presso il principe della Rocca suddivisa oggi tra due antiche collezioni di case nobiliari discendenti da quella dei principi d’Ottaviano, nel museo di Capodimonte e presso l’Institute of Arts di Minneapolis.
Il Celano riferisce di opere del Vouet nelle raccolte del principe di Bisignano, dei Sanseverino e del cardinale Filomarino.
In ambito caravaggista un’altra figura da considerare, fino ad ora negletta dalla critica, ad eccezione di alcune acute riflessioni del Leone de Castris, è quella di Giovanni Antonio Galli, detto lo Spadarino.
Egli è all’opera nella Sala Regia del Quirinale e lì probabilmente offre spunti al Caracciolo, che nel 1617 vi lavora al fianco del Tassi e del Saraceni.
Non è noto un suo soggiorno napoletano, anche se la presenza di suoi dipinti in prestigiose collezioni cittadine da quella del Roomer a quella degli Spinelli, lo rende molto probabile.
Oltre al Battistello, altri artisti dal Cavallino allo Stanzione «trassero spunti dalle sue raffinatezze e dall’accorto connubio tra naturalismo e preziosità classicista alla Reni, alla Domenichino, alla Lorrain» (Leone de Castris) per l’esecuzione delle loro opere.
Suggestiva è anche l’ipotesi che la sua caratteristica di inserire ali e colombe in molti suoi dipinti possa aver colpito la cerchia falconiana, che lavorò a lungo presso gli Spinelli ed in particolare il Maestro di Palazzo San Gervasio, anche lui incline ad inserire spesso dei volatili nelle sue nature morte.
L’ultima personalità «straniera» che prendiamo in esame è Charles Mellin, lorenese, i cui primi contatti con l’ambiente artistico meridionale risalgono al 1636, quando cominciò a lavorare alla decorazione della volta e delle pareti del coro dell’Abbazia di Montecassino, che furono completate entro l’anno successivo ed erano costituite da 15 composizioni, purtroppo distrutte dalla furia devastatrice dell’ultimo conflitto mondiale e delle quali possediamo soltanto una parziale e modesta documentazione fotografica. Di questo ciclo abbiamo oltre al ricordo delle fonti una serie di disegni preparatori relativi ad alcune scene.
Unico lavoro dell’artista presente oggi a Montecassino, nel refettorio, è un suo modesto dipinto, un Sacrificio di Abele, un tema biblico inconsueto, ricordato dalle fonti e che si credeva perduto, viceversa identificato da Spinosa, che ne ha riconosciuto anche un bozzetto nel museo di Nancy.
Nel 1643 il Mellin è documentato a Napoli ove si stabilirà fino al 1647, anno della rivolta di Masaniello, che indusse il pittore a ritornare precipitosamente a Roma.
Il Mellin, dotato di uno stile caratterizzato da pennellate fluide ed ampie stesure cromatiche, si distinse come uno degli interpreti più significativi di una corrente classicista, promossa dal cardinale filo francese Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli dal 1641, il quale gli procurò alcune committenze per importanti ordini religiosi. Tale movimento purista, chiaro e solare nella luce e nei colori, produsse un’immissione fresca e vigorosa di ricchezza nei colori, scandita in preziose desinenze neo venete, che suggestionarono sia Pacecco De Rosa che il Vaccaro ed infine lo stesso Cavallino, i cui quadri degli ultimi anni interagiscono all’unisono con le calde luminosità delle opere dell’artista francese.
Appena arrivato a Napoli il Mellin eseguì una Purificazione della Vergine per l’altare maggiore della chiesa dell’Annunziata, dipinto perduto nel 1757 a causa di un incendio, ricordato dal Cochin nel suo famoso ed attento diario di viaggio e del quale rimane un’acquaforte del secolo XVII.
Nella collezione del cardinale Filomarino vi era un San Pietro e l’angelo scomparso come gli altri dipinti della raccolta nei tumultuosi giorni della repubblica napoletana del 1799.
Le uniche due tele che oggi conserviamo nella chiesa di S. Maria Donnaregina Nuova sono un’Immacolata Concezione eseguita nel 1646, un tema iconografico caro alla devozione napoletana, straripante di simboli mariani, immersi in una gamma di tonalità scure ed un’Annunciazione datata 1647, nella quale i modi pittorici melliniani manifestano palesemente elementi di tangenza con lo stile stanzionesco.
Dal 1627 - 30 fino alla morte per oltre vent’anni è presente a Napoli Artemisia Gentileschi, che più che straniera (pittrice romana amava definirsi) bisognerebbe correttamente considerarla napoletanizzata a tutti gli effetti, come il Ribera e tanti altri pittori che, nati lontano, acquistano da noi la fama in lunghi anni di attività che incidono sensibilmente, a contatto con la realtà figurativa locale, nel variare i caratteri della loro pittura originaria.
Ella compare sulla scena artistica napoletana alcuni anni prima del 1630 e la sua influenza, in un reciproco rapporto di dare ed avere con la cultura figurativa indigena, è molto intensa.
Le sue notevoli capacità ricettive e di adattamento all'ambiente sono tali che la sua cifra stilistica in poco tempo diviene partenopea, la sua tavolozza si imbrunisce, acquisendo tonalità più squisitamente naturaliste in consonanza con la tradizione locale portata avanti dal Battistello ed anche la fisionomia di alcuni personaggi si «meridionalizza», la modella dell’Annunciazione sembra scelta tra le ragazze del popolo per i suoi colori spiccatamente mediterranei, i re che si prostrano nell’Adorazione dei Magi sono quanto di più spagnoleggiante si possa immaginare.
A lungo la critica ha ritenuto che Artemisia abbia dato più che ricevuto, ma oggi possiamo ritenere il bilancio in parità alla luce del fatto che la pittrice raggiunge la sua piena maturità e trascorre gran parte della sua carriera alle falde del Vesuvio.
I suoi rapporti con gli artisti napoletani sono molteplici dallo Stanzione al Finoglia, dal Guarino a Francesco Fracanzano, fino al Cavallino ed allo stesso Spinelli.
Il suo arrivo a Napoli offrì allo Stanzione più d’un motivo di verifica e di conferma della bontà dell’indirizzo stilistico intrapreso e favorirà una consonanza che si manifesterà in maniera esplicita quando i due lavoreranno assieme in importanti commissioni dalle Storie del Battista per il Buen Retiro, oggi al Prado, alle pale per il Duomo di Pozzuoli. Artemisia trasmise a Massimo la sua accentuata finezza coloristica che proveniva da una cultura pittorica temprata negli anni romani sotto l’influsso del Vouet. La Gentileschi fu «ravvivatrice del caravaggismo a Napoli dal ’30 e maestra a Massimo di giochi luministici di superficie, sia negli sfoggiati capricci dei panneggi, artificiati cartocci barocchi, sia nei tipici pezzati di tinte locali, dove ai bassi bruni e marroni del Merisi contrastano i solferini, i vermigli, i verdoni, i turchini» (Ortolani).
Paolo Finoglia è pittore dalle piacevolezze cromatiche, influenzato da Artemisia a tal punto che è difficile distinguerlo nei quadri non siglati.
Cavallino attraverso la Gentileschi risale direttamente alla fonte primigenia, costituita dalle opere del padre Orazio, come pure per via di Artemisia sfocia nella dolcezza e nella delicatezza del Vouet, affascinato da atteggiamenti, colori, inquadrature.
Qualche consonanza stilistica si apprezza anche in molte tele di Pacecco De Rosa e di Filippo Vitale, in particolare nel Giudizio di Paride della pinacoteca di Vienna, nel quale gli intricati nessi con la cultura artemisiesca fanno quasi ipotizzare l’ispirazione ad un prototipo della pittrice.
Ancora da esplorare a fondo e da definire con precisione le interconnessioni con Guarino, con Spinelli e con Francesco Fracanzano.
All’incontrario bisogna sottolineare le trasformazioni che la pittura di Artemisia subisce a contatto della cultura figurativa napoletana: «la tavolozza si scurisce, l’impasto si riscalda, l’epidermide si arrossa, si sporca, i panni spesseggiano» (Contini).
L’Ortolani era del parere che nei riguardi dello Stanzione il rapporto di dare ed avere fosse nei primi anni a tutto vantaggio di Massimo, dal quale Artemisia imparò a schiarire i suoi cupi toni bruni, fino a quando, indossata la nuova pelle combusta al sole di Napoli, ella ci regala «i più nitidi campi di chiare tinte vivaci e i suoi nudi e lenzuoli d’argento che essa accese come di bengala in pronti gesti e in artificiose fogge, rubando a Reni lo spalmarsi delle carni nella luce e giocando di traslucidità epidermiche».
Non bisogna infine dimenticare che la stessa Artemisia fu influenzata profondamente dal classicismo bolognese che costituisce a Napoli una corrente molto importante per la presenza del Domenichino e del Lanfranco al cui fianco la Gentileschi lavorò nel Duomo di Pozzuoli.
La committenza per il coro ed il presbiterio della Cattedrale di Pozzuoli fu un lavoro molto importante, che impegnò la pittrice per alcuni anni al fianco di artisti famosi quali il Lanfranco, lo Stanzione ed Agostino Beltrano.
Artemisia realizzò tre grandi pale d’altare I Santi Procolo e Nicea, il Martirio di San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli e l’Adorazione dei Magi. Opere collocabili cronologicamente tra il 1633, data che si legge sulla lapide dedicatoria posta nei pressi della prima tela, e il 1638, anno della partenza della Gentileschi per l’Inghilterra, dove soggiornò presso il padre malato per alcuni anni.
A queste pale va associata la celebre Natività del Battista, forse precedente di qualche anno e facente parte della commissione per adornare la residenza di Filippo IV di Spagna. Essa rappresenta una delle risoluzioni più attuali che l’arte italiana di quel tempo abbia dato di un soggetto religioso. L’opera realizzata coi puri valori tonali, atmosferici, della luce e sciogliendo il pretesto religioso nell’intimo calore sentimentale d’un ambiente realistico e familiare è uno stratificarsi dei panneggi in sfoglie sempre più sottili ed esili, condotte con inedito, paziente calligrafismo.
Artemisia a Napoli, in un ambiente prodigo di occasioni di lavoro, incontrò un grande successo, anche se nel suo animo rimase sempre una straniera «Io so’ romana!» e spesso soffrì per le condizioni di vita a volte disagiate della città: «in Napoli non ho volontà de più starce, sì per li tumulti di guerre, come ancora il male vivere, et delle cose care».
La Gentileschi, grazie al suo talento artistico, godette di un’indipendenza quasi eccezionale per una donna del suo secolo, diventando un simbolo dell'emancipazione femminile. Le sue quotazioni erano molto alte, giungendo ad essere pagata fino a cento scudi per ogni figura dipinta.
Spesso si imbestialiva per l’abitudine levantina dei committenti, già allora in auge a Napoli, di tirare sul prezzo: «non fo all’usanza di Napoli quando chiedo una cifra, che domandano trenta e po’ danno per quattro, Io so’ romana e perciò voglio procedere sempre alla romana». Ella eccezionalmente licenziava un dipinto che, oltre a quello del committente, non incontrasse anche il suo gusto personale. Ad ogni modo per conquistarsi un’ampia fetta di mercato edulcorò in parte lo stile aggressivo dei suoi anni romani, recependo in parte la corrente purista, sorta a Napoli dopo l’arrivo del Domenichino, adottando toni più pacati nel suo linguaggio, condito di brillanti eccipienti coloristici, esaltati dall’uso di una squillante gamma cromatica.
Dopo il soggiorno londinese, durato probabilmente fino al 1641, la Gentileschi tornò a Napoli, dove lavorò incessantemente fino alla morte avvenuta nel 1652 o 1653.
Non potremmo concludere la trattazione su Artemisia senza concedere qualcosa al «pettegolezzo», che avvolse tutta la sua vita, pedaggio doloroso per un’artista, che raggiunse un grado di emancipazione assolutamente inconsueto per una donna del suo secolo.
Cominciato il suo apprendistato artistico presso il padre Orazio, passò poi alla bottega di Agostino Tassi, un pittore che era anche una sorta di imprenditore degli ambienti artistici romani, capace di convogliare le energie di vaste schiere di artisti in grosse imprese decorative. Egli era un vanaglorioso, soprannominato lo smargiasso, approfittò della sua giovane allieva e fu accusato dal padre Orazio di stupro.
La vicenda, molto romanzata, ebbe il suo epilogo in un tormentato processo, al seguito del quale il Tassi fu condannato al carcere, ove dimorò però per soli otto mesi.
Un mese dopo il processo la Gentileschi sposò un fiorentino, ma la sua reputazione rimase macchiata per sempre per la natura libidinosa della vicenda.
Una conferma della gravità e della perpetuità del giudizio storico riservato alla pittrice la troviamo in questo singolare epitaffio comparso in un volume stampato a Venezia nel 1653:
«Co’l dipinger la faccia a questo, e a quello
nel mondo m’acquistai merto infinito
nell’intagliar le corna a mio marito
lasciai il pennello, e presi lo scalpello
gentil’esca de’ cori a chi vedermi
poteva sempre fui nel cieco mondo;
hor, che tra questi marmi mi nascondo,
son fatta gentil’esca de’ vermi».
Un anatema eccessivo riservato ad Artemisia incredibilmente presentata come una maga del sesso, piuttosto che delle arti figurative, spesso confinate ad un ruolo marginale nelle sue biografie.
(continua)
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