La pittura napoletana ottocentesca non raggiunge il livello e la notorietà del Seicento, il celebre secolo d’oro e del Settecento e se guardiamo il panorama internazionale impallidisce a confronto di ciò che da Parigi in quegli anni si irradiò in tutto il mondo. Nonostante tutto alcuni artisti da Gigante a Morelli, da Mancini a Gemito hanno conquistato un loro spazio nella storia dell’arte e nel gusto del collezionismo. Al loro fianco un gruppo nutrito di artisti minori, tra i quali un posto di rilievo è occupato da Eduardo Dalbono, l’inesausto cantore della napoletanità, il quale seppe trattare la luce come poesia e fu in grado di trasferire sulla tavolozza la bellezza dei paesaggi partenopei (fig. 1 – 2) e la gioia di vivere di garzoni e popolane, di vecchi e di guappi, oltre ad immortalare angoli dimenticati della città ed antichi mestieri (fig. 3). La superficie del mare, le dolci colline, le campagne in fiore erano rappresentati con una tavolozza variopinta con i singoli colori decomposti nei puri elementi dell’iride primitiva. I particolari di un quadro davano l’impressione di rime baciate, di strofe gioiose, di squarci di lirica, di veri e propri inni al calore della luce.
Eduardo Dalbono (Napoli 1841 – 1915) sin da piccolo respirò aria e arte in egual misura. Nipote di Consalvo Carelli, fu incoraggiato dal padre, Carlo Tito, celebre critico d’arte, a dedicarsi alla pittura. Anche lo zio Cesare, letterato e storico dell’arte, lo avviò precocemente allo studio della musica, del folclore e delle antichità. Cominciò a studiare a Roma con Angelo Marchetti e successivamente a Napoli fu allievo di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi. Aderì alla Scuola di Resina intorno alla metà degli anni Sessanta, affascinato dallo studio dal vero, dalla pittura di macchia e dalla tecnica di Giacinto Gigante, che rimase una costante del suo stile anche dopo l’adesione alla lezione del Morelli. Tra i più noti esempi di questo periodo vi è il dipinto Sulla terrazza, conservato a Roma nella Galleria di arte moderna, che raffigura la famiglia del pittore su una terrazza affacciata sul centro antico nei pressi della chiesa di San Pietro a Maiella. Nella tela il rapporto tra luce e figura è attentamente documentato e si riscontra un interesse verso il paesaggio urbano, dai tetti alle cupole e nello stesso tempo un’attenzione, di derivazione tomiana, per personaggi ed atmosfere della vita borghese dell’epoca.
Il suo esordio fu alla mostra borbonica del 1859 quando presentò il quadro San Luigi re di Francia fermatosi sotto una quercia rende giustizia ad una famiglia che riverente a lui ricorre (fig. 4) un soggetto originale che gli valse una medaglia d’argento.
Seguirono altre composizioni ispirate da celebri panorami napoletani, come Una tarantella a Posillipo (fig. 5), da Frisio a Santa Lucia (fig. 6), acquistato da Vittorio Emanuele II ed oggi nel museo di San Martino, Le streghe di Benevento e La piazza del Gesù Nuovo.Nel frattempo ebbe modo di cimentarsi con un soggetto storico: La scomunica di re Manfredi, che ottenne il primo premio all’Esposizione di Parma, ma rimarrà un caso unico nella sua produzione, ispirata al mare con i suoi colori mutevoli e sgargianti, alle isole del golfo, alle campagne vesuviane e ad illustrare episodi di vita allegra e chiassosa, dalla folla dei vicoli al frenetico caos dei mercatini.
Spesso egli si recava sui luoghi che voleva fissare sulla tela e prendeva appunti cercando di cogliere l’”attimo fuggente”, ispirandosi così alla tecnica della celebre Scuola di Posillipo, della quale il pittore può essere considerato come l’ultimo seguace.
Per anni le botteghe dei mercanti d’arte vendevano gli acquerelli di Giacinto Gigante, nei quali si poteva ammirare una Napoli viva e vera, come se rispecchiata da un vetro intiepidito dal sole. Dalbono volle continuare questa tradizione attraverso un senso di poesia più alato e vedute più larghe e meno accurate. Per lui dipingere un paesaggio significava dare libero sfogo alla fantasia, la quale, se necessario poteva prevaricare sulla realtà.
Seguendo questi dettami egli realizzò una delle sue opere più note ed affascinanti:La leggenda delle sirene (fig. 7), esposta a Milano ed a Vienna ed oggi presso la quadreria dell’Accademia delle Belle Arti. Un soggetto replicato con varianti più volte (fig. 8), a volte ambientato ai nostri giorni (fig. 9) perché rispondeva alle richieste del collezionismo privato. La critica lodò il dipinto sottolineando come l’artista abbia dato libero sfogo alla sua fantasia rielaborando l’antica favola, ambientata tra gli anfratti di un antro marino, dove la luce si diffonde tremula ed iridescente, illuminando le tre splendide figlie di Anfitrite: Leucosia, Ligea e Partenope, le quali risplendono nella loro prorompente bellezza con i fianchi seducenti e l’epidermide alabastrina e la luce che accende le nudità delle deliziose fanciulle nel gorgoglio della scia spumeggiante.
Il pittore si trasferì in una vecchia casa di Mergellina, all’epoca pittoresca contrada ai limiti della civiltà, da lui più volte immortalata (fig. 10 – 11) e nella confusione di un’abitazione popolata da una tribù di gatti, ognuno col suo nomignolo, produsse un’infinità di quadri di soggetto marino come Pescatori di telline (fig. 12), Tramonto a Posillipo (fig. 13), La voce (fig. 14), oggi conservata nel museo del Banco di Napoli, Ritorno dalla pesca (fig. 15) e tanti altri ambientati tra le stradine del centro antico, cupole, campanili, finestre, balconi, dove si svolgevano immutate nel tempo antiche tradizioni popolari e mestieri secolari: La baracca di Pulcinella, La panca dell’acquaiolo, Il voto alla Madonna del Carmine che fu ampiamente lodato dalla critica:” è Napoli dipinta coi colori di Pompei ed è Pompei che rinasce coi costumi napoletani, è storia ed è fantasia; è la volgare festa della Madonna del Carmine ed il paganesimo antico e moderno uniti insieme; è una visione luminosa di sirene cristiane ed è l’oscura vita di un povero barcaiolo; sono due drammi - la poesia e la prosa - ed è un dramma solo: la vita” (De Zerbi).Un altro suo quadro ampiamente commentato dalla critica fu La canzone di Piedigrotta: ”Nelle barche striscianti sul mare placidissimo tornano le liete brigate; due fanciulle innamorate si abbandonano al canto, schiudono le labbra di cinabro, ma socchiudono i grandi occhi come per godere e per ricordare. Di sotto i farsetti succinti, stirati sui fianchi opulenti, s’indovinano i palpiti, gli stimoli, i fremiti della giovinezza e del desiderio” (Scalinger).Il Dalbono si espresse non solo sulla tela, ma anche ad acquerello e ad acquaforte (fig. 16 - 17), come pure fu molto richiesto come decoratore ed illustratore. Ricordiamo le quattro grandi tempere realizzate nella sala da ballo del teatro di Salerno e gli affreschi nel teatro Massimo di Palermo e nei palazzi Pignatelli, Sirignano ed a villa Rendel a Posillipo. Nel campo editoriale per anni curò le pubblicazioni della Treves e dell’Illustrazione Italiana, ove vi sono pagine talmente belle da poter essere paragonate a dei quadri. Curò le illustrazioni dei Misteri di Napoli di Francesco Mastriani e molte poesie di D’Annunzio e di Salvatore Di Giacomo. Inoltre da ammirare il dipinto votivo donato alla chiesa di Piedigrotta in occasione della guarigione della moglie ed una pala d’altare nella parrocchiale di Gragnano._ La decorazione fu una sua specialità, in grado di trasformare soffitti e pareti di tante case signorili sotto la carezza del suo pennello. Purtroppo gran parte della sua produzione è andata perduta, anche se a sentire l’entusiastico racconto di chi ebbe il privilegio di ammirarla doveva essere molto pregevole.
Ancora oggi in occasione di aste o presso gli antiquari compaiono nuovi lavori inediti dell’artista, che ci confermano il talento di un acuto osservatore del vero, trasferito con le ali della fantasia nelle regioni del sogno. Possiamo così ammirare con nostalgia angoli della città e della provincia sconvolti dalla speculazione edilizia e dal degrado: Stradina di Resina (fig. 18), Terrazza sul golfo di Napoli, (fig. 19), I bagni della Regina Giovanna (fig. 20), Bagni alla Pietra (fig. 21).
La scomparsa, giorno dopo giorno, della vecchia Napoli, che tanto amava, lo intristì oltre misura ed accentuò la sua misantropia, a tal punto da chiudersi nella sua casa, così affollata di felini, da costringere i rari amici che venivano a visitarlo, tra cui il poeta Salvatore Di Giacomo, a respirare attraverso un fazzoletto intriso di lavanda.Vestiva con somma trasandatezza con in testa una mezza tuba, che mai si toglieva ed un cappotto sdrucito donatogli dal collega Altamura, indossato durante i moti del ’48. Durante le poche necessarie trasferte a Roma o a Parigi portava con sé fiaschi di acqua del Serino e non vedeva l’ora di ritornare a casa.
Presentato dal De Nittis al mercante francese Goupil, collaborò con lui dal 1878 al 1882, inviando da Napoli dipinti ed alternando anche brevi soggiorni parigini. Frequentò Mariano Fortuny durante la sua permanenza a Portici e ne subì l’influenza. Nel 1888 con il principe Giuseppe Caravita di Sirignano, suo protettore e mecenate, fu tra i fondatori del Circolo Artistico Politecnico, cenacolo di accese discussioni ed appassionati dibattiti culturali tra artisti ed intellettuali residenti in città e centro di confluenza delle tendenze simboliste di fine secolo.
Nel 1897 ottenne la cattedra di pittura presso il Real Istituto delle Belle Arti di Napoli, mentre dal 1905 rivestì l’importante incarico di curatore della pinacoteca del museo nazionale, (la quadreria attualmente a Capodimonte), incarico che esercitò dedicando soverchia attenzione alle raccolte farnesiane a discapito delle scuole regionali.
Una parte dei suoi scritti, il testo delle sue conferenze e di alcune sue commemorazioni fu raccolto poi e pubblicato da Benedetto Croce. Gran parte dei testi nascevano favoriti dalle accese discussioni che quasi quotidianamente si svolgevano a casa sua, tra l’invadente compagnia dei gatti e la luce sommessa dei lumi a petrolio, che mai furono sostituiti dalla corrente elettrica. A queste tenzoni letterarie ed artistiche sovraintendevano senza partecipare le anziane sorelle dell’artista e sua moglie, donna Adelina, fanatica wagneriana ed in gioventù splendida donna, tale da ispirare al pittore quadri dal soggetto di amore o di sogno come la leggenda delle sirene (fig. 7) o la favola d’Arianna. Il carattere dei frequentatori di casa Dalbono era scorbutico e le dissertazioni quasi sempre animate, anche se alla fine ognuno rimaneva del suo parere sull’eterna questione se nell’arte dovesse prevalere il rispetto categorico del vero o potesse avere libero sfogo la potenza della fantasia.
Il 23 agosto del 1915 cessò di vivere nella sua amata città di Napoli.
Caro Della Ragione
RispondiEliminaApprofitto ancora della tua cortesia in quanto autore della monografia su Edoardo Dalbono.
Mio padre negli anni 50 acquistò un grande acquerello(70x47) ed io una tavoletta(16x21),entrambi firmati in basso a destra.
Mi interesserebbe la tua opinione riguardo al periodo di esecuzione. Sbaglio ad ipotizzare per la tavoletta il periodo parigino?
Un cordiale saluto
Roberto Brusati
via di Porta romana 54 - 20122 Milano
roberto.brusati@unimi.it
Caro Della Ragione,
RispondiEliminaSono il collega milanese che ogni tanto ti disturba. Ho trovato in un mercatino un disegno(15x22) che una scritta successiva attribuisce al Dalbono. Il soggetto, l’esecuzione ed il fatto che raramente firmava i disegni, mi hanno fatto pensare alla sua mano. Ovviamente non sono un esperto ed il tuo parere per me è fondamentale.
Un caro saluto
Roberto Brusati
RispondiEliminaBuonasera
Mi chiamo Francesco Alessi.
Mi scusi se la disturbo ma ho visto e letto sul web un suo articolo che trattava del pittore Edoardo Dalbono.
Avendo acquistato un quadro che porta la sua firma vorrei sapere se lei potrebbe darmi qualche notizia in merito.
Il dipinto sembrerebbe un pastello su carta come bozzetto per un affresco ma non ho trovato informazioni in merito. Le allego la foto del dipinto con la speranza che Lei possa riconoscere il soggetto.
Grazie mille
Francesco Alessi
3334924583 Francesco Alessi ale.fra.1971@gmail.com