mercoledì 4 dicembre 2013

Lo scrittore che narrò la borghesia

Michele Prisco


Michele Prisco, nato a Torre Annunziata nel 1920, è scomparso nel 2003, scrittore e giornalista, ha saputo descrivere come nessun altro la borghesia napoletana con i suoi vizi e le sue virtù.
Nato e cresciuto a Torre Annunziata in un ambiente borghese che poi costituirà lo sfondo dei suoi libri. Si laurea in giurisprudenza e supera gli esami di procuratore legale, ma alla carriera di avvocato preferisce quella di giornalista e scrittore.
Nel 1942 viene pubblicato sul mensile del Corriere della sera, La Lettura, il suo primo racconto, Gli alianti. Prima di partire militare, collabora con la Gazzetta del Popolo di Torino e anche durante i lunghi mesi passati al fronte, prosegue il suo percorso di formazione grazie a commilitoni, in seguito divenuti amici di vita, come gli scrittori Gino Montesano, Mario Pomilio e il pittore Enrico Accatino. Alla fine del conflitto riprende l’attività giornalistica collaborando con varie testate, sia quotidiane che periodiche.
Nel 1949 pubblica il suo primo libro, La provincia addormentata, che gli vale la medaglia d’oro per l’opera prima al premio Strega di quell’anno. L’anno successivo Gli eredi del vento gli frutta il Premio Venezia per l’inedito.
Nel 1951 si sposa e si trasferisce a Napoli, città che ama e in cui vivrà fino alla morte.
Negli anni Sessanta e’, con Mario Pomilio, Domenico Rea, Luigi Incoronato, Gianfranco Venè e Leone Pacini Savoj, tra gli animatori della rivista letteraria “Le ragioni narrative” di cui sarà anche direttore. Continuò anche il suo impegno giornalistico come critico cinematografico e letterario e per un decennio ricoprì la carica di vice segretario del Sindacato Nazionale Scrittori.
E’ stato uno scrittore molto prolifico e apprezzato sia dal pubblico che dalla critica che ne amò subito lo stile ricco e pastoso. E anche il cinema lo scoprì, dando vita a una fortunata versione cinematografica del libro Una spirale di nebbia.
Nei suoi primi libri (La provincia addormentata, Eredi del vento e soprattutto Figli difficili) Prisco descrisse la borghesia partenopea, con tutte le sue debolezze e suoi limiti, fra cui l’incapacità di proporre per Napoli alternative concrete a una situazione di stagnazione sociale e economica che ne impediva lo sviluppo.
Successivamente lo scrittore, pur continuando a sviscerare il mondo delle classi medie della sua città, cercherà di inglobare nella sua analisi anche i ceti più popolari, senza però mai introdurre nei suoi romanzi quelle connotazioni macchiettistiche e di folklore che saranno tipiche di gran parte della letteratura napoletana del dopoguerra.
Lo scrittore amava trascorrere le vacanze nella villetta di Vico Equense, da lui chiamata affettuosamente “la casarella”.
Nel 1996, vince il Premio Cimatile, con l’opera “Il Pellicano di Pietra” (Rizzoli).
E’ morto a Napoli il 19 novembre 2003.
Tra i suoi libri ricordiamo
La provincia addormentata, 1949 (libro d’esordio)
Gli eredi del vento, 1950
Figli difficili, 1954
Fuochi a mare, 1957
La dama di piazza, 1961 (Premio Napoli)
Punto franco, 1965
Una spirale di nebbia, 1966 (premio Strega)
I cieli della sera, 1970 (premio Napoli)
Gli ermellini neri, 1975
Il colore del cristallo, 1977
Le parole del silenzio, 1981
I giorni della conchiglia, 1982
Lo specchio cieco, 1984
Terre basse, 1992
Il cuore della vita, 1995
Il pellicano di pietra, 1996
Gli altri, 1999
Diciamoci la verità: questa coppia di danarosi e scioperati manichini borghesi buoni a nulla, Fabrizio e Valeria Sangermano, protagonisti di “Una spirale di nebbia”, il romanzo con il quale Michele Prisco vinse il premio Strega nel 1996, oggi non ci dice davvero piu’ nulla, se non suscita nel lettore, proprio, comprensibili reazioni di violento disgusto. Tuttavia dopo le ultime e piu’ recenti prove narrative, è doveroso ricordare questo scrittore, scomparso poco piu’ che ottantenne il 19 novembre di dieci anni fa, come il narratore vissuto a Napoli che meglio e piu’ profondamente seppe coniugare la sua esistenza al mestiere di scrivere e che soprattutto mai, dalla fine della guerra sino alla morte, volle rinnegare (checchè ne dicano e facciano i vari De Luca, Saviano, La Capria) la propria appartenenza alla comunità partenopea. Lasciamo ora stare tutti i suoi libri (a cominciare dalla prima fortunata raccolta di racconti del 1949, “La provincia addormentata”) che hanno narrato, sulle orme d’un famoso giudizio di Benedetto Croce, la decadenza e la corruzione morale della borghesia, nel nostro caso di quella vesuviana che conosceva meglio e dalla quale egli stesso proveniva. Ma quel che stupisce e’ che Michele Prisco abbia perseguito con religiosa coerenza e costanza la propria poetica di “raccontare l’uomo” a tutto tondo, con vizi e virtù, quasi per tutta la vita. Alla fine, nel 1999, egli pubblica un romanzo, “Gli altri”, che pure aveva qualche perplessità a riscrivere essendo stato già abbozzato negli anni Cinquanta, in cui quell’ambizione ad esser definito “scrittore” e basta e insomma testimone del proprio tempo sotto ogni aspetto trova la prima vera e compiuta realizzazione. Ed egli aveva quasi ottant’anni. “Gli altri”, che ha come protagonista un’anziana insegnante di ricamo d’un istituto religioso trascinata d’improvviso, dalla tranquilla solitudine della sua esistenza, nel vortice d’una cristianissima dedizione appunto al prossimo, e’ in verità un bellissimo metà romanzo in cui l’autore intervalla alla narrazione lunghe pause di riflessione sulla stesura stessa della sua opera. Sono pagine in corsivo nelle quali Prisco racconta, fra l’altro, che questo e’ un libro in parte autobiografico e non ha difficoltà a dichiarare il proprio straniamento, la propria repulsione verso il mondo che ci circonda e che ancora oggi non e’ cambiato granché.” E’ probabile – vi si legge – che questo libro abbia inconsciamente sofferto d’essere scritto in un periodo di malumore al limite d’un astratto risentimento a non dire addirittura astio verso una società in cui non mi riconosco (e che non mi riconosce) che della volgarità e della ricchezza fa la sua araldica e la mette in mostra con assoluta naturalezza”. Pure, la protagonista, Amelia Jandoli, nel cui carattere riservato ma anche appassionato l’autore in parte invece si riconosce, finirà con l’immergersi con una generosità che non saprebbe definire altrimenti che cristiana in un fiume travolgente e trascinante di vicende drammatiche. E’ proprio in questa movimentata conclusione del romanzo che Prisco ci conferma non scrittore “napoletano” ma “meridionale e meridionalista” nel senso più ampio di questi termini riferiti ora al Sud povero del mondo intero, sulla stessa linea universale di narratori come Leonardo Sciascia e Gabriel Garcia Marquez.
C’è un filo forte, profondo, saldissimo che lega Michele Prisco ad un’attività che a lungo la critica ha ritenuto secondaria: l’attività giornalistica, quel secondo mestiere che e’ stato professione a tutti gli effetti e che non e’ mai stato davvero altro rispetto alla letteratura, alla scrittura dai tempi lunghi cui egli era particolarmente legato. Un’attività alla quale si e’ prestato attenzione ancor meno di quella, già insufficiente, riservata al Prisco scrittore di romanzi e di racconti, autore tradotto in molte lingue, narratore premiato già con la sua prima raccolta di racconti, La provincia addormentata del 1949, che gli valse la medaglia d’oro premio Strega. E le celebrazioni che l’Università Suor Orsola Benincasa, in collaborazione con il Centro Studi Michele Prisco, ha voluto promuovere per il decennale della sua scomparsa (il convegno odierno e una mostra documentaria aperta fino al 19 dicembre) vogliono essere un monito per proporre un ritorno a uno scrittore ancora poco presente all’interno della geografia e storia della letteratura italiana.
Il giornalismo era un secondo mestiere col quale Prisco aveva un atteggiamento spesso contraddittorio, come d’altronde molti suoi altri celebri colleghi tra Ottocento e Novecento, e come e’ spesso accaduto in tutta la storia del controverso rapporto tra giornalismo e letteratura. Eppure è stata un’attività fecondissima, che lascia in eredità 5.000 articoli (come ha contato Ermanno Corsi) e collaborazioni con 110 testate giornalistiche, quotidiane e periodiche. Da “il meridiano di Roma” (suo esordio, 3 agosto 1941) a “L’Arena”, da “Il Nostro tempo” a “Il Corriere della Sera”. Ma soprattutto il suo prezioso lavoro a “Il Mattino”, fino all’esperienza di giornalista professionista, titolo ottenuto nel 1962 anche sulla scia dei suoi successi narrativi, tradottasi in un lavoro di redazione e coordinamento che nel 1975, per volontà dell’allora direttore Orazio Mazzoni, lo ha assorbito in modo esclusivo, tanto da portarlo alle precoci dimissioni.
Nel trarre un bilancio della sua attività Prisco osservava:”Brutalmente, ho sempre considerato il lavoro giornalistico il mio gagnepain, diciamo il mio secondo mestiere, dal momento che non sono un narratore, anche se di buon successo medio, che possa vivere solo dei rendiconti dei suoi diritti d’autore”. Era la contraddizione di fondo che Prisco, e non solo Prisco, avvertiva tra due “prodotti” editoriali che avevano due tempi diversi: un prodotto stretto dalla morsa della quotidianità stringente, e uno invece legato ai tempi lunghi, attento al presente ma sempre rivendicando il privilegio di una distanza prospettica, una postazione dall’alto, come lo scrittore ha sempre voluto garantirsi.
Era la costrizione del tempo, unita a quella del tema e dell’ampiezza, che rendevano scettico Prisco sulla possibilità, anche nel mestiere di giornalista, di non “tradire la propria libertà interiore” (come ebbe a scrivere a proposito di una sua collega, Clotilde Marghieri, altra celebre firma de “Il Mattino”), della quale Prisco faceva quasi una religione. Era l’insofferenza a vincolare la propria scrittura. Eppure sono molti i pezzi giornalistici confluiti poi nei suoi volumi, che testimoniano in maniera incontrovertibile un accordo forse non voluto ma sicuramente realizzato. Un accordo che trova conferma anche nella dimensione narrativa dei pezzi giornalistici, in quel frequente prevalere dell’ “animale narrativo” che Prisco era fiero di essere.
Di recente il Suor Orsola Benincasa ha voluto ricordare la sua attività giornalista e di critico cinematografico, un’attività che mi permetteva di incontrarlo spesso al cinema Delle Palme e di poter scambiare con lui un parere sul film, del quale il giorno successivo leggevo la sua recensione sul Mattino.




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