3/11/2007
Avvolto ancora nell’ombra l’itinerario artistico di Giacomo Recco e ridimensionato dagli studi più recenti, oltre che spostato cronologicamente in avanti, il ruolo di Paolo Porpora, Luca Forte, (Napoli? 1600/1605 circa - prima del 1670) risulta oggi la più antica personalità delineata storicamente tra i pittori napoletani dediti alla natura morta. Le poche notizie che possediamo ci permettono di ricostruire approssimativamente la sua data di nascita e di morte.
Il De Dominici ce ne parla nella biografia del Porpora, che sappiamo nato nel 1617, del quale deve essere senz’altro più vecchio, inoltre dal Prota Giurleo veniamo a sapere che presenzia come testimone al matrimonio di Aniello Falcone, nato nel 1607, di cui perciò deve essere più anziano, per inveterate consuetudini. Viceversa la data di morte possiamo collocarla cronologicamente prima del 1670, anno in cui si parla del pittore al passato in un antico manoscritto citato dal Ceci nel 1899.
Questa ultima circostanza ci conferma la presenza di Luca Forte nella bottega falconiana o, quanto meno, frequentatore di quella sorta d’accademia di studio dal vero che, intorno agli anni Trenta, raccolse a Napoli numerosi pittori.
Le notizie forniteci su di lui dal De Dominici, per quanto possano essere poco esatte perché il biografo narra gli avvenimenti dopo circa un secolo, ci permettono in parte di ricostruirne il cammino stilistico. Infatti il De Dominici ci riferisce che «le sue pitture non hanno troppo avanti e indietro e tutte le cose sono messe quasi a fila una dopo l’altra sul medesimo piano» tale indicazione è stata tenuta in gran conto da tutti gli studiosi che hanno cercato di identificare il percorso della produzione di Luca Forte, fino al recente ritrovamento di una Natura morta con vaso di fiori, frutta e limoni in una collezione napoletana da parte del Bologna, che ha permesso una rilettura del passo dedominiciano, nel senso che la produzione più antica del Forte sarebbe proprio quella caravaggesca «dell’avanti e dell’indietro», mentre quella più matura si evolverebbe verso un criterio compositivo più elaborato e proiettato su tutta la superfice del dipinto.
La prima ricostruzione della personalità del Forte fu fatta dal Causa che identificò tre sue opere siglate o firmate, che hanno fatto da raffronto per assegnargli altre tele. Esse sono: la Natura morta con frutta e uccelli, siglata, del Ringling Museum di Sarasota, la Natura morta di frutta e fiori, firmata, della collezione Molinari Pradelli e la Natura morta, firmata, già presso la galleria Matthiesen di Londra.
Negli anni più recenti sono state rinvenute altre tele siglate o firmate, che hanno permesso di allargare il catalogo dell’artista, sul quale permane il mistero della collocazione cronologica delle varie opere, per una soltanto delle quali è possibile stabilire un termine ante quem al 1647. Si tratta della celebre tela già Mortimer Brandt, oggi di proprietà del Ringling Museum di Sarasota che presenta, oltre alla sigla, una dedica ad un nobile napoletano, don Giuseppe Carafa, che venne lapidato nella chiesa di Santa Maria la Nova nel 1647.
L’attività del Forte si è probabilmente espletata tra il 1625 ed il 1655, ma il periodo di maggiore maturità artistica è considerato dalla critica più avveduta quello che va dal 1640 al 1650, sulla base anche di un carteggio intercorso nel 1649 tra il pittore ed il nobile mecenate messinese don Antonio Ruffo, dal quale si evince che il Forte poteva pretendere per un suo dipinto la ragguardevole cifra di duecento ducati. Un’altra circostanza che conferma il successo raggiunto dall’artista è la presenza di alcune sue tele negli anni Quaranta in una importante collezione madrilena, quella di Juan Alfonso Enríquez De Cabrera, che era stato viceré di Napoli dal 1644 al 1646. Tale constatazione, oltre a dimostrare la sua posizione preminente nell’ambito della prima natura morta napoletana, ci conferma gli stretti rapporti che il nostro artista ebbe con altre culture europee. Anche il guardaroba di Madama Reale a Torino riceve nel 1642 due suoi quadri di frutti.
E tali influssi reciproci si possono registrare non solo nei riguardi della Spagna, ma anche verso il nord Europa, patria riconosciuta del genere, come ci dimostra l’attento esame della tela Albero di pesche con tulipani e pappagalli, già d’Avalos, oggi in collezione della Ragione a Napoli, della quale esiste una replica autografa (senza la presenza degli uccelli), segnalataci dal Labrot, nella raccolta privata di Paul Getty a Malibu. Il Forte in questo dipinto utilizza una luce distribuita irregolarmente ed alleata con la penombra, esaltando così la rotondità dei frutti, il tutto in un’atmosfera di asciutto dettato naturalistico, ma soprattutto rappresenta i tulipani, presenti anche in altre due tele segnalate dalla Gregori, che sono un soggetto estraneo alla tradizione della natura morta non solo napoletana ma italiana, un tema viceversa molto frequente in Olanda, a partire dagli anni Trenta, sotto la spinta del successo commerciale di questo fiore.
Una tela che sta facendo tanto discutere e che dimostra lo stato di grande confusione attribuzionistica che regna oggi negli studi sulla natura morta napoletana è costituita dalla famigerata Natura morta con la tuberosa della galleria Corsini di Roma, che «presenta una struttura compositiva più semplificata, con gli oggetti raffigurati su un unico piano, su cui la luce si posa stagliando vividamente le forme sul fondo scuro e definendone il volume, secondo le modalità tipiche del naturalismo caravaggesco» (Tecce).
Questa tela fu considerata dal Causa e dal Volpe il momento iniziale dell’artista, anche sulla base di un presunto monogramma nel tralcio di vite e tale parere è stato confermato da tutti i principali studiosi, fino a quando nel 1990 il De Vito, non credendo all’esistenza del monogramma e facendosi forza con argomentazioni scientifiche difficili da seguire per chi non sia esperto di ottica, ha proposto come autore il nome di Filippo Napoletano, sulla base di analogie stilistiche con le poche tele riferite con certezza al pittore attivo presso i Medici dal 1617 al 1621.
Preso all’inizio come poco più che una provocazione, il parere del De Vito ha in seguito incontrato il consenso di autorevoli studiosi, quali la Gregori ed i curatori delle mostre tematiche tenutesi a Roma negli ultimi anni, tra cui Caravaggio e i suoi, nel corso della quale la tela è stata presentata come di ignoto pittore romano attivo nel terzo decennio del XVII secolo.
Questa convergenza di pareri ha fatto sì che lo stesso cartellino del museo ove la tela è conservata non porti più il nome dell’artista napoletano.
La critica attualmente tende ad escludere l’attribuzione sia a Luca Forte che a Filippo Napoletano, ancora troppo poco conosciuto e, seguendo quella che fu una proposta avanzata già dallo Sterling nel 1959, esclude che la tela sia napoletana e la colloca in ambito romano, in quel particolare momento d’inizio della natura morta caravaggesca, quando spuntano le figure ancora non ben definite del Maestro di Hartford, di Bonzi, di Salini, del Crescenzi e dello sfuggente Maestro della natura morta Acquavella.
Stupefacente è il paragone, proposto da alcuni studiosi, di affiancare la tela in esame alla Natura morta di frutta su un tavolo con un’alzatina ed una zucca presentata alla mostra romana del 1995 sulla natura morta ai tempi del Caravaggio, alla quale la legano strettamente affinità compositive, stilistiche e formali e soprattutto l’uso spettacolare della luce che sembra sgorgare miracolosamente ad illuminare dal buio fiori bianchissimi e frutti stagliati su un fondo che più nero non si può.
Oggi gli studiosi, mentre nuove opere siglate o assegnabili per raffronti stilistici incrementano il catalogo dell’artista, tendono a distinguere una evoluzione nel cammino del Forte, cogliendo un momento di trapasso tra la fase più schiettamente caravaggesca e le esecuzioni successive, che preludono al momento finale, coincidente con l’esordio sulla scena di Porpora, Giuseppe Recco e Giovan Battista Ruoppolo, nel quale egli tende a rialzare la composizione in senso verticale, obliterando la profondità di campo e smorzando quasi del tutto i secondi piani.
Sulla scia di Luca Forte va studiato l’operato di tre personalità di artisti che si ricollegano alla sua severa lezione realistica, mutuando, anche se in tono minore, la serrata e lucida capacità di definizione volumetrica.
Si tratta di un ignoto Monogrammista S.B., di Francesco Antonio Cicalese e dell’ancora anonimo Maestro della Floridiana.
La prima figura, il Monogrammista S.B., ancora poco conosciuto dagli studiosi, è stata diligentemente delineata dal De Vito nel 1990, il quale, espungendo dal catalogo di Luca Forte alcune opere come Frutta, dolce e uccellini di collezione privata, ha identificato la sigla S.B. e la data 1655 in due tele conservate in collezione Lodi, nelle quali vi è la stessa serie di oggetti che si osserva in altri dipinti, tra cui un dolce ripetuto alla perfezione tanto da costituire la firma nascosta dell’autore.
Negli ultimi anni il famigerato dolce e taluni altri particolari patognomonici dell’artista, quali l’uccellino morto rovesciato all’indietro sul piano di appoggio oppure un tenero ramoscello posto ai margini della composizione, sono comparsi in numerose opere passate sui mercati antiquariali internazionali con le attribuzioni più disparate, segno evidente della scarsa conoscenza di quest’ancora misterioso monogrammista, che pensiamo al momento possa collocarsi cronologicamente tra il V ed il VII decennio, in area centro italiana e nutrito su testi meridionali da Luca Forte al Quinsa.
Francesco Antonio Cicalese è attivo a Napoli intorno alla metà del XVII secolo e di questo artista minore, ma citato dalle fonti, non possediamo alcun dato biografico.
Fu il Causa a pubblicare la sua prima opera, firmata e datata 1657, Natura morta di frutta e fiori in un paesaggio che comparve presso la galleria Sant’Anna di Zurigo nel 1954.
In seguito sono comparsi due ovali in collezione Calogero a Napoli, firmati per esteso e databili 1642, nei quali palpabile è la relazione con i quadri di Luca Forte, nel comune trattamento luministico di derivazione caravaggesca e nella sagomatura del piano di appoggio.
Negli ultimi anni della sua attività il pittore si dedicò anche ad altri generi, come è confermato da una tela raffigurante Sant’Antonio da Padova in gloria, firmata e datata 1685 e conservata a Napoli nella chiesa di San Severo alla Sanità.
Modesta è la personalità del Maestro della Floridiana, un nome di intesa intorno al quale il Causa raggruppò un certo numero di nature morte legate da consonanze formali e stilistiche; in particolare tre tele di Frutta esposte a Napoli nel museo Duca di Martina nella Floridiana da cui il nome del Maestro ed una nei depositi di Capodimonte. In seguito il Causa segnalò altre due opere presso il museo civico di Prato e precisò i termini cronologici della sua attività che protrudevano oltre la metà del secolo.
La sua attività, attraverso «una scrittura secca e tagliente sul tipo di quella praticata dai generisti napoletani più nordicizzati della fase precedente» mostra notevoli somiglianze con l’ultima produzione di Luca Forte e qualche assonanza può essere rilevata anche con quelle poche opere assegnate con certezza all’altrettanto misterioso Quinsa.
Di recente la critica ha spostato l'ignoto maestro fuori dell'ambito napoletano.
La prova più tangibile dei serrati rapporti di contiguità tra cultura figurativa spagnola ed il fresco caravaggismo propugnato da Luca Forte ci è fornito dalla personalità, ancora tutta da definire, di Giovanni Quinsa, noto per una sola opera, firmata e datata 1641, alla quale la critica ha affiancato per affinità stilistica alcune altre tele.
Lo spagnolo è probabilmente attivo a Napoli nel secondo quarto del secolo come si evince dallo studio delle sue opere, che fanno da tramite verso il viceregno per esperienze dei suoi conterranei Blas de Lidesma e Van der Hamen, oltre allo stesso Zurbaran.
Il Causa riteneva che il Quinsa potesse essere stato l’artefice dell’introduzione di una specialità che in Spagna ottenne molto successo: la realizzazione di interni di cucina, i famosi bodegones, che da noi troveranno un interprete esemplare in Giovan Battista Recco, al quale il Bologna ha assegnato definitivamente la nota Dispensa che per alcuni anni la critica ha reputato dello stesso iberico.
Una personalità quella del Quinsa ancora da esplorare a fondo, probabilmente cercando le sue tracce nelle antiche collezioni private spagnole.
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